E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee. (R. Zero, “Il coraggio delle idee”)
Il disegno di legge in materia di lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri del 1° maggio 2023, introduce una norma a tutela delle aziende in tutti quei casi dove i lavoratori, strategicamente, “spariscono” fisicamente dal posto di lavoro e diventano irreperibili ad oltranza. In tali situazioni, altro non può fare il datore di lavoro se non procedere a contestare l’assenza ingiustificata, secondo quanto stabilito dall’art.7 della L. n. 300/1970, attendere eventuali giustificazioni, per poi procedere, entro i termini stabiliti dalla norma o dal Ccnl al licenziamento per giusta causa, da cui scaturisce l’obbligo del pagamento del ticket Naspi che, ricordiamo, per il 2023 è pari a € 603,19 annuali e € 1.809,57 come importo massimo per 3 anni di anzianità. In seguito a ciò, oltre al disagio creato in azienda, il “furbetto” percepisce beatamente anche la Naspi fino ad un massimo di 24 mesi. L’alternativa a quanto sopra descritto è perseverare in una molteplicità di contestazioni in cui si esorta il lavoratore a rassegnare le proprie dimissioni volontarie, poiché la volontà di interrompere il rapporto è abbastanza chiara, e a comunicarlo secondo quanto stabilito dall’articolo 26 del decreto legislativo n. 151/2015; seppure raramente, a volte il lavoratore desiste dal suo atteggiamento da “desaparecidos” manifestando la volontà di rescindere unilateralmente il rapporto ma, purtroppo, nella maggior parte dei casi ciò non accade. In tutte le situazioni in cui il lavoratore “cede”, ovviamente l’azienda non è tenuta al pagamento del ticket ed egli non percepisce la Naspi. A tal proposito si era espresso il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 20 del 27 maggio 2022, affermando che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”. Il Giudice prosegue analizzando il contenuto della Legge delega del D.lgs. n. 151/2015, ovvero la L. n. 183/2014, che prevedeva “… modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”. Tale ultimo assunto risulta inattuato nel D. lgs. n. 151/2015, ma comunque, afferma il Giudice, pienamente valido: “Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata, come accaduto nella vicenda al vaglio, in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità”. La sentenza afferma inoltre che, poiché in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute, è possibile pervenire alla risoluzione del rapporto di lavoro solo attraverso il licenziamento per giusta causa, si pone il dubbio sulla compatibilità costituzionale con gli articoli 41 e 38 Cost..
Nello specifico, si paventa violazione dell’art. 41 Cost. per la limitazione dell’autonomia imprenditoriale, causata dall’imposizione in capo al datore di lavoro di farsi carico dei rischi relativi ad un eventuale giudizio e del costo del ticket Naspi, nonché di procedere con l’atto del licenziamento disciplinare che il datore medesimo non avrebbe assunto a fronte del comportamento del lavoratore rimasto a lungo assente senza giustificazione. Relativamente all’art. 38 Cost., si evidenzia l’ingiusta sottrazione di risorse (Naspi) destinate ai lavoratori che si siano trovati in stato di disoccupazione involontaria, “giacché, proprio attraverso un licenziamento strumentalmente sollecitato e, di fatto, indebitamente imposto al datore, si darebbe luogo, a favore del licenziato, ad un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione, in realtà costituente l’esito di una scelta libera ed in alcun modo involontariamente subita dall’ex dipendente”. Orbene, perfettamente in linea con la pronuncia giurisprudenziale citata, l’art. 26 della citata bozza del D.D.L. lavoro, titolato “Modifiche in materia di dimissioni”, inserisce il nuovo comma 7-bis all’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, in cui si afferma: “In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”.
FINALMENTE! Verrebbe da dire, anche perché, purtroppo, abbiamo assistito negli anni a comunicazioni di dimissioni volontarie verbali dei lavoratori che poi, improvvisamente, magari dopo adeguata analisi, si sono magicamente trasformate in assenze strategiche volte a produrre quanto sopra descritto. Assolutamente encomiabile l’iniziativa, che reca però qualche criticità di gestione. In primo luogo, i rumors comparsi all’indomani della bozza approvata paventavano già strategie risolutive per i lavoratori e, poiché siamo la patria del “trovata la legge, fatto l’inganno”, uno dei possibili escamotage è quello di assentarsi per un numero di giorni inferiore a quello stabilito dalla norma o dal Ccnl, rientrare successivamente al lavoro, per poi riassentarsi e così via, costringendo di fatto il datore di lavoro ad attivare la procedura disciplinare L. n. 300/70. Sarebbe quindi opportuno identificare un lasso di tempo determinato entro cui valutare le assenze, che dovrebbero essere considerate utili allo scopo anche qualora non siano continuative, per evitare che i lavoratori disonesti ne possano approfittare. Inoltre, l’assenza ingiustificata non ha una definizione giuridica propria, ma viene definita tale in virtù del procedimento disciplinare, che ha però come conclusione il licenziamento, così come stabilito negli stessi Ccnl. Nasce quindi la problematica di istituire una nuova procedura pseudo-disciplinare che si concluda con la definizione delle dimissioni per factia concludentia o, in alternativa, e senza dubbio molto più semplice e snello, si potrebbe stabilire che in caso di licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata non trova applicazione l’obbligo di pagamento del ticket Naspi e, di conseguenza, non sorgerà in capo al lavoratore il diritto alla prestazione. L’occasione della discussione di questa novità inserita nella bozza del D.D.L. potrebbe essere propedeutica alla valutazione di qualche modifica relativa alla gestione delle dimissioni del lavoratore. Sarebbe opportuno pensare di eliminare la possibilità attualmente prevista di revocare le dimissioni on-line entro 7 giorni dall’invio telematico (c.2, art. 26, D.lgs. n. 151/2015), anche per evitare situazioni pregiudizievoli qualora il datore di lavoro avesse, nel frattempo, già provveduto ad assumere un nuovo lavoratore al posto del dimissionario.
Per quanto riguarda i genitori dimissionari, appare priva di utilità la convalida obbligatoria delle dimissioni oltre il primo anno ed entro il terzo anno di età o di ingresso in famiglia del figlio mentre, al contrario, è pienamente condivisibile l’obbligo entro il periodo in cui vige il divieto di licenziamento. Inoltre, ferma restando la legittimità dell’ulteriore tutela relativa alla percezione della Naspi in caso di dimissioni entro il primo anno del figlio, così come l’esonero dall’obbligo del preavviso, non appare altrettanto equo l’obbligo in capo all’azienda di erogare l’indennità di mancato preavviso al lavoratore, che comunque ha scelto unilateralmente di interrompere il rapporto di lavoro, quantomeno nella formula attuale in cui la relativa somma resta totalmente in capo al datore di lavoro, così come il pagamento del ticket Naspi che sarebbe opportuno porre a carico dello Stato, costituendo una specifica tutela alla genitorialità. Relativamente alle tutele derivanti dal congedo di paternità, sia obbligatorio che alternativo, qualora il padre lavoratore non abbia reso noto al datore di lavoro l’avvenimento della paternità e decidesse poi di dimettersi entro l’anno del figlio, senza convalidare le proprie dimissioni, laddove il lavoratore pretendesse successivamente il reintegro per inefficacia delle dimissioni non convalidate, si dovrebbe prevedere una qualche tutela della buona fede del datore di lavoro che, di fatto, è stato tenuto totalmente allo scuro della situazione, e quindi non in grado di valutare l’obbligo di convalida delle dimissioni rassegnate nel periodo “protetto”. Confidiamo che i lavori di consolidamento del disegno di legge siano forieri di utili semplificazioni.