Il repêchage “alla riscossa” nella più recente giurisprudenza

di Gionata Cavallini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

 

  1. Premessa

Come è noto a tutti coloro che si sono occupati almeno una volta di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.), con il termine repêchage si fa riferimento alla regola che obbliga il datore di lavoro a provare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore licenziato per g.m.o. in mansioni diverse da quelle soppresse (e quindi “ripescarlo”, volendo tradurre il fortunato francesismo, tutto nostrano, con cui si indica l’istituto).

Il ripescaggio configura innanzitutto un onere probatorio di tipo processuale, riconducibile all’onere del datore di lavoro di provare le ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a base del licenziamento (artt. 3 e 5, L. n. 604/1966), ma ad esso corrisponde anche l’obbligo, di tipo sostanziale, di tentare una ricollocazione del lavoratore prima di recedere dal rapporto.

L’istituto è di origine essenzialmente giurisprudenziale, posto che è stato elaborato nel sostanziale silenzio della legge (che vi fa riferimento solo per il caso dei lavoratori divenuti parzialmente inabili in conseguenza di malattia o infortunio: art. 4, co. 4, L. n. 68/1999), e viene spesso ricondotto alla lettura tradizionale del licenziamento quale ultima ratio.

Anche per tale origine giursiprudenziale, la natura giuridica e i fondamenti del repêchage formano tuttora oggetto di un acceso dibattito, del quale non è possibile dare conto in questa sede[1]. Nell’ultimo triennio, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, rispondendo alle problematiche sollevate dalla prassi applicativa, ha avuto modo di stabilire alcuni “punti fermi”, sui quali vale la pena di soffermarsi.

  1. Gli oneri di allegazione e prova del repêchage

Un primo profilo rispetto al quale la Cassazione ha fornito importanti chiarimenti riguarda la distribuzione degli oneri di allegazione e prova dell’assolvimento o meno dell’obbligo di repêchage.

A partire dai primi anni 2000, a fronte del progressivo ampliamento dei contenuti dell’obbligo di ricollocazione (esteso dapprima alle mansioni inferiori[2], quindi a mansioni di contenuto professionale diverso[3] e infine anche a reimpieghi realizzati mediante differenti tipologie contrattuali[4]), si era consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui graverebbe sul lavoratore che impugna il licenziamento un onere di indicare le posizioni vacanti cui avrebbe potuto essere utilmente adibito[5]. Solo l’assolvimento di tale onere di allegazione, da parte del lavoratore, avrebbe fatto insorgere l’onere della prova (ovviamente contraria) in capo al datore di lavoro.

Tale orientamento realizzava un’inedita scissione tra gli oneri di allegazione e quelli di prova, lontana dai principi processuali classici, ricondotta da una parte della dottrina al tentativo di correggere le rigidità provocate dalla creazione e dalla dilatazione dell’obbligo di repêchage, che finiva per uscire sostanzialmente attenuato grazie alla distribuzione degli oneri probatori[6].

La Cassazione, tuttavia, a partire dal 2016, è tornata sui propri passi, affermando che «spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente»[7].

Tale nuovo orientamento è stato poi ribadito da numerose decisioni successive[8], sicché oggi deve ritenersi che sul lavoratore non grava alcun onere di indicare nel ricorso le posizioni alternative cui avrebbe potuto venire adibito (il che non significa, evidentemente, che non valga la pena di farlo). Ne deriva che l’onere datoriale di provare l’impossibilità del repêchage, in quanto concernente un fatto negativo, potrà essere assolto non già sfruttando la mancata indicazione da parte del lavoratore, ma solo mediante la prova (presuntiva) che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni[9].

  1. Il repêchage a mansioni inferiori

Contemporaneamente, a incidere in senso estensivo sulla latitudine dell’obbligo di repêchage ci ha pensato la riscrittura dell’art. 2103 c.c. ad opera del legislatore del Jobs Act.

La riforma della disciplina delle mansioni, infatti, nell’estendere l’ambito di legittimo esercizio dello ius variandi alle mansioni corrispondenti al livello di inquadramento inferiore, nonché, con il consenso dell’interessato, a qualunque livello di inquadramento inferiore, ha definitivamente consacrato l’orientamento per cui l’adempimento dell’obbligo di repêchage si estende fino alla verifica della possibilità di adibire il lavoratore a mansioni dal contenuto professionale inferiore.

Secondo la Cassazione, infatti, «l’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, sicché, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale»[10].

L’orientamento è stato subito raccolto dalla giurisprudenza di merito che non ha mancato di affermare che il datore di lavoro ha l’obbligo di provare «non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver proposto allo stesso la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, e che il lavoratore le abbia rifiutate»[11].

  1. Le conseguenze dell’inadempimento del repêchage

Un ultimo profilo su cui la giurisprudenza più recente ha avuto modo di soffermarsi è quello delle conseguenze sanzionatorie della violazione dell’obbligo di repêchage nel regime di cui all’art. 18 St. lav., come modificato nel 2012 dalla riforma Fornero.

Il nuovo art. 18, infatti, prevede che ove venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato per g.m.o., il giudice possa applicare la tutela reintegratoria solo in caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento», mentre nelle «altre ipotesi» troverà applicazione la tutela economica, con attribuzione al lavoratore di un’indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità.

All’indomani della riforma del 2012, la dottrina si è lungamente interrogata sul senso da attribuire alla nozione di «fatto posto a base del licenziamento» e, in particolare, sulla possibilità o meno di ricondurvi anche il mancato adempimento dell’obbligo di repêchage[12].

Sul punto la giurisprudenza di merito si è spaccata, pronunciandosi inizialmente nel senso che la violazione del repêchage comporta conseguenze meramente economiche, con esclusione della reintegrazione[13], e poi nel senso che la stessa può invece comportare l’applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, co. 4 e 7, St. lav.[14]

A porre fine alla querelle ci ha pensato la Cassazione che, con una recente pronuncia articolata e dalle ricche motivazioni, ha stabilito che «la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore»[15].

Secondo l’opzione interpretativa della Cassazione, ribadita all’inizio di quest’anno[16], anche la violazione dell’obbligo di ricollocazione, laddove sia “manifesta”, può condurre alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Per i lavoratori assunti in regime di Jobs Act è invece difficile intravedere spiragli di operatività della tutela reale in caso di violazione del repêchage, posto che l’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015 prevede espressamente che in ogni caso in cui non ricorrano gli estremi del g.m.o. le conseguenze sono di tipo meramente indennitario.

Ciò non significa però che il repêchage perda di rilevanza in riferimento ai c.d. “neoassunti”. Innanzitutto, dopo il Decreto Dignità e la pronuncia di Corte costituzionale n. 194/2018, la sanzione economica può essere liberamente determinata dal giudice entro la forbice 6-36 mensilità. In secondo luogo, nel caso in cui l’inadempimento del ripescaggio sia evidente e plateale – si pensi a un datore di lavoro che subito dopo il recesso assuma lavoratori per le stesse mansioni – tale circostanza potrà, sia pure in concorso con altri elementi, essere valorizzata per sostenere che dietro il motivo economico formalmente addotto si celano altre e inconfessabili ragioni ed eventualmente vedere accertata la natura ritorsiva del licenziamento, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria[17].

  1. Conclusioni

Dopo la nota sentenza del dicembre del 2016 con cui la Cassazione aveva affermato la legittimità del licenziamento motivato dall’intento di conseguire un mero incremento di profitti, anche in assenza di situazioni di crisi aziendale[18], sembrava che i margini di sindacabilità dei licenziamenti economici si fossero alquanto ridotti.

Se ciò è certamente vero per quanto concerne il primo elemento del g.m.o., e cioè la sussistenza di una riorganizzazione aziendale incidente sulla posizione del lavoratore, per quanto concerne l’ulteriore elemento rappresentato dal repêchage, sembrerebbe invece che, grazie all’evoluzione giurisprudenziale di cui si è cercato di dare conto nel presente contributo, il margine di sindacabilità della legittimità del recesso esca alquanto ampliato.

Nell’ambito della materia dei licenziamenti economici l’obbligo di repêchage ha così acquisito una rinnovata centralità e l’accertamento del suo (in)adempimento costituisce oggi un passaggio fondamentale nei relativi giudizi di impugnazione.

[1] Per approfondimenti M.T. Carinci, L’obbligo di ripescaggio nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, RIDL, 2017, pag. 203 ss.; E. Gramano, Natura e limiti dell’obbligo di repêchage, ADL, n. 6/2016, pag. 1310 ss.

[2] A partire da Cass., S.U. 7 agosto 1998, n. 7755, RIDL, 1999, II, pag. 170, con nota di G. Pera, in materia però di licenziamento per sopravvenuta infermità. Successivamente, in riferimento al recesso per soppressione del posto, Cass. 13 agosto 2008, n. 21579, RIDL, 2009, pag. 664, con nota di S. Varva; Cass. 15 maggio 2012, n. 7515, RIDL, 2013, pag. 67, con nota di M. Falsone; da ultimo Cass. 8 marzo 2016, n. 4509, DeJure.

[3] Cass. 14 novembre 2011, n. 23807, ADL, 2012, pag. 1018. Contra tuttavia Cass. 11 marzo 2013, n. 5963, Foro it., 2013, pag. 1502.

[4] In riferimento al part-time, Cass. 16 marzo 2007, n. 6229, Lav. giur., n. 8/2007, pag. 790; Cass. 6 luglio 2012, n. 11402, MGL, 2012, pag. 876, che precisa che la soluzione è ammessa nella misura in cui non comporti una «indebita alterazione dell’organizzazione produttiva».

[5] Tra le tante, Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923, DeJure; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040, GCM, 2011, pag. 198; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501, D&L, 2012, pag. 552.

[6] C. Pisani, Il repêchage nel licenziamento per motivi oggettivi, MGL, 2013, pag. 191; L. Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento per motivi oggettivi, DRI, 2005, pag. 658.

[7] Cass. 22 marzo 2016, n. 5592, in DRI, 2016, pag. 842, con nota di M. Ferraresi.

[8] Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 22 novembre 2017, n. 27792; nonché la recentissima Cass. 7 gennaio 2019, n. 192.

[9] Oltre alle le sentenze citate alle due note precedenti, tra le tante, Cass. 2 gennaio 2013, n. 6; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559.

[10] Cass. 9 novembre 2016, n. 22798, che richiama Cass. 19 novembre 2015, n. 23698.

[11] App. Roma 12 marzo 2018, n. 842; Trib. Trento 18 dicembre 2017, reperibile in www.wikilabour.it.

[12] Per i riferimenti M.T. Carinci, L’obbligo di ripescaggio, cit.

[13] Trib. Milano 28 novembre 2012, Trib. Roma 8 agosto 2013, Trib. Varese 4 settembre 2013, tutte in MGL, 2013, pag. 747; Trib. Torino 5 aprile 2016, DeJure.

[14] Trib. Reggio Calabria 3 giugno 2013, MGL, 2014, pag. 229; Trib. Trento 18 dicembre 2017, reperibile in www.wikilabour.it, App. Roma 1 febbraio 2018.

[15] Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, in DRI, 2018, pag. 888, con nota di L. Angeletti.

[16] Cass. 12 dicembre 2018, n. 32513, reperibile in www.wikilabour.it, che ha applicato la tutela reintegratoria in un caso di mancato ripescaggio del dipendente licenziato per sopravvenuta inidoneità fisica.

[17] Per approfondimenti, G. Cavallini, L’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo come «indice presuntivo» della ritorsività del licenziamento, RGL, n. 3/2018, pag. 385 ss.

[18] Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201, in Foro it., 2017, pag. 123, con nota di G. Santoro Passarelli.