La risposta ad interpello n. 954-1417/2016 della Direzione Centrale Normativa dell’Agenzia delle Entrate pervenuta il 10 aprile scorso fornisce importanti chiarimenti sui destinatari dei Piani Welfare, sulla composizione delle categorie beneficiarie, nonché sul contenuto del regolamento aziendale ai fini dell’integrale deducibilità dal reddito d’impresa dei costi Welfare sostenuti dal datore di lavoro.
Si premette che la società istante, SRL amministrata da un CdA di due componenti percettori di un compenso fiscalmente inquadrabile tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ex art. 50, lett c bis) del TUIR e con sei dipendenti, ha esposto di aver deciso di attivare un Piano Welfare formato da due servizi aventi finalità ricreative (abbonamento a palestra e viaggi all’estero), disciplinato da specifico regolamento aziendale allegato all’interpello, indirizzato sia agli amministratori che al personale dipendente. Detto regolamento prevede l’assegnazione di un budget di spesa <figurativo>, totalmente a carico della società e non rimborsabile, diversificato tra tre diverse categorie omogenee, la prima delle quali composta dagli amministratori, la seconda dai dipendenti con una RAL fino a 35.000 euro e la terza da quelli con una RAL maggiore di 35.000 euro.
La questione interpretativa sollevata dall’istante ha riguardato la possibilità di:
– applicare il regime di esclusione da imposizione sul reddito da lavoro dipendente previsto dall’art. 51, comma 2, lettera f) del TUIR in relazione all’utilizzazione di servizi con specifica finalità ricreativa riconosciuti dalla società in conformità a disposizioni di regolamento aziendale;
– beneficiare della piena deducibilità del suddetto costo dal reddito d’impresa quale spesa relativa a servizi utilizzabili dalla generalità o categorie di dipendenti, senza incorrere nella limitazione del 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi come previsto dall’art. 100, comma 1 del TUIR.
Nella risposta n. 954-1417/2016 l’Agenzia delle Entrate innanzitutto sgombra definitivamente il campo dai dubbi circa l’inclusione degli amministratori di società che percepiscono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente tra i destinatari dei benefici fiscali, analogamente ai lavoratori dipendenti.
Chiarisce poi che i servizi offerti dal Piano Welfare, rientrando nella finalità ricreativa di cui all’art. 100, comma 1 del TUIR, risultano pacificamente esclusi del reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 51, comma 2, lett. f).
Precisa infine che “in relazione all’altro requisito concernente l’offerta delle opere e servizi che deve essere rivolta alla <generalità> o a <categorie di dipendenti> …..il legislatore, a prescindere dall’utilizzo dell’espressione <alla generalità di dipendenti> ovvero a <categorie di dipendenti>, non riconosce l’applicazione delle disposizioni elencate nel comma 2 dell’art. 51 del TUIR, ogni qual volta le somme o servizi ivi indicati siano rivolti <ad personam> ovvero costituiscano dei vantaggi solo per alcuni e ben individuati lavoratori. Nel caso di specie … il credito welfare è riconosciuto sia ai lavoratori dipendenti che agli amministratori, ancorchè sulla base di presupposti diversi: l’ammontare della RAL per i primi, la partecipazione al CdA per i secondi. Tale diverso criterio si ritiene non faccia venir meno la circostanza che l’offerta sia rivolta alla <generalità di dipendenti> e che, pertanto, possa trovare applicazione la previsione di esclusione dal reddito di lavoro dipendente di cui all’art. 51, comma 2, lett. f), del TUIR”.
Ricapitolando: 1) una categoria può ben essere composta dai componenti del Consiglio di Amministrazione; 2) il criterio della misura della RAL può essere utilizzato, tra i tanti, per diversificare le categorie di dipendenti, fermo restando che nell’interno di ciascuna di essa il valore dei benefits attribuiti deve avere “quantomeno la medesima consistenza” (cfr risposta a interpello n. 904-1533/2016); 3) l’individuazione di categorie sulla base di presupposti diversi tra loro non costituisce di per sé motivo ostativo all’applicazione delle fattispecie esenti di cui all’art. 51, comma 2.
Da notare che è “irrilevante, ai fini della non concorrenza al reddito da lavoro dipendente, la circostanza che i servizi siano corrisposti per iniziativa unilaterale del datore di lavoro o in base alla contrattazione. In entrambe le ipotesi, infatti, e nel rispetto delle altre condizioni …, i servizi aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto non concorrono alla formazione del reddito del dipendente.”
Viceversa, “la causa che ha dato luogo al Piano Welfare risulterà, invece, rilevante ai fini della deducibilità dei relativi costi sostenuti dal datore di lavoro.
Infatti, ai sensi dell’art. 100, comma 1 del TUIR: Le spese relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi.”; laddove invece l’erogazione di tali opere e servizi, utilizzabili dalla generalità o categorie di dipendenti, sia frutto di contrattazione collettiva, nazionale o territoriale, o di accordo interconfederale o, infine, di regolamento aziendale, ai sensi dell’art. 95 del TUIR i relativi costi risulteranno deducibili ai fini IRES.”
Sul contenuto del regolamento aziendale – inteso quale atto unilaterale del datore di lavoro non derivante da una negoziazione sindacale – che stabilisca l’utilizzazione di opere e servizi, la circolare n. 28/E del 15 giugno 2016 dell’Agenzia delle Entrate ha sottolineato che lo stesso deve comunque configurare “l’adempimento di un obbligo negoziale”. Precisazione questa che ha sollevato non pochi dubbi tra gli addetti ai lavori, considerando che sebbene non siano mancate interpretazioni giurisprudenziali volte a identificare il regolamento aziendale con un contratto collettivo, è indubbio che esso rimanga espressione della libera volontà del datore di lavoro e non consegua ad alcun tipo di vincolo negoziale.
Ebbene, il regolamento sottoposto dalla società istante viene cassato dall’Agenzia delle Entrate perché nello stesso “non si evincono statuizioni volte a configurare l’adempimento di un obbligo negoziale. Ad ulteriore conforto di tale conclusione, le norme finali del Regolamento stabiliscono che il datore di lavoro <avrà facoltà di cessare unilateralmente e discrezionalmente l’implementazione e l’efficacia del Piano Welfare al termine di ciascun anno, senza che da questo possa derivare alcun successivo obbligo nei confronti dei collaboratori, né far sorgere diritti di qualsiasi natura in capo a questi ultimi. Inoltre qualora norme di legge o variazioni sostanziali nel costo per le forniture dei servizi dovessero significativamente modificare lo scenario in base al quale è stato istituito il Piano Welfare ovvero gli aspetti fiscali ad esso inerenti, è facoltà del datore interrompere in qualsiasi momento l’applicazione del Piano Welfare o di procedere a una sua revisione.>”
Dunque – secondo l’Agenzia – il regolamento aziendale può essere fonte di diritti dei dipendenti e di corrispondenti obblighi giuridici a carico del datore di lavoro solo se non consente, per un determinato periodo di tempo, la possibilità al datore di lavoro di modificare i suoi impegni assunti. In tal caso, il lavoratore, aderendo al Piano Welfare, acquista la titolarità di un diritto soggettivo al quale è correlato l’obbligo di adempimento del datore, con tutte le conseguenze di legge.