Il rifiuto del lavoratore al trasferimento: limiti e conseguenze

di Massimiliano Tavella, Consulente del Lavoro in Lamezia Terme

Il trasferimento del lavoratore subordinato è la tipica manifestazione dei poteri organizzativo e direttivo attraverso cui il datore di lavoro dispone il mutamento tendenzialmente definitivo del luogo di lavoro nell’ambito della stessa azienda. Trattandosi di atto unilaterale recettizio e tenuto conto del principio del favor praestatoris, l’art. 2103 del Codice Civile così come novellato dall’articolo 13 della Legge n. 300/1970, ha disciplinato la materia al fine di realizzare il bilanciamento dei contrapposti interessi ascritti ai soggetti coinvolti nell’operazione di trasferimento.

A tale riguardo in linea generale, da un lato la norma codicistica appena citata dispone che il trasferimento risulta legittimo solo se assunto in presenza di comprovate “ragioni tecniche, organizzative e produttive”, dall’altro la copiosa giurisprudenza in materia ha statuito che il controllo giurisdizionale delle ragioni che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa, e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell’iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 della Costituzione, non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall’imprenditore. Inoltre, sul datore di lavoro non incombe l’onere di dimostrare il carattere inevitabile del trasferimento riguardo all’inutilizzabilità del lavoratore nell’unità produttiva originaria ma è sufficiente riscontrare la fondatezza delle ragioni che costituiscono il presupposto del provvedimento.

Tralasciando in questa sede ogni riferimento sui limiti posti dalla normativa al trasferimento di particolari figure professionali, per ragioni familiari o riguardanti lavoratori investiti di specifiche cariche politiche e sindacali, appare evidente che ordinariamente, il trasferimento, implicando un mutamento sostanziale e definitivo delle condizioni generali del rapporto di lavoro, impatta direttamente sulla sfera personale/familiare del lavoratore divenendo, nella maggior parte dei casi, fonte di contenzioso. L’Ordinanza della Corte di Cassazione Sezione Lavoro (n. 16697 del 25 giugno 2018) da cui prende spunto la presente riflessione contribuisce ad ampliare la già copiosa produzione giurisprudenziale in materia con specifico riferimento alle modalità di opposizione all’ordine di trasferimento. La questione sottoposta alla Suprema Corte riguarda il licenziamento di una lavoratrice cui era stato notificato un provvedimento di trasferimento presso altra sede produttiva durante il periodo di astensione facoltativa. La lavoratrice, ricevuto il provvedimento di trasferimento, ne contestava la legittimità inviando nota al datore di lavoro nella quale sosteneva il difetto delle ragioni tecniche ed organizzative, nonché l’incompatibilità del mutamento logistico con le sue condizioni di famiglia, essendo madre di due bambini molto piccoli. Al termine del periodo di astensione facoltativa, la dipendente, dopo aver fruito di un periodo di assenza per malattia, si presentava presso la sede di lavoro originaria, ma la sua prestazione veniva rifiutata sulla base della circostanza che la stessa risultasse ormai in forza presso una diversa unità produttiva a seguito di trasferimento a suo tempo comunicato dall’azienda. Nei giorni a seguire il datore di lavoro trasmetteva alla dipendente lettera di contestazione per assenze arbitrarie dal lavoro concedendole 5 giorni per le giustificazioni del caso. La lavoratrice, respingendo ogni addebito, motivava la propria condotta sostenendo di aver prontamente offerto le proprie energie lavorative al datore di lavoro, mettendosi a disposizione dello stesso presso la sede originaria e quindi di avere correttamente adempiuto ad ogni obbligo. Dopo circa un anno dalla data di contestazione sopra richiamata e delle relative giustificazioni, il datore di lavoro inviava alla lavoratrice comunicazione nella quale veniva sancita la conclusione del rapporto “per recesso dal contratto di lavoro subordinato”, avverso cui veniva proposto ricorso da parte della dipendente. Nel primo grado di giudizio, il provvedimento datoriale, inquadrato giuridicamente come un licenziamento disciplinare, veniva ritenuto illegittimo per difetto del requisito dell’immediatezza, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegra della dipendente ed al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni maturate dall’epoca del recesso fino all’effettiva reintegra. Appare utile ricordare che nel licenziamento disciplinare, l’immediatezza del provvedimento espulsivo si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la tardività è generalmente qualificata come manifestazione di volontà del datore di lavoro di rinunciare ad irrogare la sanzione disciplinare, oppure come acquiescenza o tolleranza, elementi che inducono ad escludere la sussistenza della “giusta causa” di licenziamento ex art. 2119 c.c.. Avverso la sentenza di primo grado, il datore di lavoro proponeva ricorso presso la Corte di Appello che, accogliendone il gravame, riformava la decisione, interpretando la lettera di recesso quale presa d’atto dell’avvenuta risoluzione del contratto da parte della dipendente (dimissioni), sulla base di quanto previsto dal Regolamento aziendale. In pratica, a parere dei giudici di secondo grado, il trasferimento non poteva essere semplicemente contestato per via stragiudiziale, stante il pregiudizio arrecato con il rifiuto, all’organizzazione datoriale e considerato che il provvedimento di trasferimento avrebbe potuto essere contrastato con l’impugnazione in via d’urgenza e/o avvalendosi della facoltà di ricorso al Consiglio di Amministrazione prevista nel Regolamento aziendale in opposizione alla declaratoria d’ufficio delle dimissioni. La lavoratrice ricorreva quindi in Cassazione, denunciando che il rifiuto implicitamente opposto al provvedimento di trasferimento, doveva essere ritenuto legittimo e non poteva giustificare alcuna risoluzione del rapporto, in quanto proporzionato all’illegittimo comportamento del datore.

La Suprema Corte, con l’Ordinanza in commento, nel confermare la sentenza di appello statuisce che, ai fini della valutazione complessiva della fattispecie, la mancata presa di servizio da parte della dipendente in assenza di impugnativa, risulta assorbente rispetto ad ogni ulteriore interpretazione del comportamento tenuto dalle parti del rapporto. In particolare, per la Corte non viene ritenuta rilevante ai fini del giudizio, la regolare erogazione della retribuzione da parte del datore di lavoro durante il periodo di assenza della dipendente, né può essere considerata come esimente la circostanza che, all’epoca dei fatti, l’azione della lavoratrice diretta a contestare il provvedimento datoriale non fosse soggetta ad alcun termine di decadenza. Ad ulteriore supporto di quanto statuito, la Cassazione, richiama un orientamento ormai consolidato della stessa Corte secondo cui, il trasferimento adottato dal datore di lavoro in violazione dell’art. 2103 c.c., quindi in assenza di comprovate “ragioni tecniche, organizzative e produttive”, non giustifica in via automatica il rifiuto del dipendente all’osservanza del provvedimento e quindi la sospensione della prestazione lavorativa. Il rifiuto del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo deve, infatti, secondo la Suprema Corte essere valutato, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, co. 2, c.c. secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto stesso è contrario alla buona fede. La verifica delle circostanze rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità. In estrema sintesi, nella fattispecie in esame, le conseguenze derivanti dal comportamento della lavoratrice sull’organizzazione aziendale sono state ritenute, dalla Suprema Corte, assorbenti rispetto all’inadempimento datoriale. La Cassazione, dunque, nel vagliare il caso specifico, pur non ponendosi sostanzialmente in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale prevalente in tema di trasferimento del lavoratore, opera una interessante comparazione tra gli interessi contrapposti del rapporto rilevando una alterazione del sinallagma, tenuto anche conto della mancata attivazione da parte della lavoratrice degli strumenti previsti, dalla legge e dal contratto, a garanzia della stessa in caso di trasferimento illegittimo.