Welfare aziendale visto con la lente del Fisco e non solo

di Cristian Valsiglio, Consulente del lavoro di Monza

A distanza di oltre due anni dalla circolare n. 28/E del 15 giugno 2016, l’Agenzia delle entrate ritorna ad analizzare compiutamente e in modo strutturato la disciplina che caratterizza la fiscalità del welfare aziendale.

Lo fa con la circolare n. 5/E del 29 marzo 2018, un documento di oltre 40 pagine, a commento delle seguenti disposizioni:

  • Legge 11 dicembre 2016, n. 232, art. 1, co. 160-162 (Legge di Bilancio 2017);

  • D.l. 24 aprile 2017, n. 50 convertito con modificazioni dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96;

  • Legge 27 dicembre 2017, n. 205, commi 28 e 161, (legge di Bilancio 2018).

Gli argomenti trattati sono numerosi, con indicazioni interpretative non sempre lineari ma tuttavia apprezzabili nell’intento di far chiarezza sul percorso attivato dalla Legge 28 dicembre 2015, n. 208, la quale ha provveduto a rivitalizzare la detassazione dei premi di risultato e la defiscalizzazione dei cd. servizi di welfare.

Tralasciando gli aspetti formalistici della circolare e le indicazioni prettamente rilevabili dalle norme è utile soffermarsi su aspetti controversi per stimolare tra gli operatori del diritto alcune riflessioni.

L’Agenzia delle entrate si sofferma in modo dettagliato sulla definizione di coinvolgimento paritetico dei lavoratori tramite il quale potrà essere sfruttato lo sgravio contributivo sui premi di risultato previsto dal D.l. n. 50/2017.

Mentre nella precedente circolare n. 28/E del 15 giugno 2016 si era provveduto a dare una definizione light specificando che rientravano in tale concetto schemi organizzativi volti a dare la possibilità ai lavoratori di esprimere opinioni di pari livello, importanza e dignità rispetto a quelle espresse dai responsabili aziendali; ora l’Agenzia delle entrate entra maggiormente nel dettaglio specificando che il coinvolgimento paritetico dei lavoratori deve essere formalizzato a livello aziendale mediante un apposito “Piano di Innovazione”. Detto piano deve essere elaborato dal datore di lavoro e può essere elaborato mediante comitati paritetici aziendali. I gruppi di lavoro di semplice addestramento o formazione non sono strumenti e modalità utili ai fini del coinvolgimento paritetico dei lavoratori.

Il Piano deve riportare: (i) la disamina del contesto di partenza, (ii) le azioni partecipative e gli schemi organizzativi da attuare e i relativi indicatori, (iii) i risultati attesi in termini di miglioramento e innovazione (iv) il ruolo delle rappresentanze dei lavoratori a livello aziendale, se costituite.

L’Agenzia delle entrate rimanda agli schemi di estrazione europea SOP (schemi organizzativi di innovazione partecipata) o PGP (programmi di gestione partecipata).

Con tale indicazione tuttavia l’Agenzia delle entrate ha burocratizzato la possibilità per le aziende di coinvolgere liberamente i propri lavoratori.

Altro tema trattato e di interesse, almeno inizialmente, poteva essere la possibilità di trasformare il premio monetario nei fringe benefit indicati al co. 4 dell’art. 51 del D.P.R. n. 917/1986 (auto, prestiti, fabbricati).

Tuttavia l’interpretazione fornita ha fatto completamente perdere l’interesse verso tale opzione in quanto non è più rilevabile un particolare vantaggio fiscale e contributivo.

Del resto è la stessa Agenzia delle entrate che afferma “A prescindere quindi da valutazioni di convenienza fiscale nella scelta di richiedere l’erogazione del premio di risultato sotto forma di benefit di cui al co. 4 dell’art. 51 del Tuir, l’intervento normativo va inquadrato sotto il profilo sistematico come completamento del principio introdotto dalla legge di Stabilità del 2016”.

Di più interesse sono le indicazioni sulla convertibilità del premio in contribuzione alla previdenza complementare. Tuttavia alcuni riferimenti normativi sono stati utilizzati troppo frettolosamente tanto da generare forse più dubbi che certezze.

L’Agenzia delle entrate considera il premio convertito in previdenza complementare al pari della trattenuta a carico dipendente di cui alla lett. h) del co. 2 dell’art. 51 del D.P.R. n. 917/1986.

La definizione di tale valore in qualità di contributo a carico dipendente apre tuttavia scenari non ancora completamente approfonditi sia dalla prassi sia dalla dottrina.

Infatti letteralmente ciò permetterebbe di considerare detta quota da un lato non soggetta al contributo di solidarietà del 10% (art. 9-bis del D.l. n. 103/1991) e dall’altro deducibile dal reddito di lavoro dipendente con l’effetto di creare un doppio vantaggio fiscale: non solo la non concorrenza al reddito oltre ai limiti di deducibilità ma l’ulteriore deducibilità in qualità di trattenuta.

Forse gli Enti interessati dovrebbero opportunamente ritornare sull’argomento.

In merito agli impatti del welfare aziendale sul reddito d’impresa, l’Agenzia delle entrate si spinge verso direzioni non troppo lineari e forse non pienamente in sintonia con la norma.

Relativamente al reddito d’impresa, infatti, si deve rilevare che dal combinato disposto dell’art. 100 e dell’art. 51, co. 1, lett. f) del Tuir il costo del welfare relativo a servizi di utilità sociale (finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto) è deducibile nella misura del 5 per mille del costo del lavoro ove previsto “volontariamente” dal datore di lavoro.

Viceversa, nel rispetto dell’art. 95 del Tuir, ove detti servizi siano concessi, alla generalità o a categorie di dipendenti, in conformità a disposizioni di contratto collettivo o di accordo o di regolamento aziendale, detti costi potranno essere dedotti senza alcun limite d’importo.

La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 29 marzo 2018 affronta la predetta tematica precisando che:

  1. detta disposizione opera non solo relativamente alle opere e servizi disciplinati dalla lett. f), ma anche per “le somme e i valori” disciplinati dalle successive lettere f-bis), f-ter) e nella nuova lettera f-quater);

  2. il Regolamento aziendale che consente la piena deducibilità ai fini del reddito d’impresa deve configurarsi quale un adempimento di un obbligo negoziale e non un mero atto unilaterale e volontario, privo di impegno nei confronti dei lavoratori, predisposto dal datore di lavoro.

Relativamente al primo punto tuttavia è opportuno rilevare da un lato che solo la lett. f) cita il riferimento dell’art. 100 e dall’altro che quest’ultimo articolo fa riferimento ai soli servizi di utilità sociale e non anche alle somme rimborsate e/o ai contributi assicurativi pagati previsti nelle successive lett. f-bis), f-ter) e f-quater).

Sul concetto di Regolamento aziendale forse ci si attendeva qualcosa in più. Qui il nodo è il significato di adempimento di un “obbligo negoziale”. Trattasi di un obbligo negoziale di natura collettiva, quindi derivante da un accordo collettivo sottoscritto con le OO.SS., o di un obbligo negoziale nei confronti dei singoli lavoratori? Sul punto è da ritenersi certamente idoneo ad attivare l’integrale deducibilità del piano di welfare il regolamento aziendale unilaterale che si conformi come atto genuino da ricomprendersi nel contratto di lavoro dei dipendenti ai quali si applica.

Ma anche su questo tema una delimitazione del perimetro sarebbe opportuna per evitare fattispecie capestro volte ad aggirare la ratio della norma.

In conclusione, pur apprezzando gli sforzi dell’Agenzia delle entrate, è necessario rilevare l’occasione persa per fare definitivamente chiarezza in modo da dare la possibilità ai datori di lavoro di programmare piani di welfare aziendale senza dubbi e incertezze.