Decreto Dignità: il recupero degli aiuti di Stato per imprese interessate dalla riduzione dei livelli occupazionali

di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna

Parafrasando una famosa battuta attribuita a John Coltrane potremmo dire che “il Decreto Dignità è come il jazz … piace solo a chi lo fa”.

Non sembra infatti che il primo provvedimento del neo Ministro del lavoro, Luigi Di Maio, abbia ricevuto un’accoglienza entusiastica, a parte quella dello stesso vice Premier che continua a difenderlo a spada tratta. Le censure, che possiamo definire vere e proprie stroncature, sono arrivate da più parti. Con particolare riferimento al nucleo centrale del Decreto Dignità – la nuova disciplina dei contratti a termine – basterebbe citare le critiche mosse sia dal mondo imprenditoriale (Confindustria in primis) che da quello professionale (Consulenti del lavoro e avvocati) oltre che dalla stampa specializzata e, ovviamente, dalle opposizioni. Sorvolando poi sullo stucchevole scontro istituzionale con il Presidente dell’Inps Boeri e sul fatto che gli stessi alleati di governo, capitanati da Salvini, pare spingano per alcuni correttivi sostanziali.

Limitandoci a citare solo alcune delle questioni sollevate si intuisce la gravità del problema:

– il ritorno all’obbligatorietà del requisito “causali” porterà, a detta di molti, ad un turn-over dei precari e non alla stabilizzazione dei loro rapporti;

– l’incertezza interpretativa derivante dalla assoluta fumosità nella declaratoria delle nuove “causali” porterà, opinione diffusa, inevitabilmente ad un aumento del contenzioso;

– l’ipotizzata perdita di posti di lavoro emersa dalle relazioni tecniche (vera o non vera, si deve dare atto che in nessuna di esse si è parlato di incrementi occupazionali), che appare inconciliabile con lo scopo dichiarato del decreto di “contrastare fenomeni di crescente precarizzazione in ambito lavorativo”.

Sia ben chiaro che qui non si vuole insistere sulla nuova disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla quale si stanno versando, e si verseranno ancora, fiumi di inchiostro.

Si permetta solo a chi scrive di evidenziare la contraddittorietà della contemporanea presenza di causali giustificatrici del termine e di limiti quantitativi all’utilizzo di contratti a tempo determinato. Se le individuate esigenze produttive legittimano l’occupazione di lavoratori a termine perché al contempo limitarne l’utilizzo per una quota parte del fabbisogno dell’impresa? Perché costringere l’impresa, per la quota eccedente il “20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione”, alla sottoscrizione di contratti a tempo indeterminato pur in presenza di quelle stesse temporanee esigenze che, contestualmente, giustificano l’apposizione del termine per l’assunzione di un primo gruppo di lavoratori? Che senso ha tutto questo? Dove il legislatore ravvisa la possibilità di manovre elusive da parte datoriale o addirittura il pericolo di sfruttamento del lavoratore?

Siamo poi così certi che questa assurda limitazione dell’iniziativa economica privata sia conforme al precetto dell’art. 41 della Costituzione?

Analoghe perplessità riguardano la stessa legittimità costituzionale – requisiti di straordinaria necessità e urgenza – del decreto-legge approvato: un intervento che ripristina le causali a partire dal tredicesimo mese dalle nuove assunzioni a termine come può intervenire e incidere con immediatezza sul problema precariato?

Ed infine, che senso ha una disciplina di contrasto alla precarietà che, per espressa disposizione del co. 2 dell’art. 1, non si applica “ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”?

Esiste un precariato di serie A e un precariato di serie B? Quello creato dalla PA è virtuoso? I precari del Pubblico Impiego hanno minore “dignità”?

La decadenza degli aiuti di Stato per le imprese che riducono i livelli occupazionali

Chiusa la parentesi sui contratti a termine, c’è un altro intervento che pare passato, per il momento, sottotraccia e che – quantomeno a chi scrive – sembra, più che una vera e propria disciplina, una mera dichiarazione di principio, peraltro non condivisibile nei suoi presupposti.

Il perché lo vedremo a tempo debito. Come nostra abitudine partiremo dal testo normativo.

Art. 6 – Tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti

1. Qualora una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo, riduca i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento, decade dal beneficio in presenza di una riduzione di tali livelli superiore al 10 per cento; la decadenza dal beneficio è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento.

2. Per le restituzioni dei benefici si applicano le disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e 5.

3. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai benefici concessi o banditi, nonché agli investimenti agevolati avviati, successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Come si diceva il principio sottostante l’intervento è chiaro e condivisibile: se ti concedo un finanziamento, devi garantire di impiegare questi fondi per raggiungere l’obiettivo per cui ti sono stati concessi. Uno schema utilizzato, ad esempio, per i contributi all’acquisto di beni strumentali, erogati con il vincolo della loro cessione non prima di cinque anni. Il classico do, ut des.

E questo, come detto, è ok. È tutto il resto che leggiamo nell’art. 6 che non va affatto bene.

Vediamolo punto per punto.

I motivi della riduzione dei livelli occupazionali

Quello a cui il provvedimento mira è evitare che il beneficiario degli aiuti di Stato “riduca i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio”, monitorando, come vedremo, tale eventualità in un arco di tempo individuato.

Va detto che non tutte le riduzioni rilevano per la perdita del beneficio restandone “fuori” esplicitamente i “casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo”.

Ammetto di aver letto più volte il passaggio, cercando conferma di qualche refuso confrontando il testo del Decreto Dignità su varie fonti. Tutto invano: è corretto il riferimento al giustificato motivo oggettivo, ovvero alle cessazioni connesse a ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa.

È necessario qui aprire una piccola parentesi. L’attuale prassi amministrativa sugli aiuti di Stato subordinati al mantenimento dei livelli occupazionali prevede che il venir meno dell’incremento (salvo che per alcune tipologie di licenziamento che non rilevano) comporti la perdita del beneficio per il mese di calendario di riferimento. Non si tratta pertanto di una decadenza assoluta cosicché l’eventuale ripristino dell’incremento per i mesi successivi consente la fruizione del beneficio dal mese di ripristino fino alla sua originaria scadenza, pur non consentendo di recuperare il beneficio perso.

Già quindi prima del Decreto Dignità un licenziamento per giustificato motivo oggettivo che comportava una diminuzione dell’indice ULA aveva rilevanza sul diritto al beneficio decretandone una sorta di “temporanea sospensione” senza però prevederne la sua immediata decadenza. Il Decreto Di Maio pare confermare indirettamente questa disciplina per i licenziamenti cosiddetti “economici”.

La novità oggi introdotta riguarderebbe dunque le sole fattispecie di cessazione dei rapporti a tempo determinato “fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo”, con un contorto riferimento quindi ai licenziamenti a carattere disciplinare.

In sintesi il nuovo assetto normativo oggi prevede:

– se un’impresa licenzia per giustificato motivo oggettivo (crisi aziendale, cessazione dell’attività o soppressione delle mansioni cui era assegnato il lavoratore) questi eventi non comporteranno né la decadenza del beneficio né la sua totale restituzione, ma il suo disconoscimento per i soli mesi in cui si registrerà il decremento occupazionale;

– se la stessa impresa interrompe il rapporto per giustificato motivo soggettivo – il classico licenziamento disciplinare – a tale circostanza consegue la decadenza e la restituzione (in alcuni casi, lo vedremo più avanti, per l’importo totale) del “maltolto”.

Oggettivamente incomprensibile il ragionamento del neo Ministro del Lavoro: se un mio dipendente ruba o se un altro mi aggredisce e mi manda all’ospedale, il messaggio, quasi “intimidatorio”, è chiaro: attento a licenziarli, perché perderai i benefici fin qui goduti!

Dalla tutela del precariato alla tutela dei disonesti e dei delinquenti. Semplicemente sconcertante.

Gli aiuti di Stato

La restituzione dei benefici goduti riguarda quanto ricevuto a titolo di aiuti di Stato i quali “prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale”.

Pare si sia già creato il panico tra gli operatori sulla corretta individuazione di cosa si intenda per aiuto di Stato e più nello specifico quali siano quelli che prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale. Se per l’esatta definizione degli aiuti di Stato si ritiene inevitabile il riferimento all’art. 107, par. 1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che considera tale “qualsiasi aiuto concesso da uno Stato membro o da risorse statali in qualsiasi forma che distorce o minaccia di falsare la concorrenza favorendo talune imprese o la produzione di determinate merci”, sulla corretta individuazione di quelli per i quali rileva la valutazione dell’impatto occupazionale aspetteremo, al solito, la classica circolare che, provenendo dallo stesso Ministero del Lavoro promotore dell’iniziativa di legge, sarà certamente chiara ed esaustiva. Scusate l’ironia.

L’arco temporale

La disciplina in esame stabilisce poi la decadenza dai benefici in caso di riduzione dei livelli occupazionali “nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento”.

Anche in questo caso regna la massima incertezza. Non si fa riferimento al provvedimento di concessione del beneficio, non si fa riferimento alla data di effettivo incasso dell’agevolazione, ma al completamento dell’investimento. Individuare quale sarà il giorno da cui partirà il quinquennio oggetto di monitoraggio sarà tutta da ridere.

Se poi applichiamo il principio a quelle agevolazioni contributive connesse alle nuove assunzioni (o stabilizzazioni) che comportano lo sgravio mensile sul DM10 – ad esempio l’assunzione di un giovane NEET ed iscritto al Programma Giovani – uno rischia il crepapelle dalle risate.

La rilevanza della riduzione occupazionale

Anche sull’entità della riduzione dei livelli di organico bisogna dire un paio di cose.

Non tutti i licenziamenti di tipo disciplinare rilevano. Solo nel caso questi realizzassero una riduzione del livello occupazionale superiore al 10 per cento l’impresa dovrà restituire i benefici. Parrebbe un’operazione facile facile, ma non lo è.

Partiamo dal livello occupazionale. A quale data dovrà essere valutato? Sarà il livello dell’occupazione del giorno precedente il licenziamento? Sarà una media del periodo precedente, considerato quello compreso dalla data di completamento dell’investimento e sino alla data antecedente il licenziamento? Sarà quello dell’intero quinquennio?

E se avessimo due o più licenziamenti a distanza di mesi o addirittura anni l’uno dall’altro, cambia il parametro di riferimento? Andrà fatto qualche conguaglio? E se il datore di lavoro procedesse nel breve periodo (addirittura a distanza di pochi giorni) a delle assunzioni in sostituzione dei lavoratori licenziati, sarà ugualmente penalizzato?

E infine nel calcolo dell’organico o della media occupazionale rileverebbero eventuali riduzioni per licenziamenti causa giustificato motivo oggettivo che, come visto, già hanno una loro specifica, soprattutto molto meno gravosa, sanzione?

Anche sulla percentuale di riduzione andrebbero dette un paio di cose. Si ipotizzi una impresa di 100 lavoratori: solo il licenziamento di 11 lavoratori (superiore al 10%) comporta la restituzione dei benefici; licenziarne 10 non crea problemi.

In una piccola impresa di 2 lavoratori, già il licenziamento di uno dei due (il 50% dell’organico) realizzerebbe la fattispecie. In pratica la sanzione colpisce statisticamente di più le piccole imprese. E viene pure il dubbio che riguardi solo quelle.

Se infatti si considera che la revoca è “totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento” si deduce che il licenziamento di 11 lavoratori da parte della grande impresa dell’esempio precedente (quella con 100 dipendenti) comporta la perdita dell’11% degli incentivi fruiti; invece nella piccola azienda di due lavoratori che ne licenzia uno, il recupero avviene per il 50%. Se poi la piccola impresa con 3 addetti avesse la sfortuna di cogliere sul fatto due di questi a rubare e li licenziasse entrambi perderebbe in toto gli aiuti di Stato, dato che il recupero “è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento”.

Difficile invece che la grande impresa possa perdere tutti i benefici perché non è ipotizzabile che, sempre riferendoci all’esempio precedente, licenzi 51 dipendenti su 100 per giustificato motivo soggettivo. E questa osservazione ci spinge ad un’altra considerazione: in base a quali dati – parliamo del fenomeno aziende che fruiscono di aiuti di Stato e poi licenziano – il nuovo Governo ha deciso di intervenire? Chi scrive non ha contezza che, in Italia, nelle grandi imprese ci siano stati episodi così eclatanti di licenzianti “collettivi” per furto o insubordinazione.

Si deve allora concludere che siamo di fronte ad un provvedimento destinato a colpire la piccola impresa con una sanzione di una entità tale che non potrà mai essere applicata alla grande impresa.

Una sperequazione inaccettabile.

Conclusioni

La leggenda (leggasi social e Facebook) narra che dietro a Di Maio e al Decreto Dignità vi sia un trittico di professionisti, tra cui due docenti universitari. Ora potremmo, seppur a fatica, sorvolare sulle idee per quanto strampalate possano sembrare. Si decide di penalizzare maggiormente le imprese che licenziano dei lavoratori che hanno commesso gravi infrazioni disciplinari rispetto a quelle che attuano riduzioni del personale giustificate da una più conveniente riorganizzazione aziendale, addirittura – come da recente giurisprudenza – con il risultato di incrementare i propri profitti? Restiamo allibiti ma ne prendiamo e ne diamo atto.

Chi scrive non può invece accettare il dilettantismo giuslavoristico e la superficialità tecnico-giuridica, di cui trasuda tutto il provvedimento in esame, da parte di soggetti, rectius di professionisti, chiamati a collaborare con il Governo a delle importanti iniziative legislative. A maggior ragione – sempre ovviamente che quanto sopra riportato corrisponda a verità – quando costoro sono figure a cui affidiamo l’istruzione e la formazione giuridica dei nostri figli.

E qui, citando qualcuno che oggi siede al Governo, lo dico da papà.