Sentenze

Angela Lavazza, Andrea di Nino, Luciana Mari, Elena Pellegatta, Consulenti del Lavoro in Milano

Il licenziamento ritorsivo di un giornalista: aspetti presuntivi

Cass., sez. Lavoro, 27 giugno 2022, n. 20530

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il fatto riguarda un giornalista professionista che ha rivendicato, in via stragiudiziale, la natura effettivamente subordinata del rapporto per tutta la sua durata e il proprio diritto all’inquadramento come redattore. Inoltre, dopo
aver ricevuto dalla società comunicazione di recesso dal contratto di collaborazione, senza alcuna motivazione, impugnava il recesso, qualificato come licenziamento, chiedendo che fosse dichiarata la natura ritorsiva del provvedimento espulsivo, con le conseguenze di legge.
Il Tribunale di Firenze ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto ritenendo il licenziamento illegittimo, formalmente per difetto di motivazione. Ha condannato di conseguenza l’editore a corrispondere al giornalista il risarcimento dei danni nella misura di 12 mensilità, riconoscendogli anche l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura di 8 mensilità. La Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, ha qualificato il recesso intimato
dalla società come ritorsivo, oltre che illegittimo per mancanza delle dovute formalità, costituito dalla reazione della società all’affermazione da parte del giornalista del proprio diritto alla regolarizzazione del rapporto di lavoro. Ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirlo del danno derivante dal recesso
nella misura di tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, dovuta al lavoratore quante ne saranno decorse tra la data del recesso e l’effettiva reintegrazione, detratto l’aliunde perceptum. La retribuzione, nella
misura di euro 2.057,38, viene quantificata considerando la maggiorazione per 13^ e le altre maggiorazioni previste e tenuto conto della media di 30 articoli al mese redatti, secondo il minimo tabellare previsto dal Ccnl.
Sia il giornalista che la società propongono ricorso per cassazione.
Il giornalista rivendica il riconoscimento della qualifica di redattore e la quantificazione della retribuzione dovuta ai fini reintegratori; la società rivendica l’inesistenza di una prestazione di lavoro subordinato al momento
della risoluzione.
Per la Cassazione i motivi, trattati congiuntamente in ragione dell’intima connessione, sono tutti infondati: l’inquadramento da attribuire al giornalista rimane quello del collaboratore fisso secondo criteri coerenti e logici. Nel procedere all’inquadramento hanno esaminato e accertato che le disposizioni del Ccnl di settore, i caratteri del collaboratore fisso nella continuità della prestazione non occasionale, il vincolo della dipendenza e la responsabilità di un servizio con riferimento all’impegno di redigere articoli su specifici argomenti, fanno inquadrare il lavoratore come collaboratore fisso. Quanto poi alla contestazione della presunzione del licenziamento ritorsivo in base al
solo elemento della sequenza temporale tra la rivendicazione della prestazione di lavoro dipendente e la risoluzione del rapporto di collaborazione, spetta al giudice di merito  valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni
semplici e nel caso in esame il ragionamento presuntivo si fonda sulla reazione della società avvenuta a soli 6 giorni di distanza dalla ricezione della lettera di rivendicazione della natura subordinata del rapporto.
Entrambi i ricorsi sono rigettati con compensazione delle spese.


Esposizione all’amianto e risarcimento ai familiari: rileva anche il danno morale subito dal lavoratore

Cass., sez. Lavoro, 17 giugno 2022, n. 19623

Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano

Con la sentenza n. 19623 del 17 giugno 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di risarcimento del danno biologico e morale dovuto alla prolungata esposizione di un lavoratore all’amianto. Gli eredi del lavoratore – deceduto a causa di una patologia collegata all’esposizione al materiale tossico – hanno lamentato la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per non aver attuato le dovute misure di prevenzione e tutela sul luogo di lavoro.
Nel caso di specie, è stato rilevato che il lavoratore fosse soggetto a due agenti cancerogeni differenti: il tabagismo, in quanto fumatore abituale che per anni avrebbe fumato 15-20 sigarette al giorno, e l’esposizione all’amianto,
in quanto lo stesso prestava attività lavorativa di saldatura. Ai fini della determinazione del danno patrimoniale,
la Cassazione ha corroborato l’interpretazione della Corte d’Appello che, in seconda istanza, ha evidenziato come esistesse un concorso di cause lesive che ha cagionato un evento unico e indivisibile. Alla luce della presenza
di un duplice fattore scaturente, i giudici hanno ritenuto di dover applicare il principio dell’equivalenza delle concause ex artt. 40 e 41 c.p., in quanto non risultasse possibile “effettuare una ripartizione causale tra i due fattori
cancerogeni, entrambi egualmente responsabili della causazione dell’evento dannoso”. Pertanto, risultando impossibile effettuare una corretta ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, gli stessi devono essere ritenuti
egualmente responsabili dell’aver cagionato l’evento morboso, conseguendone che non venga intaccata la ripartizione della responsabilità tra le parti, ma che questo impatti in modo considerevole nella definizione
dell’entità del danno, notevolmente ridotta rispetto alle richieste della famiglia.
Quale secondo motivo di ricorso, gli eredi hanno insistito per il riconoscimento del risarcimento da danno morale, deducendo come il lavoratore fosse consapevole di essere esposto ad agenti morbigeni e come il rilevare che molti
colleghi continuassero a contrarre gravi patologie di natura oncologica di entità tale da causarne sovente la morte avesse ingenerato in lui un’incertezza sul proprio vivere, modificando in peius la sua vita quotidiana e inducendolo a
sottoporsi a numerosi e periodici controlli medici.
Ciò aveva originato, nella mente del lavoratore, un assiduo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi,  probabilmente, morire. In secondo grado, però, la Corte d’Appello ha negato agli eredi il riconoscimento del danno
non patrimoniale a fronte di una mancata sussistenza del danno morale e/o esistenziale, ritenendo inapplicabile il ricorso alle presunzioni anche semplici e ritenendo che, al fine di delineare il danno non patrimoniale, questo
dovesse essere debitamente provato. La Cassazione, tuttavia, come già chiarito dalla sezione Lavoro con la sentenza n. 24217 del 2017, ha cassato la decisione di secondo grado, ritendendo che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e
piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 8, sottolineando, ancora, che la prova del pregiudizio
subito può essere fornita anche mediante presunzioni”. Da tale orientamento deriva che il danno biologico
dovuto ad uno sconvolgimento della normale vita privata e costituendo “un sofferenza interna del soggetto” si concretizza come “lesione di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale”: pertanto, se presente e dimostrato anche attraverso l’uso di presunzioni, costituisce oggetto di risarcimento del danno.


Azione di regresso dell’Inail per commistione degli spazi di lavoro tra azienda committente e ditta appaltatrice

Cass., sez. Lavoro, 21 giugno 2022, n. 20043

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in  Milano

Corte d’Appello di Catanzaro ha accolto l’appello dell’Inail e, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato in solido il datore di lavoro e l’appaltatore dei lavori, a versare all’Istituto la medesima somma che l’Istituto aveva erogato in relazione all’infortunio accaduto. La Corte territoriale ha accertato: che la società
datrice si occupava dell’estrazione e distillazione dell’olio di sansa ed essiccazione; che nei luoghi di lavoro insistevano due capannoni con struttura in cemento armato e metallo e che su uno di essi la società aveva
commissionato ad altra ditta l’esecuzione di opere di carpenteria metallica; che, al momento dell’incidente, gli operai dipendenti della appaltatrice stavano ultimando il montaggio delle lamiere di copertura su una torretta montata a ridosso del capannone, quando accidentalmente il lavoratore sottostante veniva colpito da un’asse di legno della lunghezza di circa 2 metri e mezzo. Il lavoratore infortunatosi, dipendente della società committente, si trovava a transitare nella zona sottostante la struttura in oggetto; che nel sansificio non erano presenti cartelli atti a segnalare
i lavori in corso, né il cantiere era transennato, in modo da impedire che persone non addette ai lavori potessero introdursi nello stesso, e neppure vi era una rete metallica di protezione intorno alla struttura ove gli operai stavano lavorando.
La mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza (reti protettive attorno alla torretta, transenne o  segnalazioni del cantiere), nonché la evidente commistione degli spazi di lavoro tra l’azienda committente e la ditta
appaltatrice fondavano, secondo i Giudici di appello, la responsabilità di entrambe le società per l’infortunio verificatosi. Dal che derivava l’accoglimento della domanda di regresso sanzionata dall’Istituto. Avverso tale sentenza
il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Con il primo motivo di ricorso viene dedotto che la fattispecie non sarebbe disciplinata dal D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, in quanto entrato
in vigore il 27.11.1994, mentre l’infortunio per cui è stata esercitata l’azione di regresso risale ad epoca anteriore (21.3.1994).
Quindi, in base alla disciplina applicabile ratione temporis, cioè il D.p.r. n. 547 del 1955, art. 5, non sarebbe configurabile un obbligo della committente di incidere sull’attuazione delle misure di prevenzione dei rischi connessi
all’attività della appaltatrice, dovendosi affermare la responsabilità esclusiva di quest’ultima nella causazione dell’infortunio in oggetto. Il motivo risulta fondato. La Corte d’Appello  ha errato nell’individuare la norma regolatrice del caso concreto, avendo affermato la responsabilità  degli appellati per l’infortunio occorso
al lavoratore colpito dall’asse di legno caduto dalla copertura, ai fini dell’azione di regresso dell’Inail, in base al D.lgs. n. 626 del 1994, art. 7, non in vigore all’epoca dell’infortunio, risultando applicabili, ratione temporis, le disposizioni
di cui al D.p.r. n. 547 del 1955. In tali disposizioni, come costantemente interpretate, come quelle in cui siano presenti più imprese, ciascuna con propri dipendenti, ed in cui i rischi lavorativi interferiscono con l’opera di altri soggetti, dovrà essere valutata la responsabilità delle parti private ai fini dell’azione di regresso dell’Inail.
Per tale ragione, accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il secondo, la sentenza impugnata viene cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio.


Devono essere retribuite le ferie non godute che il datore di lavoro non mette in condizioni di godere

Cass., sez. Lavoro, 6 giugno 2022, n. 18140

Elena Pellegatta,  Consulente del Lavoro in Milano 

Al termine del rapporto di lavoro, un dirigente medico ha agito nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale presso cui lavorava rivendicando il diritto all’indennità per ferie non godute all’atto della cessazione del
rapporto, in misura di 258 giornate, dell’indennità per 152 turni notturni di effettivo servizio svolti in rianimazione, nonché per dieci turni mensili di pronta disponibilità/reperibilità dal 2005 al 2009, ed un indennizzo per lo
svolgimento dell’attività di gestore dell’elisuperficie. La sua domanda, parzialmente accolta in primo grado di giudizio relativamente a ferie e reperibilità, veniva invece rigettata dalla Corte di Appello con la motivazione che, rivestendo la qualifica di dirigente, il lavoratore poteva organizzare autonomamente le proprie ferie, organizzare la turnistica di reperibilità da cui in quanto dirigente sarebbe stato escluso.
Ricorre alla Suprema Corte il dirigente medico. Con il primo motivo, in relazione alle ferie non liquidate, gli Ermellini considerano accolto il motivo di ricorso e riconoscono il diritto al pagamento delle ferie non godute. Riprendendo una recente cassazione (Cass., 2 luglio 2020, n. 13613) che argomentava come il dirigente, il
quale al momento della cessazione del rapporto di lavoro non abbia fruito delle ferie, ha diritto a un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un’adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo. La Suprema Corte argomenta come anche in questo caso il lavoratore debba essere stato messo effettivamente nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alle ferie e quindi sta in capo al datore di lavoro
l’invito formale a fruirne, in modo da evitare che l’esercizio del diritto sia interamente posto in capo al lavoratore, e che sempre il datore debba poi dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore
le potesse fruire.
La Suprema Corte ritiene fondato anche il secondo motivo del ricorso, ossia l’avere erroneamente escluso il diritto del dirigente di struttura complessa ad essere remunerato rispetto ai turni di pronta disponibilità svolti presso la rianimazione, trattandosi di turni dai quali tale figura non era esclusa dal Ccnl. applicato e che erano stati da lui concretamente svolti con riferimento al servizio di camera iperbarica. Infatti, la norma collettiva, rispetto ai soli servizi di reperibilità “integrativa” ne prevede lo svolgimento anche da parte dei dirigenti preposti alle
strutture complesse, evidentemente per assicurare una maggiore platea di personale rispetto a situazioni che, proprio per necessitare di quella tipologia di servizio, manifestano a priori la possibilità concreta di un più corposo e
rapido intervento medico. Non sarebbe dunque vero quanto affermato dalla Corte territoriale, ovvero che al dirigente non potesse spettare il diritto alla remunerazione, entro i limiti massimi previsti dal Ccnl e nella misura in cui
vi sia prova o non sia stata contestata la prestazione del corrispondente servizio. Gli Ermellini ritengono invece infondato il terzo motivo di ricorso, con riferimento a disimpegno  di turni notturni di guardia attiva e del
compenso per la gestione dell’elisuperficie, in quanto i dirigenti sono espressamente esclusi  da tale servizio in base al Ccnl, ed inoltre il servizio è ricompreso nell’orario di servizio, ordinario o straordinario, dei dirigenti medici.


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