Sentenze

Stefano Guglielmi, Andrea di Nino, Clarissa Muratori, Angela Lavazza, Elena Pellegatta, Consulenti del Lavoro in Milano

Prestazione con elevato contenuto intellettuale: qualificazione del rapporto di lavoro

Cass., sez. Lavoro, 22 aprile 2022, n. 12919

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Con sentenza n. 181/2018 la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza (non definitiva) con la quale in accoglimento della domanda del lavoratore era stata accertata, con decorrenza dal gennaio 2005, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze delle convenute (in virtù di cessione del ramo di azienda con i connessi rapporti di agenzia), con mansioni riconducibili alla categoria quadri. La Corte di merito ha ritenuto confermata la natura dipendente della collaborazione instaurata dal lavoratore che era risultata pienamente inserita nell’organico aziendale non come mero agente ma come direttore vendite.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il datore di lavoro, la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso. In ordine alla qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con un elevato contenuto intellettuale – alla quale è riconducibile l’attività prestata dal lavoratore quale ricostruita in sentenza – la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. Cass., n. 18414/2013, Cass., n. 7517/2012, Cass., n. 3594/2011), potendosi ricorrere altresì, in via sussidiaria, a elementi sintomatici della situazione della subordinazione quali l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il vincolo di orario, l’inerenza al ciclo produttivo, l’intensità della prestazione, la retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato; in particolare, ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli
obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass., n. 3640/2020, Cass., n. 9463/2016, Cass,. n. 7517/2012).
La decisione di appello risulta coerente con tale impostazione sia laddove, rispetto alla qualificazione operata dalle parti, riconosce come prevalenti le concrete modalità di svolgimento della prestazione sia perché la valorizzazione dei c.d. indici sussidiari è frutto della specifica considerazione delle caratteristiche dell’attività dedotta la quale, per i suoi elevati contenuti intellettuali, non si prestava ad essere oggetto di penetranti poteri conformativi della parte datoriale; in tale contesto, la valorizzazione del pieno inserimento del lavoratore nella compagine organizzativa della società, dell’affidamento alla stessa dell’ulteriore compito di c.d. area manager, implicante un rapporto di sovra ordinazione in particolare con i dipendenti al settore commerciale, del fatto che sia prima che dopo il ruolo rivestito dal lavoratore veniva occupato da lavoratori dipendenti, sono elementi idonei alla luce del parametro normativo dell’art. 2094 c.c. a giustificare la qualificazione del rapporto in controversia come di natura subordinata.
La specifica questione della riconducibilità dell’attività prestata dal lavoratore alla qualifica di quadro così come quella del corretto livello di inquadramento in base alla classificazione collettiva, ritualmente devoluti alla Corte di  merito dalla odierna ricorrente non sono stati in alcun modo trattati tramite specifico raffronto con la norma collettiva dal giudice di appello che ha incentrato il proprio accertamento esclusivamente sulla verifica della natura subordinata o meno del rapporto oggetto di causa.
Tanto determina la necessità di cassazione della decisione con rinvio alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, per l’esame delle questioni omesse.


Sicurezza sul lavoro: le funzioni di datore di lavoro e di RSPP non possono essere confuse

Cass., sez. Penale, 9 aprile 2022, n. 16562

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16562 del 29 aprile 2022, si è espressa in merito alle responsabilità del datore di lavoro circa gli obblighi di valutazione del rischio e di formazione dei lavoratori sotto il profilo della sicurezza sul lavoro.
In particolare, la vicenda trae origine dalla condanna – confermata in sede di appello – alla pena di un anno di reclusione per un datore di lavoro privato a causa del delitto di “omicidio colposo aggravato”, dovuto alla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni in ambito lavorativo. A detta della Corte territoriale, tali violazioni avevano cagionato la morte di un operaio, incaricato di effettuare la manutenzione e la pulizia di un particolare macchinario. Nell’impugnare la sentenza di secondo grado, l’imputato ha presentato una serie di motivi di ricorso. Nel dettaglio, questi ha contestato la qualifica di “datore di lavoro” assegnatagli nelle sentenze, adducendo di avere attribuiti compiti meramente amministrativi (“ordinaria amministrazione”) da parte del C.d.A. dell’azienda.
Inoltre, l’imputato riteneva di aver delegato le funzioni attinenti all’ambito della sicurezza sul lavoro ad un terzo, e di non dover rispondere del mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (“DVR”), considerata l’assenza della qualifica di datore di lavoro. Tanto rappresentato da parte della persona imputata, i giudici della Corte di Cassazione hanno comunque individuato in questa la figura del datore di lavoro, considerato il suo ruolo di legale rappresentante della società e le sue prerogative in merito all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa. In dettaglio, è stata rigettata la tesi dell’imputato vertente sull’esclusione delle responsabilità in merito alla sicurezza dei lavoratori, dovuta ai compiti di mera natura ordinaria formalmente assegnati allo stesso. Secondo la Corte, infatti, le attribuzioni dell’imputato erano tali da garantirgli l’esercizio di “potestà funzionali organizzative, decisionali, gestionali e di spesa inclusa la realizzazione delle misure di sicurezza previste per legge”, così da “costituire in capo
al medesimo soggetto un coacervo di tutti gli obblighi che convergono in materia di valutazione del rischio, di posizione di garanzia, di adempimenti datoriali”.
La confusione tra il ruolo di datore di lavoro e di “responsabile del servizio di prevenzione e di protezione” (“RSPP”) ha inoltre deposto per “una colpevole opacità e disfunzione organizzativa”, a dire della Suprema Corte, che ha aggravato la posizione dell’imputato.
I poteri de facto esercitati dall’imputato, viene altresì osservato, “sebbene formalmente limitati all’ordinaria amministrazione, comunque comprendevano ogni profilo gestorio e organizzativo sulla produzione, sul controllo degli impianti, sulle procedure lavorative, sulla formazione e informazione che in concreto hanno svolto un determinante ruolo causale dell’evento mortale”.
Da tale piena qualifica datoriale emerge conseguentemente la responsabilità per gli altri due obblighi contestati sul piano della colpa specifica e della causalità materiale. In primo luogo, a dire della Suprema Corte, l’omessa completa ed esauriente valutazione del rischio connesso all’impianto presso il quale operava la vittima è attività che “sul piano operativo, cognitivo, progettuale”, rientrava pienamente nei compiti dell’imputato. Ciò sia innanzitutto come soggetto titolare del servizio di prevenzione e protezione, ruolo interpretato in termini meramente formali e,
contemporaneamente, come soggetto apicale con poteri decisionali e organizzativi su tutta l’attività produttiva.
Sul punto, i giudici hanno osservato che “l’imputato avrebbe dovuto in particolare valutare rischi e misure di  prevenzione sull’uso del macchinario dove ha trovato la morte (omissis), in relazione specifica alle mansioni e ai compiti attribuiti alla vittima dallo stesso imputato”.
Nella sua qualità di titolare del ruolo datoriale, l’imputato avrebbe dovuto inoltre tenere aggiornato il DVR anche con la mansione cui era addetto il lavoratore infortunato in relazione all’uso del macchinario che lo ha travolto.
Sul punto, la Corte ha osservato che “è proprio dalla duplice qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e di datore di lavoro che emerge comunque il compito in capo alla medesima persona di valutare, elaborare, prevenire e gestire il rischio, ivi compreso l’aggiornamento del documento di valutazione del rischio che peraltro è compito indelegabile del datore di lavoro”.
In conclusione, secondo i giudici della Cassazione, alla qualifica di datore di lavoro corrisponde “l’obbligo di formazione e informazione dei lavoratori” che, nel caso in esame, risulta omesso da parte dell’imputato. Anche
su questo punto ascrivere ad altro soggetto il dovere di informazione, formazione ed addestramento del lavoratore deceduto, costituisce “una mera asserzione che non trova riscontro in alcun atto formale di delega o comunque
di incarico specifico alla formazione”.
Anche a voler ritenere di avere sostanzialmente incaricato altri di adempiere all’obbligo di formare e addestrare il lavoratore deceduto, la Suprema Corte ha evidenziato che “l’omessa cura dell’addestramento e dell’istruzione professionale del lavoratore avrebbe potuta e dovuta essere controllata e corretta dall’imputato qualora altri soggetti eventualmente incaricati non vi avessero utilmente provveduto”.
I motivi di ricorso dell’imputato venivano dunque integralmente respinti, acclarata la mancanza dell’esercizio del ruolo di vigilanza, di controllo e di cura dell’istruzione professionale sull’uso della macchina e degli impianti correlati in relazione ai rischi del caso di speciel


Violazione delle norme antinfortunistiche e mancato controllo del datore di lavoro

Cass., sez. Penale, 1 aprile 2022, n. 13720

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano 

Con sentenza dello scorso aprile la Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di merito in relazione ad un fatto accaduto in violazione delle norme antinfortunistiche all’interno di uno stabilimento della società Ilva di Taranto.
Nello specifico un operaio, sprovvisto di specifico titolo abilitativo sull’uso dei carrelli elevatori, metteva in moto il muletto e, inavvertitamente, provocava ad altro lavoratore che si trovava vicino al mezzo, lesioni gravissime.
Nel corso del dibattimento era emerso, grazie alle deposizioni testimoniali, che era prassi invalsa in quell’area di lavorazione permettere agli operai, sprovvisti di specifica abilitazione, di porsi alla guida di carrelli elevatori,
prassi tollerata dalla dirigenza.
Nonostante il ricorso presentato dal datore di lavoro la Cassazione conferma quanto stabilito dai giudici di prime cure e cioè che “qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi
“contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, debba rispondere dell’infortunio occorso”.
Non assolve da responsabilità il datore di lavoro il fatto che i propri preposti non sorveglino lo svolgimento delle attività, né che i propri dipendenti agiscano senza l’ordine di alcuno.
Il datore di lavoro è tenuto a sorvegliare la condotta dei propri sottoposti e ove necessario e’ obbligato ad intervenire  affinché cessino immediatamente eventuali condotte rischiose, perché laddove ciò non avvenga, potrebbe trovarsi a rispondere penalmente di “culpa in vigilando” come nel caso di specie.


Licenziamento e reintegra per interpretazione estensiva delle clausole generali della contrattazione collettiva

Cass., sez. Lavoro, 26 aprile 2022, n. 13065

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Poste Italiane propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Bologna aveva confermato la  pronuncia di primo grado, annullando il licenziamento per giusta causa di una dipendente. Il fatto contestato, alla base del licenziamento, è che la dipendente si trovava in villeggiatura il 14 agosto del 2017, in un giorno di
permesso ex lege n. 104 del 1992, concesso per assistere la madre disabile, mentre la madre si trovava in altro luogo. Tale comportamento aveva cagionato, con l’assenza dal servizio della dipendente, disagi e disservizi dell’organizzazione del lavoro oltre che una violazione dei principi di correttezza, buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.
La dipendente non ha negato l’effettività del fatto contestato, si è scusata dell’errore commesso di cui ha riconosciuto la gravità, adducendo quali motivi l’improvvisa indisponibilità della madre a raggiungerla nel luogo di villeggiatura, espressa dalla madre soltanto in tarda serata del giorno prima. Inoltre, la dipendente non aveva fatto un tempestivo rientro in quanto le sue condizioni di salute non le avevano permesso di guidare di notte per un lungo tragitto trafficato. La dipendente aveva però disdettato l’albergo ed era rientrata in treno nel pomeriggio del 14 agosto stesso.
A fronte di tali motivazioni, la Corte di Appello aveva condiviso la sentenza di primo grado, riconducendo il caso nell’ipotesi d’insussistenza della giusta causa di licenziamento perché il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva.
La società denuncia alla Suprema Corte che nella lettera di contestazione disciplinare era addebitato alla dipendente non già l’assenza ingiustificata o arbitraria dal servizio, bensì la fruizione abusiva del permesso retribuito ex
lege n. 104/92, con conseguente applicazione della giusta causa di licenziamento, anche in conformità con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedono il licenziamento in caso di violazioni dolose.
La Suprema Corte ritiene inammissibili le motivazioni della società perché l’accertamento di una volontà, anche quando è espressione di una autonomia negoziale, si sostanzia in un accertamento di fatto riservato all’esclusiva competenza del giudice di merito.
La Suprema Corte ricorda il principio di diritto già affermato dalla Cassazione: in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, comma 4 e 5 della Legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentito al giudice ricondurre la condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che
punisca l’illecito con una sanzione conservativa, anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche.
La contestazione della società era da intendersi come contestazione di assenza ingiustificata per un giorno e non come comportamento fraudolento e preordinato all’abuso della fruizione del permesso ex lege n. 104/92.
Per la Suprema Corte la società si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole. Quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che è stata privilegiata l’altra.
Bene hanno fatto i giudici della Corte di Appello: attraverso una valutazione del grado di gravità della condotta, che tenesse conto di tutte le circostanze del caso concreto, hanno ricondotto quest’ultimo ad una ipotesi omologabile all’assenza arbitraria per un giorno lavorativo.
Il ricorso è respinto


Licenziamento ex L. n. 223/1991: occorre considerare il possesso di professionalità equivalente ad altri lavoratori in altre realtà organizzative dell’azienda

Cass., sez. Lavoro, Ord. 28 aprile 2022, n. 13352

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

L a vicenda in oggetto riguarda il licenziamento di una lavoratrice a seguito della procedura ex L. n. 223/1991. La Corte di Appello di Napoli aveva infatti ritenuto legittima la limitazione del numero dei lavoratori da licenziare della società datrice di lavoro alla sola platea degli addetti all’appalto per la VIII Municipalità, cessato pacificamente, considerando le diverse offerte di proposte ricollocative da parte delle organizzazioni sindacali in differenti comuni, rifiutate dalla lavoratrice.
La lavoratrice impugna nel merito la sentenza basandosi su quattro motivi. Con il primo motivo, non accolto, deduce la falsa applicazione e violazione dell’art. 41, co. 2, Cost. in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. in quanto i giudici non hanno effettuato il controllo sulla sussistenza del reale motivo posto a base del licenziamento e su alcuni fatti decisivi ai fini della decisione; nello specifico sosteneva che i dipendenti erano tutti cuochi e che la perdita  dell’appalto non aveva cagionato un danno economico tale da rendere necessario il licenziamento.
Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della L. n. 223/1991.
La lavoratrice sostiene infatti che non siano stati esaminati fatti controversi e decisivi sotto il profilo della mancanza di collegamento tra la assunzione della lavoratrice e l’appalto presso la VIII Municipalità; sostiene che il giudice del reclamo aveva errato nel ritenere legittimo, in difetto di accordo sindacale, quale unico criterio di selezione del personale quello rappresentato dall’adibizione dei lavoratori licenziati all’appalto cessato e non anche degli altri criteri legali di scelta. In questa prospettiva afferma che gli elementi fattuali acquisiti escludevano che il posto di lavoro della lavoratrice fosse intrinsecamente legato all’appalto cessato in quanto l’adibizione alla preparazione dei relativi pasti era dovuto ad una mera organizzazione interna.
Con il terzo e quarto motivo, non accolti, si deduce il mancato esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti rappresentato dalla assunzione di nuovi lavoratori in epoca successiva al licenziamento e la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5  della legge n. 223/1991 per avere il giudice di appello erroneamente ritenuto correttamente applicati i principi richiamati in tali disposizioni in merito all’obbligo di ricollocazione lavorativa;  denunzia inoltre omesso esame di fatti controversi e decisivi in relazione alla verifica relativa alla configurabilità tra le varie società del gruppo di un unico centro di imputazione.
Accolgono gli Ermellini solo il secondo motivo, adducendo che la Corte di merito, nel rigettare la impugnazione della lavoratrice aveva valutato la correttezza della scelta datoriale di procedere al licenziamento della  lavoratrice nell’ambito della procedura collettiva, facendo riferimento esclusivo al criterio delle esigenze tecnico organizzative della società e non ai carichi di famiglia e all’anzianità. Ma soprattutto, sostengono che la decisione non è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Per applicare correttamente il criterio delle esigenze tecnico- produttive  dell’azienda, per l’individuazione dei lavoratori da  licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., ed il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei, per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda, ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti.
Di conseguenza, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.


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