E non è necessario perdersi “in astruse strategie, tu lo sai, può ancora vincere chi ha il coraggio delle idee”. (R. Zero, “Il coraggio delle idee”)
Come noto, la sentenza n. 9095/2023 della Suprema Corte ha aperto le danze a quello che ormai è divenuto un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui è nullo il licenziamento del lavoratore con disabilità per superamento del periodo di comporto ordinariamente stabilito dal Ccnl di riferimento, in tutti i casi in cui all’interno di tale periodo vengano conteggiate le assenze per inidoneità al lavoro collegata allo stato di disabilità. Tale procedura, secondo i giudici, costituirebbe una discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore con disabilità. Diverse sono le considerazioni che nascono spontanee in merito. Il periodo di comporto determinato dalle parti firmatarie dei vari Ccnl è stato dalle stesse identificato come un lasso di tempo congruo oltre il quale non è materialmente e civilmente sostenibile proseguire il rapporto di lavoro, poiché il peso ed i relativi costi andrebbero a cadere su un unico soggetto, ovvero il datore di lavoro, cui, chiaramente, non si può chiedere di mantenere “vita natural durante” un soggetto che, sebbene per problematiche di salute, non possa più prestare la sua opera lavorativa all’interno dell’azienda. Nel caso del lavoratore con disabilità però, ed è questo il principio su cui si basa copiosa giurisprudenza1 , non si può non considerare che, in molti casi, lo stato di disabilità possa incidere negativamente sul recupero dello stato di salute rispetto ad un lavoratore senza disabilità. In buona sostanza ci troviamo attualmente in una situazione in cui il datore di lavoro che licenzia un lavoratore con disabilità per superamento del periodo contrattuale di comporto, rischia concretamente di doverlo reintegrare per licenziamento discriminatorio, poiché applicare il medesimo periodo di comporto previsto per un lavoratore senza disabilità ad uno con disabilità, costituisce, appunto, discriminazione indiretta. Il fatto che il datore di lavoro non sempre sia a conoscenza della disabilità del lavoratore, non lo pone pienamente al riparo dalle gravose conseguenze predette, in quanto, prosegue la Corte nella citata sentenza, è ininfluente la consapevolezza del datore di lavoro circa lo stato di disabilità dei lavoratori, poiché “la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore”; ergo, la discriminazione esiste in ragione del trattamento di sfavore subìto dal soggetto con disabilità, a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro2. La rigidità di tale principio è stata fortunatamente smorzata nella sentenza n. 14316/2024, in cui, al contrario, si afferma che “Il presupposto della conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza incide, evidentemente, sulla possibilità che il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti da adottare e, quindi, rappresenta un momento indispensabile nella valutazione della fattispecie”; “Quindi il datore è chiamato a provare, (…), di aver compiuto “uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiuri il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto” 3 . A parere di chi scrive, può essere considerata “buona norma” fare il possibile per eliminare il rischio di sottovalutare lo stato di salute del dipendente legato alla disabilità e, in buona sostanza, potrebbe essere risolutivo, nel momento in cui si stia avvicinando la fine del periodo di comporto, o direttamente nella comunicazione dell’esaurimento dello stesso, chiedere formale conferma al lavoratore che all’interno delle assenze per malattia non vi siano periodi correlati alla sua disabilità e, contestualmente, in caso di risposta negativa da parte dello stesso, far salvo l’operato del datore di lavoro che proceda al licenziamento. Tutto ciò premesso, se anche il datore di lavoro avesse consapevolezza della disabilità del lavoratore, e volesse di seguito procedere con una valutazione specifica del periodo di comporto in maniera da non cadere nella discriminazione indiretta, non ha, ad oggi, alcuna indicazione utile in merito, salvo pochi sterminati casi. Un esempio è contenuto nell’art. 47 del Ccnl Alimentari Federalimentari, in cui è stato stabilito, per i lavoratori con disabilità certificati ai sensi della L. n. 68/19994 un allungamento di 90 giorni rispetto al comporto ordinario, senza maturazione di alcuna indennità né anzianità; tale previsione costituisce un valido punto di partenza per arginare la problematica qui trattata, anche se, a ben vedere, l’assenza di retribuzione rispetto al comporto ordinario potrebbe rappresentare essa stessa una discriminazione indiretta verso il lavoratore con disabilità, seppure derivante da contrattazione collettiva. Vi sono poi diverse variabili da considerare; ad esempio, non tutti i settori sono coperti dall’intervento dell’Inps nell’erogazione dell’indennità di malattia e, laddove questa sia a totale carico del datore di lavoro, banalmente per quasi tutti gli impiegati dei vari settori, ad esclusione del commercio, il prolungamento del comporto e la relativa indennità sarebbero in toto sulle spalle dell’azienda. A tal proposito sarebbe opportuno prevedere che il periodo di comporto ulteriore fosse a totale carico della collettività e, anzi, a dirla tutta, sarebbe finalmente il caso di estendere la tutela c/Inps a tutti i lavoratori di tutti i settori, poiché le citate differenziazioni appaiono ormai decisamente anacronistiche. Ciò detto, considerate le lungaggini cui siamo abituati in riferimento ai rinnovi contrattuali, si fa strada la concreta necessità che un parametro di riferimento possa (o meglio, debba) essere individuato dal legislatore, salvo poi lasciar spazio ai Ccnl che volessero intervenire in merito. Attualmente, la maggior parte delle clausole collettive che prevedono una durata differente del periodo di comporto rispetto alla malattia “ordinaria”, riguardano pochissimi casi particolari quali malati oncologici, affetti da ictus, morbo di Cooley etc., ma in rarissimi casi, come quello citato, vi è un riferimento al lavoratore con disabilità in senso ampio. Partendo dall’assunto del Ccnl Alimentari Federalimentari, un’estensione di 90 giorni potrebbe essere ragionevole; tuttavia, non tutte le disabilità sono uguali, e non tutte agiscono allo stesso modo sulla morbilità. Sarà pertanto di fondamentale importanza individuare, per ogni singolo evento morboso, la particolare correlazione tra la specifica disabilità del lavoratore e il conseguente ritardo della guarigione dalla malattia, situazione che rende necessario il prolungamento del periodo di comporto rispetto al medesimo evento occorso ad un lavoratore privo di disabilità, in modo da garantire, in primis, la tutela al lavoratore affetto da disabilità dal comportamento discriminatorio e, nel contempo, tutelare anche il datore di lavoro da un utilizzo meramente strumentale della presenza di disabilità al solo fine di contestare l’applicazione del comporto ordinario e appellarsi poi al licenziamento discriminatorio.
In ragione di ciò dovrebbe pertanto essere determinato un comporto differenziato per singolo rapporto disabilità-malattia, ad esempio, inserendo un nuovo campo dedicato nella certificazione medica, da compilare con una codifica che, da un lato, fornisca al datore di lavoro uno strumento per computare correttamente l’assenza all’interno del comporto, dall’altro, garantisca al lavoratore il rispetto della propria privacy, ad esempio: – cod.1: disabilità dal 45% al 50%; – cod.2: disabilità dal 51% al 60% e così via, identificando per ogni codice una fascia di riferimento che corrisponda ad un certo periodo di comporto aggiuntivo rispetto all’ordinario. Laddove si verificasse una variazione della percentuale di disabilità, con conseguente evidente difficoltà nella valutazione della corretta fascia di riferimento da considerare, potrebbe essere utile stabilire un periodo minimo e massimo entro il quale il perdurare di una determinata percentuale sia dirimente per l’identificazione dell’estensione del comporto aggiuntivo. Certamente vi sono soluzioni più opportune e maggiormente efficaci rispetto a quella prospettata in questa analisi, ma è urgente l’esigenza di regolamentare questi aspetti in maniera che si possa contemperare la tutela del lavoratore con disabilità con la necessità del datore di lavoro di porre fine ad un rapporto di lavoro in cui è venuto meno il sinallagma contrattuale prestazione-retribuzione, con attenzione estrema alla Direttiva del consiglio Europeo del 27 novembre 2000 n. 2000/78/CE, relativa alla garanzia del principio della parità di trattamento dei lavoratori con disabilità. La necessità di un intervento “di sostanza” è, peraltro, stato affermato anche dalla C.G.U.E. nella sentenza del 4 luglio 2013, in cui dispone che è compito degli Stati membri “imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro”. È infine opportuno ricordare che il recente D.lgs. n. 62/2024, attuativo della legge delega n. 227/2021 che recepisce le disposizioni comunitarie, tra le modifiche che ha apportato alla L. n. 104/92 vi è l’introduzione del nuovo art.5-bis, che ufficializza l’obbligatorietà del c.d. “accomodamento ragionevole”: “Nei casi in cui l’applicazione delle disposizioni di legge non garantisca alle persone con disabilità il godimento e l’effettivo e tempestivo esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, l’accomodamento ragionevole, ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, individua le misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato”. Alla luce di tale definizione, a parere di chi scrive, l’individuazione di un periodo di comporto differenziato per il lavoratore con disabilità potrebbe rappresentare una misura pertinente, appropriata e adeguata nell’ottica di garantire un equo trattamento rispetto agli altri lavoratori, e l’eventualità che il prolungamento del comporto ordinario sia a carico della collettività è un aspetto che non comporta un onere sproporzionato o eccessivo sul datore di lavoro, a patto che non restino a suo carico la maturazione dei ratei di mensilità supplementari, ferie, Tfr, etc. Ben si potrebbe, dunque, prevedere che il comporto ulteriore previsto per il lavoratore con disabilità sia interamente a carico Inps, senza integrazione da parte dell’azienda, magari stabilendo una percentuale di indennità di malattia superiore rispetto a quella “standard”5 , in modo da garantire al lavoratore un adeguato sostentamento e, di conseguenza, dilatare anche la durata massima dell’intervento Inps, ora fissata in 180 giornate per anno solare. La tutela del lavoratore con disabilità è sacrosanta e deve essere perseguita con ogni mezzo, a patto di non ledere però la libertà imprenditoriale del datore di lavoro, oggi gravemente limitata in assenza di disposizioni certe in merito.
1. Sentenze n. 35747/2023, n. 11731/2024 e n. 14316/2024.
2. Cass., n. 6575/2016.
3. Cass., n. 6497 del 2021.
4. Soggetti in età lavorativa affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, portatori di handicap intellettivo che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, invalidi del lavoro con invalidità superiore al 33%, non vedenti, sordomuti, invalidi di guerra e civili di guerra.
5. 66,666% dal 4° al 180° giorno