Il lavoro agile? Nel 2014 noi l’abbiamo immaginato “agilissimo”…

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“Il lavoro è quella forma particolare di dialogo dell’uomo con l’uomo che serve alla conservazione e allo sviluppo della vita umana”.
J. Tischner – Etica della solidarietà

Si attende la prossima emanazione della legge, per ora disegno di legge, sul lavoro agile, come interessante propaggine, o forse pendant, del nucleo di tutele previste per il lavoro autonomo. Importante ed assolutamente condivisibile è l’intento del legislatore di affiancare all’individuazione di alcune regole generali di presidio e di rafforzamento del lavoro autonomo una sorta di flessibilizzazione del lavoro subordinato.
Siamo completamente d’accordo con tale indirizzo, per le ragioni che esporremo, un po’ meno sulla realizzazione pratica, che ci sembra davvero poca cosa. Tuttavia, riteniamo utile affermare il principio di fondo quantomeno per gettare una base concettuale su cui si potrà lavorare in futuro.

Il nostro Centro Studi, coordinando un lavoro dei Consulenti del Lavoro della Lombardia, già nel 2014 – in sede di Congresso Regionale – aveva delineato una proposta che andava nella direzione ora resa dal legislatore, ma più completa e radicale, che qui esponiamo.
Nel disegno di legge in via di discussione nel nostro Parlamento, il lavoro agile si configura – in buona sostanza e senza volerne ridurre il significato, più ampio – come una sorta di regolamentazione evoluta del telelavoro, prendendo infatti spunto dalla ormai evidente smaterializzazione del lavoro, a seguito delle innovazioni tecnologiche sul fronte non solo informatico ma soprattutto della comunicazione.
A fronte di tale smaterializzazione, la possibilità di lavorare da casa o “altrove” – non essendo legati al posto “fisico” di lavoro ed alla sua organizzazione spazio – temporale – richiede un mix di opportunità e di nuove
regole, un nuovo paradigma che viene appunto affrontato dalla legge; la quale, come tutte le idee innovative, si presenta con spunti buoni ed altri da verificare sul campo.
La nostra proposta del 2014 invece prescinde in un certo qual modo dalla smaterializzazione del lavoro ed affronta un altro e più ampio tema, che sicuramente si declina anche con le nuove modalità di lavoro – e forse proprio da esse trova una sua iniziale genesi culturale, pur avendo anche radici antichissime – ma che non necessariamente si realizza in ambiti ad alta tecnologia.
Ma andiamo con ordine, elencando, prima di arrivare al nucleo della nostra proposta, i presupposti della stessa.

La “preferenza” per il lavoro subordinato (con un nuovo paradigma)

Il dibattito attuale, prima e dopo il Jobs Act, si è dipanato sul concetto di autonomia e subordinazione:
esse esistono ancora secondo i vecchi standard? E se no, tale suddivisione ha ancora senso? Secondo noi assolutamente sì, ed anzi è necessario insistere su questa divisione, con un concetto abbastanza semplice: tutto ciò che non è realmente autonomo è, e deve essere, subordinato. Ovvero, il lavoro autonomo è qualcosa di radicalmente diverso dal subordinato, soprattutto per l’intenzione che anima differentemente la prestazione: la prima infatti, dal free lance al piccolo o medio datore di lavoro, nasce da un’intuizione imprenditoriale, una voglia di giocarsi nel modo del lavoro “con il vento in faccia”, con tutti i pro ed i contro di tale scelta. In altre parole: il rischio, professionale e di impresa, vissuto in prima persona.

Però scelto, non imposto. “Nella nostra azienda assumiamo solo con partita Iva” prima che una contradictio in terminis è un modo scorretto e fraudolento di impostare il rapporto di lavoro. In questi anni la proliferazione di rapporti parasubordinati o autonomi del tutto fasulli mostra una preoccupante, ma ormai conclamata, tendenza del mercato del lavoro italiano, un’affezione radicale all’escamotage, una furbizia dilagante sorretta spesso da disattenzioni e complicità degli attori, anche (tanto per non parlare sempre dei difetti degli altri) da un mondo professionale che purtroppo tradisce, se e quando si pone in tal modo, il proprio ruolo di garanzia e terzietà.

E se tale atteggiamento ha trovato una (seppur molto) parziale giustificazione nei difetti endemici del nostro lavoro subordinato (su tutti: il costo del lavoro e l’onerosità e rigidità delle regole), esso ha creato, soprattutto in tempi di crisi, profonde lacerazioni del tessuto sano e produttivo del paese e di una cultura positiva del lavoro, favorendo sfruttamenti e furbizie e soprattutto alimentando una tendenza al massimo ribasso che ha depresso la concorrenza sana e leale, a favore della “legge del più scaltro”.

Quindi: la subordinazione è anzitutto una scelta di stare in un certo alveo di tutele e di regole “di copertura”, che non possono che essere radicalmente differenti (come concezione e gestione) da quelle del lavoro autonomo, anche se vi possono essere convergenze e parallelismi. Una sovrapposizione anche solo parziale dei generi, invece, per quanto detto è potenzialmente micidiale (ed anzi, sotto questo profilo, la norma che avrebbe dovuto portare al “superamento della parasubordinazione” appare davvero poca cosa, avendo lasciato ad una circolare ministeriale ed al lavoro degli ispettori il compito arduo di serrare le fila e ridurre gli spazi, con tutti i problemi interpretativi ed il contenzioso che ciò comporterà).

Tuttavia è anche vero che il lavoro è cambiato è non può più essere gestito e concepito solo secondo i vecchi parametri della subordinazione classica: non soltanto l’evoluzione tecnologica ma anche l’accrescimento del livello formativo e delle competenze, nonché nuovi modelli di sviluppo e di cultura tendono a superare il concetti del “fai ciò che ti dico” verso modelli più evoluti e partecipativi. Essi però non devono essere confinati in aree spurie, che si prestano a facili quanto perniciose elusioni confondendo ambiti, prestazioni e tutele, ma devono restare all’interno del lavoro subordinato, accostando agli schemi classici – che ancor possono essere applicabili, sia pure con qualche emancipazione, a diverse lavorazioni – nuovi paradigmi di lavoro, di modo da avere una specie di sistema duale, un meccanismo a diverse velocità, all’interno del medesimo ambito del lavoro subordinato. In tal modo, con nuove concezioni del lavoro, gestito per obiettivi e con flessibilità e magari al di fuori di un rigido concetto di orario di lavoro, convivono le tutele tradizionali, senza sacrifici sul piano contributivo (vogliamo parlare dell’improbabile e penalizzante strutturazione della contribuzione della Gestione Separata?) o assicurativo, senza commistioni improbabili e sovrapposizioni trasversali: la stessa parola “parasubordinazione” appare quanto mai ambigua e foriera di contraddizioni.

La “cornice normativa” ed il ruolo decisivo della certificazione

Nel nuovo scenario che si palesa e che immaginiamo di regolare, lo standard generale del “paradigma parallelo” è l’assenza di schemi rigidi precostituiti: la rapidissima evoluzione di mezzi, conoscenze, organizzazioni e competenze determinerebbe il superamento immediato di qualsiasi forma strutturale. Sotto questo profilo, se ci si pensa un attimo, la stessa norma sul lavoro agile, per quanto innovativa ed apprezzabile rispetto al panorama odierno, appare già vecchia e superata prima ancora di esser nata.

D’altronde, le tendenze alla devianza patologica, sopra ricordate, del nostro mercato del lavoro ed inoltre la necessità di applicare anche al nuovo paradigma il medesimo sistema di tutele e gestioni proprie del lavoro subordinato, richiedono almeno una “cornice normativa” entro la quale situare le nuove tipologie di lavoro subordinato, una sorta di “paletti di riferimento” all’interno dei quali lasciare alle parti un alto grado di flessibilità.
Il problema è, infatti, regolare efficacemente e senza rischi sociali questa flessibilità, pur salvaguardandone la maggior elasticità possibile.
La cornice normativa è data dalla individuazione di un nucleo di clausole e di tutele che vanno ad applicarsi al modello che in fase definitoria abbiamo denominato “Patto Individuale Certificato” (PIC), descritto analiticamente in seguito.
Se il ruolo della contrattazione collettiva potrebbe essere importante e in alcuni ambiti decisivo, essa però rischia nel presente di porre la propria attenzione più verso la gestione di settori di basso profilo e di alto rischio
(quasi a gestire le situazioni a rischio di marginalità sociale) che non verso la parte più in evoluzione del lavoro.
Come si evince dal nome, riteniamo invece che lo strumento più indicato a tal proposito sia la certificazione dei contratti di lavoro ex artt. 75 e segg. del D. Lgs. 276/03.

Attraverso la certificazione, infatti:

  • viene accertata e definita la volontà delle parti;
  • possono essere individuate clausole particolari, anche specificamente appropriate al caso singolo;
  • viene costituito un qualificato presidio di controllo, in quanto viene accertata la corrispondenza del modello contrattuale, nonché delle clausole individuate dalle parti e del loro concreto sviluppo nel rapporto, con il dettato normativo;
  • i rapporti così instaurati vengono sottoposti al controllo preventivo anche degli Enti di vigilanza, a cui tali contratti vengono segnalati;
  • in caso di contenzioso, l’interpretazione delle clausole e la gestione deflattiva del contendere è rimessa ad un passaggio obbligatorio nella sede di certificazione inizialmente prescelta dalle Parti.

A supporto di tale attività possono essere individuate – come già previsto dalla norma originaria – buone prassi per affrontare con una certa uniformità di criterio la complessità e varietà delle situazioni che potrebbero presentarsi alle sedi di certificazione.
L’unico elemento difforme dall’attuale sarebbe che per attuare il PIC il passaggio della certificazione sarebbe indispensabile, o in altri termini, obbligatorio, con un ipotetico congestionamento delle sedi di certificazione.
Una prima soluzione potrebbe essere quella di rivolgersi in alcuni casi alla Commissione Centrale di Certificazione istituita presso il Ministero del lavoro, ai sensi dell’art. 76 co.1 lett. c-bis, al fine di approvare schemi di convenzione contrattuali poi applicabili a lavoratori diversi.
D’altronde, anche questa potrebbe essere una prima fase, passata la quale determinati modelli di contrattazione individuale, diventati abituali, potrebbero trovare regolazioni più efficaci a livello collettivo.
A tal riguardo, oltre alla contrattazione collettiva, abbiamo pensato anche ad uno specifico Patto Aziendale Certificato, che per ragioni di brevità farà parte di un successivo contributo.

Il lavoro come avventura comune

Prima di addentrarci nell’esame concreto, vi è tuttavia un altro principio cardine da porre in evidenza.
Abbiamo sintetizzato l’esperienza di tanti anni di assistenza alle PMI così come ai professionisti ed alle microimprese, notando come la realtà imprenditoriale più autentica – talvolta nemmeno solo quella piccola – si sviluppa sulla base di un consenso e di una collaborazione: l’impresa ed il lavoro in essa diventano perciò un’avventura comune dove imprenditore e lavoratore sono uniti e solidali per la realizzazione di uno scopo comune, sia pure visto con prospettive e responsabilità differenti.
Questo modello ideale, per nulla nuovo, non è utopistico ed è particolarmente concreto, non si basa su una radice etica (per quanto, sul piano degli effetti pratici, sia un modello ad elevato coefficiente etico) ma su un concetto organizzativo, tendente a superate il modello antagonistico-difensivo su cui è costruito in buona parte l’impianto del diritto del lavoro italiano.
Una storia non di uomini-contro ma di persone legate da un destino comune, nel quale scelgono liberamente di condividere obiettivi e, in piccola parte rischi e sfide, con un reciproco vantaggio: se potessimo racchiuderlo in una parola, una reciproca solidarietà.
Welfare, partecipazione, conciliazione vita-lavoro, formazione efficace e permanente, produttività e responsabilità sociale non diventano così parole vuote, costrutti teorici o chimere da inseguire faticosamente ma –
sia pure per piccoli passi – obiettivi concreti e possibili perché concordati e costruiti fra le persone, con le loro possibilità, i loro bisogni reali e le loro aspettative. Nemmeno essi ci appaiono confinati in lussuosi ed esclusivi “best places to work”, ma alla portata di ogni lavoratore.
Si profila in tal modo una nuova cultura e concezione del lavoro, che però nemmeno ci appare così nuova ma piuttosto antica e tesa realizzare naturalmente ciò che, quando imposto da una cultura giuslavoristica del “sospetto radicale”, tarda invece ad affermarsi; tale concezione, peraltro, appare la più idonea ad affrontare non solo le sfide future della competizione e dell’accrescimento delle competenze, ma anche l’evoluzione del sistema sociale e della risposta ai bisogni, sempre più orientato a criteri sussidiari.
È ovvio – non siamo ingenui – che tale passaggio richiede specifici controlli e quella cornice normativa atta ad evitare, nuovamente, abusi ed elusione attraverso l’infiltrazione, all’interno di questa filosofia, di malcostumi già noti.
Resta infatti in parallelo anche l’impianto normativo attuale, di cui il PIC rappresenta un superamento in positivo, quindi con maggiori tutele ed opportunità per il lavoratore.

Il Patto Individuale certificato (PIC)

Il PIC è un patto contrattuale flessibile

  • concluso fra azienda e singolo lavoratore,
  • sottoposto obbligatoriamente a certificazione nelle sedi preposte,
  • che riguarda una serie di argomenti individuati espressamente dalla legge (la cornice normativa suddetta) che, ed è questo un elemento di novità, a determinate condizioni possono anche derogare dalle norme vigenti o dalla loro impostazione.

La condizione fondamentale della deroga è che il patto contenga – quantomeno tendenzialmente, ma seriamente e concretamente – condizioni “a somma positiva” per il lavoratore; diversamente da una banale deroga imelius, queste condizioni possono essere il frutto anche della assunzione di responsabilità e (parziale) rischio da parte del lavoratore con determinate garanzie e a fronte di possibili concreti vantaggi o tutele ulteriori rispetto a quelle standard del lavoro subordinato.

Abbiamo individuato questi argomenti, suddivisi per macro-aree i cui effetti sono, evidentemente, interscambiabili: