Analisi attenta delle fattispecie disciplinari e della procedura ex art. 7 L. n. 300/1970

Gianfranco Curci, Consulente del Lavoro, Avvocato del Lavoro e Revisore Cooperative in Milano

“Dottore possibile che mi ha fatturato quella somma per una semplice lettera di contestazione disciplinare?”

È alquanto probabile che quotidianamente nei nostri Studi i clienti pongano domande di questo tipo. Del resto è anche la semplificazione di chi non conosce le cose, per quanto attiene la materia della consulenza del lavoro e degli aspetti normativi in generale, ma tale assunto vale per qualsiasi “disciplina” e comporta spesso per noi professionisti uno stato di frustrazione.

La categoria a cui apparteniamo è quella delle professioni intellettuali! Gli strumenti informatici e quindi le attività elaborative sono meramente strumentali allo svolgimento di attività meccaniche di calcolo, ma certo non possono sostituire la conoscenza tecnico giuridica che il professionista Consulente del Lavoro deve necessariamente possedere.

Sarebbe curioso chiedere a “i semplificatori”, di sedersi all’elaboratore e di sviluppare una busta paga, dato che parrebbe che la stessa, come per magia, si sviluppi solo schiacciando un pulsante dell’elaboratore. Quindi perché dover pagare la busta paga? Non solo “i semplificatori” non saprebbero da dove iniziare, ma neppure tanti Consulenti del Lavoro, che diversificando la loro attività non elaborano buste paghe da tempo, attività che viene svolta nello Studio da altri addetti o Consulenti più giovani.

Non scherziamo più. Tutte le attività che riguardano il nostro ambito professionale, di consulenza del lavoro e della materia giuslavoristica in generale, sono attività complesse che richiedono preparazione professionale e serietà in senso lato deontologico.

La stesura di una lettera di contestazione disciplinare è semplicemente una lettera in cui si comunica a un lavoratore che è stato “cattivo”? Oppure è la genesi di un procedimento che potrà portare a degli sviluppi della vicenda contestata al lavoratore e produrre degli effetti?

La domanda è retorica per gli addetti ai lavori. Ma il cliente che si rivolge a noi spesso non ha tale cognizione di causa.

Quante lettere vengono richieste ai professionisti e poi non si sa più nulla riguardo l’esito delle stesse? Siamo noi, dopo che abbiamo predisposto la bozza di lettera (in realtà lettera finita, solo da mettere su carta intestata dell’azienda con firma del datore di lavoro), a rincorrere il cliente per chiedergli: “ha ricevuto la lettera il Sig. X?”. Spesso scopriamo che non è neppure stata spedita, oppure che il lavoratore ha dato una risposta scritta, ma è passato talmente tanto tempo che la procedura si incaglia in ostacoli di natura formale, per esempio decadenze previste dal contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro.

La sentenza della Corte di Cassazione, VI Sezione Civile, 9 aprile 2018, n. 8706, oggetto del presente commento, richiedeva una breve premessa nei termini sopra espressi.

Il lavoratore per ben due gradi di giudizio è rimasto soccombente, fino ad arrivare in Corte di Cassazione ove ha avuto ragione, è proprio il caso di dirlo, per un vizio meramente formale. Essere soccombenti per vizi formali, quando nel merito, come mi permetterei di sbilanciarmi, nel caso specifico, si è dalla parte giusta è veramente desolante.

Ebbene come si è svolta la vicenda giudiziaria? Il lavoratore ha ricevuto una lettera di contestazione disciplinare con la quale il datore di lavoro lamentava: 1) la falsità dell’autocertificazione di carichi pendenti; 2) la mancanza del requisito soggettivo necessaria per lo svolgimento del suo incarico di “preposto” (mancanza di carichi pendenti).

Il datore di lavoro nella successiva lettera di licenziamento, dopo aver preso atto che il lavoratore non aveva certificato il falso, in quanto al momento di emissione di tale autocertificazione lo stesso non aveva alcun carico pendente, decideva in ogni caso di licenziare il lavoratore in quanto lo stesso:

  1. non aveva dichiarato al datore di lavoro di essere stato condannato due volte per reati a dire del datore di lavoro incompatibili con l’attività di “raccolta scommesse” (e probabilmente sarà stato vero – ma ahimè la procedura disciplinare era completamente errata);

  2. non aveva comunicato la sopravvenuta circostanza di un “carico pendente”, per fatti ritenuti anch’essi incompatibili con l’attività lavorativa.

Subito in evidenza, da quanto finora esposto, che il datore di lavoro ha contestato dei fatti specifici, che poi si sono dimostrati infondati, ma tuttavia licenzia il lavoratore per fatti diversi da quelli precedentemente contestati. In pratica il datore di lavoro licenzia senza aver prima contestato gli addebiti. Infatti, la contestazione originaria, come appena riferito, riguarda altri fatti.

La Corte di Cassazione, giudice di legittimità, seppur si fosse trovata di fronte un lavoratore “truffaldino”, cos’altro poteva fare se non cassare la sentenza del Giudice d ‘Appello che pur aveva escluso la sussistenza dei fatti contestati, ma aveva ritenuto legittimo il licenziamento per il fatto che il lavoratore non avesse comunicato la pendenza del carico pendente, che tuttavia era sopravvenuta e per la quale il datore di lavoro non aveva notificato al lavoratore alcuna contestazione disciplinare.

Evidente l’errore dei giudici di merito e inevitabile il giudizio di legittimità a favore del lavoratore.

La forma spesso in diritto assume il carattere della sostanza.