Senza filtro – Sulla dignità del lavoro 2: la storia di Pippo (e di Carlo)

Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

È arrivata una letteraccia nell’azienda di Carlo e riguarda Pippo, l’apprendista assunto da poco più di un anno ed ora in misteriosa malattia da più di un mese. È una lettera non diversa da tante altre e parla di “atteggiamenti ostili” in azienda, di mancanza di formazione, di adibizione a lavori semplici come pulizie, magazzino, addirittura giardiniere. Così Pippo ha riportato “seri danni di salute, strettamente correlati al vissuto lavorativo, come da probante documentazione sanitaria”, la malattia insomma che sta subendo.

Sulle persone non si scherza e così, anche se qualcosa non torna, mi informo meglio (cosa sempre molto utile prima di prendere una qualsiasi parte). Ma non lo faccio con “il” Carlo (d’ora in poi mi perdonerete la concessione, tutta meneghina, dell’articolo davanti al nome e, peraltro, i nomi e qualche particolare personale – per ovvie ragioni di riservatezza – sono stati opportunamente deformati) che pure conosco bene e di cui dirò oltre. E non perché non mi fidi del Carlo, ma perchè in quella azienda ho due osservatori privilegiati.

Una è la Marisa, attenta e mite impiegata, che proprio una ventina d’anni fa trovò posto lì su mia segnalazione, dopo che una serie di vicende personali, collegate alla perdita del posto in cui lavorava, l’avevano messa in seria difficoltà. L’altro è il Gigi, ala sinistra velenosissima ai tempi dell’oratorio, uno che per fermarlo ti ci dovevi incollare e giocare d’anticipo, perché se prendeva il via erano guai per la difesa (lo so bene, toccava quasi sempre a me curarlo …) e ora operaio provetto.

La Marisa, quasi con fare materno, mi dice che il ragazzo è svogliato, che arriva spesso in ritardo (qualche volta lei lo ha pure coperto perché è giovane e le dispiace), che sono più i lunedì che si è messo in “malattia” che quelli in cui è arrivato al lavoro, che da come si comporta forse ha preso una brutta strada, forse ha problemi personali; che lei ha provato qualche volta a parlargli, che anche il Carlo lo ha fatto ma che non c’è stato nulla da fare. E ora questa malattia e questa letteraccia …

Il Gigi va giù un po’ più pesante: il ragazzo risponde male a tutti, ha sempre in mano il cellulare, spesso sparisce per delle mezz’ore (in bagno o sa Dio dove). La formazione c’è stata, eccome (il Gigi è trent’anni che lavora lì e ha imparato e insegnato il mestiere) ma lui non si applica, non gli interessa. Aggiunge che uno così non l’aveva mai visto, e sì che di ragazzi dal Carlo (buoni e meno buoni) ne son passati tanti … E poi aggiunge un particolare sul giardinaggio ed il resto; tu lo sai, mi dice, com’è il Carlo, quando non c’è lavoro (e in questi tempi il lavoro va a singhiozzo) per non farti stare a casa si inventa di tutto: le pulizie, il riordino del magazzino o dell’officina, tagliare il prato, lo facciamo tutti, anche io che sono specializzato. E anche questo mi torna, perché qualche anno fa me lo ricordo, il Carlo, a venire ad informarsi sulla cassa integrazione in deroga e, dopo averne capito i meccanismi e la penalizzazione economica per i dipendenti, dire: “no, io quella roba lì non me la sento di farla” e stringere ancora di più la cinghia mettendoci del suo.

Insomma, l’azienda del Carlo è una rude officina meccanica, sicuramente non concorrerà al “the best place to work” e non è dotata di area relax con annesso massaggiatore, ma è un luogo di gente perbene e operosa. Non è un’azienda “patogena”.

Di che ti stupisci, direte voi, quante volte hai visto lettere così, spesso con storie tirate per i capelli con lo scopo di spillare qualche soldo, una “vertenzina”, vantaggi sparsi. Ed effettivamente ne ho viste non poche, ma purtroppo il viziaccio di far ruotare i pensieri mi spinge a qualche riflessione, che numererò per non perdere il filo, anche se sono tutte concatenate fra loro.

  1. Provate voi a sentirvi accusare (ingiustamente) di far ammalare la gente. È qualcosa che ti ferisce dentro, specie se nella tua azienda ci hai messo l’esistenza e la passione, il sacrifico e la speranza. È peggio che se ti accusassero di aver rubato, perché in fondo è un furto anche quello, furto di salute, furto di serenità e di pace della vita di un altro. Non è qualcosa che si può scrivere con la leggerezza che tante, troppe volte ho visto. Nemmeno per fare l’avvocatucolo morto di fame (che ragiona di “causa che pende e che rende”) o il sindacalista difensore (a sproposito) dei poveri.
  2. I medici che attestano malattie come se gettassero coriandoli a Carnevale, gli psicologi che elaborano relazioni in cui si insinua (magari solo sulla base di qualche racconto infame, nemmeno accuratamente appurato) uno stress lavoro-correlato o un comportamento asseritamente vessatorio, non stanno tradendo la loro professione? Possibile, dico soprattutto a questi ultimi, che non si riesca a riconoscere la genesi personale ed intima di un problema (se poi esista davvero un problema o sia tutta una farsa), che la colpa sia spesso sempre e solo dell’azienda, anche se magari la fragilità sta nel vissuto di una persona, nei suoi rapporti famigliari, nella morosa che lo ha lasciato, nell’abuso di sostanze o di comportamenti, nel suo “disagio col mondo”?
  3. È giusto mi chiedo, ampliando il discorso, che le aziende diventino il terminale capro espiatorio dei problemi del mondo? Stai per 13-18 anni (quelli più importanti per la tua formazione fisica) in banchi e sedie scolastiche terribilmente scomodi e deformanti, ma se da due anni lavori in un’azienda e ti viene il mal di schiena è per via dello squilibrio posturale. Vivi in una delle zone più inquinate del mondo, ma se hai la rinite allergica si sospetta sia per la polvere che c’è in ufficio, o forse per il filtro del condizionatore che non viene cambiato tutti i giorni. Passi da anni le notti ad accecarti sui 6 pollici del tuo smartphone o smarrito in siti di incontri improbabili, ma se perdi mezza diottria è perché lavori al computer. Sei più testardo di un caprone e non rispetti le norme di sicurezza, oppure metti in atto comportamenti da vero idiota, ma se poi ti fai male la colpa è del datore di lavoro che non ti ha vigilato abbastanza. Vivi una vita da sfigato cronico o di totale sregolatezza o distonia, la moglie ti ha lasciato e i figli non ti vogliono più vedere, ma se non dormi di notte è per lo stress che ti arreca il lavoro. Fumi tre pacchetti di sigarette al giorno e non fai moto nemmeno se ti pagano, bevi e mangi come se fossi ad un baccanale continuo, ma se ti viene un infarto è perché fai un’ora di straordinario al giorno. Beninteso, non sto cercando alibi o scusanti ai doveri dei datori di lavoro ma, che ci crediate o no, ho citato casi realmente vissuti (e potrei continuare). Forse qualche esagerazione, qualche peso di troppo sulle aziende c’è.
  4. In ogni caso le persone sono materia delicata, qualche volta anche scomoda (o almeno impegnativa) da accogliere, ci sono equilibri difficili, è una bella fatica. In un mondo sempre più complicato per la vita delle persone, il posto di lavoro diventa davvero un importante snodo, un’occasione di incontro di opportunità, qualche volta anche scontro. C’è un enorme lavoro da fare sul materiale umano e sul come concepirlo.
  5. Non voglio, infine, prendere una posizione “di parte”. Un buon numero di quelle lettere sono vere. Le aziende patogene ci sono. Il mancato rispetto della dignità delle persone esiste. Di lavoro ci si ammala, e neanche poco, sul lavoro si può essere sfruttati, umiliati, non rispettati, non tutelati nell’integrità fisica e morale. Oppure si può essere rimbalzati in una serie di contratti occasionali, improbabili, mal pagati. Si può perdere la serenità e la speranza. Accade tutti i giorni, accade spesso. A volte per pura e dolosa scorrettezza, altre volte per ignoranza (inescusabile comunque). Ed è proprio per questo, lasciatemi dire, per la serietà della questione che non ti ci puoi infilare subdolamente, caro Pippo (o chi ti mal consiglia), perché non offendi solo il Carlo (che non se lo merita), offendi le tante persone che questi problemi li hanno davvero, ne mini la credibilità, offuschi la gravità del fenomeno per il tuo personale sciacallaggio.

La conclusione di questo discorso è difficile, perché il moralismo è un’insidia nascosta dietro l’angolo, ti distrai e … è un attimo. Forse è giusto che sia una conclusione aperta, incompiuta.

Partiamo dall’assunto che, come diceva Pavese, lavorare stanca. Che il lavoro richiede fatica e sacrificio, o quantomeno impegno e dedizione, e che senza l’accettazione di questo assunto fondamentale tutto diventa più pesante, intollerabile, improprio. Senza impegno, senza buona fede, senza sacrificio, non c’è dignità del lavoro, c’è lo stipendio forse, c’è “il posto” ma non c’è la persona. Il secondo assunto (ma solo in ordine di esposizione, non di importanza)  è proprio la persona, questo meraviglioso e complicato insieme di esigenze, di desideri e di speranze che siamo. Al lavoro ci sono le persone e se si riesce sul lavoro – in qualche modo e spesso con fatica e con reciproche rinunce – ad accogliere (che è anche termine più bello che conciliare) un po’ la loro vita si contribuisce al bene del mondo. Si rende il lavoro dignitoso, magari piacevole no, sarebbe un po’ troppo, ma almeno umano. Ci sono “compiti” per imprenditori e lavoratori, quindi. E a chi professionalmente si affaccia in questo complesso universo dobbiamo chiedere (cioè chiederci, ci siamo in mezzo) uno “sforzo educativo”; non la fornitura di alibi, di certificati fasulli, di espedienti-spazzatura, di scuse improbabili, di contratti o di regole capestro, di tempi determinati prět-à-porter o di tempi indeterminati inamovibili. Lato imprese, insegnare (per fare esempi) che la salute e la sicurezza non sono solo “un costo”, che  la maternità non è un affronto al datore di lavoro, che la precarietà che si semina è la precarietà che si raccoglie, che la lealtà e la condivisione verso i lavoratori pagano (e se non sempre pagano in termini di rendimento, la paga – caro datore – è comunque per te stesso). Lato lavoratori, consigliare correttezza ed impegno, una parola in meno sui diritti (che ci sono e non si discutono) e magari qualche concetto in più sui doveri, perché anche qui la prima “ricompensa” sta nel decoro personale che impari e ti costruisci.

In due parole, e al solo scopo di vivere con una bella dignità diffusa, quasi una mezza felicità, richiedere un serio impegno ed una grande disponibilità da una parte e dall’altra, che poi in tanti casi se si scopre che in fondo è la stessa, unica  parte, è anche meglio.