Alcuni rimedi ai difetti del decreto dignita’

di Armando Tursi, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato

  1. Il c.d. “Decreto Dignità” (D.L. n. 87/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 96/2018) non rivoluziona l’assetto normativo dei rapporti di lavoro, che anzi, al di là della polemica politica, resta confermato nelle sue linee strategiche: a) conferma della nuova centralità della “flessibilità funzionale” (controlli, mansioni) rispetto a quella “tipologica” o “in entrata” (tipologie contrattuali); b) marginalizzazione della “tutela reale” nei licenziamenti illegittimi.

La novità sta nella direzione di marcia che il decreto sembra avere imboccato rispetto all’idea che alla precarietà patologica del lavoro possa contrapporsi una flessibilità fisiologica o virtuosa; nonché nell’avere individuato la zona critica di tale coincidenza tra flessibilità e precarietà, nel lavoro a termine, diretto o somministrato che sia.

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  1. In tema di lavoro (diretto) a tempo determinato, il decreto innesta una brusca retromarcia: back to 1962 e oltre, potrebbe dirsi.

Si torna, infatti, alla necessità della giustificazione dell’apposizione del termine, con elencazione tassativa di casi: con la differenza, però, che i casi non sono più 5 e ben definiti (come nel 1962), ma 3, e non altrettanto ben definiti.

Al ritorno della causale si aggiunge la durata massima di 24 mesi, che, mentre segna un inasprimento rispetto ai 36 mesi del Jobs Act, registra anche il ricorso cumulativo a tecniche di tutela che rispondono a logiche diverse: la tecnica della limitazione “causale”, coerente con la logica secondo cui la durata determinata sarebbe di per sé indesiderabile; e la tecnica della limitazione “temporale”, coerente con la logica secondo cui vanno evitati i rapporti a termine reiteratamente prorogati e rinnovati.

Ne scaturisce una sovra-attuazione della direttiva 1999/1970: mentre quest’ultima non contempla alcuna limitazione per il primo contratto a termine, e si propone solo di evitare gli “abusi” derivanti dalla reiterazione illimitata di contratti a termine, il “decreto dignità” pone un limite causale e un tetto massimo di durata che, salvi i primi 12 mesi di “a-causalità”, vale sia per il primo contratto che per le successive proroghe e rinnovi; questi limiti, a loro volta, si cumulano con la (inasprita) fissazione di un numero massimo di proroghe, con il c.d. “stop & go” tra contratti successivi, e con il c.d. “contingentamento” numerico dei rapporti a termine.

Questa disciplina neo-vincolistica solleva problemi interpretativi sotto diversi profili: se ne analizzano di seguito i più importanti, dedicandosi particolare attenzione a quelli derivanti dall’impatto della legge n. 96/2018 sulla contrattazione collettiva.

3.1. Il primo tema che si pone è quello della derogabilità delle causali legali da parte della contrattazione collettiva: ci si chiede se la contrattazione  possa quanto meno specificare meglio le causali per superarne le ambiguità.

3.1.1. Orbene, quanto alle “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività”, si tratta di una causale specifica, suscettibile di esemplificazioni, ma non di deroga, specie sul punto della “straordinarietà” dell’esigenza aziendale: una specificazione contrattuale che contrastasse con tale requisito, sarebbe nulla.

Però sarebbe ammissibile, e anzi auspicabile, un intervento chiarificatore ed esemplificatore della contrattazione collettiva (specie aziendale), mirante a calare il concetto di “straordinarietà” nel contesto aziendale: per es., in caso di avvio di una nuova attività (peraltro già contemplato dall’art. 23, co. 2, lett. a) del D.lgs. n. 81/2015, ma al diverso fine di escludere i relativi contratti a termine dal contingentamento legale), il contratto aziendale potrebbe precisare che, trattandosi di attività mai svolta in precedenza, o svolta in maniera del tutto contingente, o molto tempo prima e poi cessata, la nuova attività debba considerarsi estranea all’attività ordinaria.

Non sarebbe invece ammissibile escludere contrattualmente la necessità della causale per le imprese start-up (si tratta di nuova impresa, non di nuova attività di impresa preesistente), per gli specifici spettacoli, e per tutte le causali “soggettive”, quali quelle basate su status soggettivo-occupazionali dei lavoratori.

3.1.2. Quanto alla “sostituzione di altri lavoratori”: si tratta di causale equivalente alle vecchie “esigenze sostitutive”, formulata in maniera tale da includere le assenze senza diritto alla conservazione del posto (es.: ferie), e quindi più ampia della stessa previsione del 1962. Qui il contratto potrebbe svolgere un ruolo rafforzativo di quanto già implicito nella norma (per es., precisando che le esigenze sostitutive possono riguardare anche la sostituzione di lavoratori in ferie, in permesso retribuito e non, in riposo compensativo, ecc..).

3.1.3. Quanto, infine, agli “incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”: qui alla “ordinarietà” si aggiungono – oltre alla “temporaneità” – la significatività e la non programmabilità.

La “non programmabilità” lascia pochi spazi, e soprattutto, spazi contestabili dalla giurisprudenza; anche se non sono da escludersi previsioni specificative per casi particolari (es.: nuova commessa all’estero per un’impresa che in precedenza non aveva mai operato all’estero. Ma qui siamo al confine con la “nuova attività”, di cui si è già detto).

Più spazi per la contrattazione collettiva lascia il requisito della significatività: previsioni di tipo quantitativo (es.: % sul fatturato) sono, per un verso, assai auspicabili in chiave di certezza del diritto, e per l’altro, difficilmente contestabili dal giudice, ove non siano palesemente irragionevoli.

3.1.4. Particolarmente ingarbugliato è il tema dei c.dd. “contratti stagionali”.

Di per sé, le punte stagionali non programmabili – che, è bene ricordare, furono introdotte sul finire degli anni ’70 al fine di rendere possibili le assunzioni a termine necessitate da esigenze non riconducibili alla casistica dell’art. 1, co. 2, della legge n. 230/1962 – , non sono ammesse come cause giustificative dal decreto dignità.

Vero è che l’art. 21, co. 01, 4° periodo, del D.lgs. n. 81/2015, come novellato dal decreto dignità, prevede che i contratti a termine per attività stagionali siano rinnovabili e prorogabili anche in assenza di causale. Tuttavia tale possibilità – che si aggiunge a quella della rinnovabilità senza limite temporale e senza il rispetto del c.d. “stop & go” (art. 19, co. 2, e art. 21, co. 2, del novellato D.lgs. n. 81/2015) – , è  circoscritta alle proroghe e ai rinnovi, con esclusione – almeno letterale – del primo contratto.

Più che tramite contratto, il punto andrebbe chiarito in sede legislativa, o mediante circolare ministeriale, la cui tenuta giudiziaria sarebbe comunque non sicura.

La contrattazione potrebbe, tuttavia, prendere atto del problema, e prevedere una soluzione alternativa, quale quella di ammettere esplicitamente la possibilità di stipulare un primo contratto (di fatto “stagionale”, ma giuridicamente) “a-causale”, di durata non superiore all’anno, e poi rinnovarlo stagionalmente, secondo quanto previsto dai menzionati articoli 21, co. 01., 4° per., 19, co. 2., e 21, co. 2., del novellato D.lgs. n. 81/2015.

Deve poi ammettersi che la contrattazione collettiva possa ampliare il novero delle attività stagionali, senza essere vincolata alla “non programmabilità”: l’art. 21, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, infatti, devolve pienamente alla contrattazione collettiva la definizione della nozione di “attività stagionale”.

Ma si ripete: la stagionalità, come definita dal contratto collettivo,rileva solo al fine di escludere la necessità della causale per i rinnovi dei contratti a termine  e per le proroghe eccedenti il 12° mese (come pure il limite di durata massima di 24 mesi, e il c.d. “stop & go”); ma non vale al fine di escludere da detti vincoli il primo contratto “stagionale”.

Insomma, la “stagionalità” sembra essere un elemento che rende possibili le proroghe e i rinnovi a-causali di contratti causali, ma non la stipula di contratti a termine che siano ab initio a-causali (ossia, “stagionali” per la contrattazione collettiva, ma senza che ricorrano i rigidi requisiti di cui all’art. 19, co. 1, del D.lgs. n. 81/2015).

3.2. Ci si chiede, poi, se gli accordi collettivi esistenti, che prevedano durate maggiori di 24 mesi, siano compatibili con le nuove regole, e conservino comunque piena efficacia, pur a fronte della nuova disciplina legislativa che impone la causalità oltre il 12° mese di durata.

A tale proposito, si registra un dibattito dottrinale.

Ci si potrebbe appellare alla clausola di inscindibilità per teorizzare la prevalenza dei contratti collettivi in corso sulla legge difforme. Ma a nostro avviso si tratterebbe di un equivoco: l’efficacia della norma inderogabile gioca allo stesso modo per i contratti individuali e per quelli collettivi, ed è retta dal principio del confronto clausola per clausola, imposto dagli artt. 1418 e 1419 c.c.. L’inscindibilità delle clausole del contratto collettivo vale nel rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale (art. 2077 c.c.), non nel rapporto tra legge e contratto collettivo.

Del resto, spinta alle estreme conseguenze, la teoria dell’inscindibilità delle clausole collettive porterebbe a porre nel nulla l’intero contratto collettivo, non certo a sancirne la prevalenza sulle difformi norme legali inderogabili.

Dunque, in assenza di una norma transitoria (analoga, per es., a quella recata dall’art. 11 del D.lgs. n. 368/2001), gli accordi collettivi esistenti che prevedono durate maggiori di 24 mesi cessano di produrre effetti, in parte qua, dalla data di entrata in vigore del decreto dignità.

E’ necessario, però, un importante chiarimento: la sopravvenuta inapplicabilità dei contratti collettivi che prevedano durate dei contratti a termine superiori ai 24 mesi comporta solo che siano nulli, in parte qua, i nuovi contratti individuali a tempo determinato che, in coerenza coi predetti contratti collettivi, prevedano una durata eccedente i 24 mesi; non comporta, però, la nullità dei contratti individuali a suo tempo (ossia, prima del decreto dignità) stipulati in attuazione di quei medesimi contratti collettivi.

Sono, invece, ancora oggi ammissibili gli accordi collettivi che derogano al nuovo limite di 24 mesi in sede di rinnovo: infatti, l’art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015, continua a prevedere che, in caso di rinnovo, siano salve le “diverse previsioni dei contratti collettivi”; e non può dubitarsi che detta salvezza valga anche per i contratti collettivi previgenti.

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4.1. In tema di lavoro somministrato, il decreto dignità manifesta un difetto di mancata comprensione tecnica dell’istituto, il cui baricentro non sta tanto nella temporaneità, ma nella scissione tra datore di lavoro e utilizzatore.

Ciò si comprende bene ove si consideri l’approccio della direttiva 2009/104, incentrata sulla parità di trattamento e sulla non discriminazione, e non sulla “precarietà” temporale, reale o presunta, del rapporto.

La predetta direttiva si autodefinisce come volta a garantire la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale e migliorare la qualità del lavoro tramite agenzia interinale garantendo il rispetto del principio della parità di trattamento di cui all’articolo 5 nei confronti dei lavoratori tramite agenzia interinale e riconoscendo tali agenzie quali datori di lavoro, tenendo conto nel contempo della necessità di inquadrare adeguatamente il ricorso al lavoro tramite agenzia interinale al fine di contribuire efficacemente alla creazione di posti di lavoro e allo sviluppo di forme di lavoro flessibili”.

Da questo equivoco deriva la scorretta assimilazione del lavoro somministrato a tempo determinato, al lavoro a tempo determinato tout court (“diretto”).

E di qui, “a cascata”, la confusione tra giustificazione della somministrazione e giustificazione della temporaneità: che cos’è che, nel lavoro in somministrazione, dev’essere giustificato, il contratto di lavoro a termine o il contratto commerciale di somministrazione a termine ?

A queste domande, i legislatori passati hanno dato diverse risposte, che è utile ricordare:

– per la “legge Biagi” (D.lgs. n. 276/2003), “causale” era il contratto commerciale, la cui temporaneità si rifletteva nel contratto di lavoro (reso legittimo dal contratto commerciale “a monte”);

– per il “Jobs Act”, nessuno dei due, perché si è scelto di non richiedere alcuna giustificazione né per la somministrazione in sé (la scissione tra datore di lavoro e soggetto utilizzatore), né per il lavoro a termine in sé;

– adesso, per il “decreto dignità”, causale dev’essere solo il contratto di lavoro somministrato a tempo determinato, in quanto a tempo determinato, e non in quanto somministrato; donde la necessità che esso sia giustificato esattamente come se fosse un contratto a tempo determinato “diretto”.

4.2. Di qui, ancora, una serie di questioni aperte che non tarderanno a riversarsi nelle aule giudiziarie. La prima di tali questioni è quale sia il contratto da giustificare – se quello di lavoro somministrato a tempo determinato o quello commerciale di somministrazione di lavoro a tempo determinato – , e quale nesso vi sia tra i due contratti.

4.2.1. Come chiarito dall’art. 2, co. 1 ter, della legge n. 87/2018, la giustificazione attiene alle esigenze dell’utilizzatore; è certo, tuttavia, che essa costituisce requisito di validità del contratto di lavoro somministrato e non del contratto commerciale di somministrazione di lavoro. Se ne desume che la causale non vada indicata nel contratto commerciale di somministrazione a tempo determinato, ma nel contratto di lavoro somministrato a tempo determinato stipulato tra agenzia e lavoratore somministrato.

Ci si chiede, allora, se e in quale contratto detta causale vada indicata, nel caso in cui il contratto di somministrazione di lavoro sia a tempo determinato, ma i lavoratori da somministrare vengano assunti dall’agenzia a tempo indeterminato: se, insomma, per dare esecuzione a un contratto commerciale di somministrazione a tempo determinato, l’agenzia di somministrazione possa utilizzare contratti di lavoro somministrato a tempo indeterminato, sfuggendo così ai vincoli del “decreto dignità”.

E la risposta ci pare debba essere positiva, per due ordini di ragioni:

1) il contratto commerciale di somministrazione (continua a) non richiede(re) alcuna causa giustificativa, mentre tra utilizzatore e lavoratore somministrato non esiste alcun contratto da giustificare;

2) l’art. 31, co. 1, ult. per., del novellato D.lgs. n. 81/2015 stabilisce che ”Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato”, ma non esclude che ad un contratto di somministrazione a termine possa darsi esecuzione somministrando lavoratori assunti a tempo indeterminato.

Semmai, si potrebbe osservare che una via più piana e sicura per sottrarsi ai “vincoli” del “decreto dignità” sia quella della pura e semplice stipulazione di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, dal quale l’impresa utilizzatrice possa recedere in qualunque momento con preavviso (o senza preavviso, se così concordato tra le parti), e senza pagamento di alcuna penale.

4.2.2. Ma v’è di più: c’è addirittura da chiedersi a chi si applichi la sanzione per somministrazione irregolare (ossia, la costituzione giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore) in caso di difetto della giustificazione, posto che la giustificazione riguarda il contratto di lavoro somministrato, e dunque la sua carenza non dovrebbe potersi ripercuotere sull’utilizzatore, che a detto contratto è estraneo.

Più in generale, deve osservarsi che l’art. 38, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, prevede la costituzione del rapporto con l’utilizzatore per una serie di casi di c.d. somministrazione irregolare (violazione della soglia di “contingentamento”, dei divieti di somministrazione, della forma scritta del contratto commerciale di somministrazione) che non riguardano né la causalità, né la durata massima, né i limiti a rinnovi e proroghe; e dunque non si vede perché la violazione della causale, della durata massima e delle regole in materia di rinnovi e proroghe debba comportare l’applicazione della sanzione propria della somministrazione irregolare, e non, invece, la trasformazione in contratto a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione.

4.2.3. Resta, poi, sostanzialmente nebulosa la figura della “somministrazione fraudolenta”, la quale, abrogata dal Jobs Act per la sua inafferrabilità concettuale, viene adesso riproposta, con conseguente riattualizzazione delle suddette difficoltà definitorie; anche se, a ben vedere, in linea con la politica di valorizzazione della discrezionalità del giudice, perseguita dal legislatore e, recentissimamente, dalla stessa Corte Costituzionale (in tema di indennità per licenziamento illegittimo del c.d. ”contratto a tutele crescenti”).

Ci si potrebbe chiedere se sia “fraudolenta” la somministrazione di uno o più lavoratori presso un utilizzatore, seguita dalla loro sostituzione allo scadere dei 12 mesi.

Orbene, a noi sembra che impedire (considerandola “fraudolenta”) la “rotazione” dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato su più posizioni lavorative, facenti capo a diverse imprese utilizzatrici, sarebbe in contraddizione con la stessa ratio dell’istituto, che è quella di massimizzare le occasioni d’impiego dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato; mentre, come s’è chiarito, la “temporaneità” del contratto commerciale di somministrazione di lavoro non richiede e non postula alcuna giustificazione causale, ma si riduce al mero fatto della predeterminazione del termine di scadenza del contratto medesimo.

Semmai, potrebbe dubitarsi della legittimità (o “fraudolenza”) della reiterata assegnazione ad un medesimo utilizzatore, del medesimo lavoratore somministrato assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. In effetti, nell’esperienza comparata, la prospettiva di maggiore interesse non è affatto (come da noi) quella della “temporaneità” del lavoro, ma proprio quella della possibile discriminazione ai danni dei lavoratori somministrati permanentemente ad una medesima azienda: come insegna il caso Microsoft/Vizcaino (United States Court of Appeals, Ninth Circuit, 24.7.1997), in cui i lavoratori “affittati” da una staffing firm alla Microsoft venivano esclusi dai benefits (soprattutto previdenziali) concessi dalla stessa Microsoft ai propri employees.

In Italia, peraltro, l’operare della regola della parità di trattamento tra somministrati e dipendenti dell’impresa utilizzatrice, e l’efficace azione della contrattazione collettiva di settore, attenua, anche se non elimina del tutto, il problema, che persiste soprattutto con riferimento alla contrattazione integrativa e agli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro.

4.2.4. Vero è che il “decreto dignità” – forse inconsapevolmente, se si tiene mente all’iniziale intenzione del Governo di abolire lo staff leasingfinisce per riorientare decisamente l’asse regolativo e il calcolo delle convenienze economiche a favore dello staff leasing.

La somministrazione a tempo indeterminato, infatti, oltre a non richiedere alcuna causale, ad essere priva di limiti temporali, nonché soggetta a soglie di contingentamento più basse:

– si presta ad essere utilizzata anche per soddisfare esigenze temporanee dell’utilizzatore (laddove la somministrazione a termine non può essere utilizzata per soddisfare esigenze stabili);

– si rivela sostanzialmente immune da rischi di riqualificazione del rapporto (anche in comparazione con l’appalto di servizi labour intensive);

– offre al lavoratore la garanzia di un rapporto a tempo indeterminato con sostanziale parità di trattamento;

– offre un quadro normativo, interpretativo e applicativo assai più semplice e stabile.

4.2.5. Tuttavia, l’equivoco di fondo in cui è caduto il legislatore in tema di lavoro somministrato ha provocato, accanto ad apparenti “buchi neri”, anche alcuni “buchi nell’acqua”: come nel caso della disciplina delle proroghe, la quale, nonostante l’integrale riconduzione della somministrazione a termine alla disciplina del lavoro (diretto) a tempo determinato, sancita dal novellato 1° periodo del 2° comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 81/2015 (“In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24”), resta invece affidata altrettanto integralmente alle determinazioni della contrattazione collettiva (in atto e futura). Infatti, il “decreto dignità” non ha abrogato il 2° periodo del predetto 2° comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 81/2015, il quale continua a prevedere che “il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato … nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore”: sicché, su causali e durata delle proroghe dei contratti di lavoro somministrato a tempo determinato la contrattazione collettiva resta sovrana.

4.2.6. Altro esempio di “buco nell’acqua” è la persistente possibilità di cumulare 12 mesi di contratto a termine a-causale, con 12 mesi di contratto di lavoro somministrato a termine a-causale: ciò dovrebbe essere possibile perché, per un verso, non si supera il limite di 24 mesi, e per l’altro, non è superato nemmeno il limite dei  12 mesi, posto che esso opera, in una prima fase, con riferimento all’agenzia, e in una seconda fase, con riferimento all’utilizzatore.