UNA PROPOSTA AL MESE – LE AGEVOLAZIONI UNDER…

Clarissa Muratori e Federica Sgambato, Consulenti del lavoro in Milano

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

Prevalentemente usato in ambito sportivo, il termine Under indica atleti al di sotto di una certa età.

Facile! Se superi quella soglia anagrafica non è possibile rientrare nella categoria degli Under. Bene! Ci sto! Chiaro, cristallino, anche perché è un dato oggettivo e soprattutto inoppugnabile: chi viola la regola è squalificato. Ebbene, se da un punto di vista sportivo la definizione evoca immagini di accoglienza, inclusione, opportunità per i giovani talenti e anche, perché no, divertimento e spensieratezza, in ambito lavoristico, purtroppo, il termine Under non rimanda alla stessa leggerezza di pensiero. Tralasciando i requisiti che deve rispettare l’azienda, che, seppure stringenti, rappresentano indubbiamente elementi necessari per la legittima applicazione della normativa in esame, concentriamoci sull’analisi di chi siano i lavoratori a cui si riferisce il Legislatore e quali requisisti debbano possedere per essere inclusi in tale beneficio.

Partiamo dalla base: come in ambito sportivo, si tratta di “giovani”. Ma chi sono questi giovani? E fino a che età si è considerati tali? Ad oggi, è la Legge 29 dicembre 2022, n. 197 a fissare i parametri: si è giovani sino a 35 anni; o meglio, fino a 35 anni e 364 giorni. Facile no?! Questo è un dato di fatto concreto, incontestabile e soprattutto semplice da verificare. Peccato che il Legislatore abbia legato le agevolazioni Under anche ad un ulteriore requisito la cui verifica non richiama esattamente immagini di spensieratezza come in ambito sportivo. Eppure, a guardar bene, il contesto sembra richiamare comunque un’attività sportiva, anche se in questo caso ben più rischiosa. Quando pensiamo all’Under 36, a noi viene in mente un funambolo, che accettato il rischio della forza di gravità e senza rete di protezione, decide – consapevolmente, sia chiaro – di camminare su di un filo estremamente sottile. Fuor di metafora, il funambolo ci ricorda tanto il datore di lavoro e la forza di gravità l’amministrazione pubblica. Sì, non c’è rete di protezione nella norma oggetto delle agevolazioni per l’occupazione giovanile stabile.

Come noto, per la corretta applicazione dell’agevolazione in esame, uno dei requisiti è che il candidato non abbia mai avuto, nel corso della propria vita, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La domanda sorge spontanea: perché?

Sarebbe stato così deleterio per il Paese prevedere un’agevolazione economica, magari di valore più contenuto, anche in caso di pregresse esperienze a tempo indeterminato? Eppure la norma così prescrive.

A rendere ancora meno agevole e “spensierata” la situazione ci ha pensato l’Inps. Se, da una parte, l’Istituto ha messo a disposizione delle aziende e dei loro intermediari una Utility con la quale è possibile verificare se il lavoratore in questione abbia o meno avuto nella sua storia lavorativa un contratto a tempo indeterminato, dall’altra, lo stesso Istituto dichiara senza mezzi termini che il risultato della sua Utility non ha valore certificativo, con la conseguenza che si rende necessaria una dichiarazione del lavoratore in cui questi certifichi il suo stato di servizio. Bene, ma non benissimo! Eh sì, perché neppure questa dichiarazione rappresenta un baluardo contro un eventuale recupero da agevolazioni indebite. Riassumendo, il datore di lavoro, che non ha mezzi formalmente riconosciuti come inconfutabili, acquisisce la dichiarazione del lavoratore, interroga l’Utility della pubblica amministrazione e, infine, applica l’agevolazione. Dopo due, tre o quattro anni riceve un avviso di accertamento da parte di Inps, lo stesso Istituto che dichiarava di non poter certificare il dato occupazionale del lavoratore. Sì, dopo due, tre, quattro anni l’Inps è in grado di accertare formalmente il possesso o meno dei requisiti del lavoratore oggetto di agevolazione e, proprio sulla base di tale accertamento, di elaborare un avviso che prevede, oltre al recupero dei contributi, e fin qui nulla da dire, anche l’applicazione delle relative sanzioni. Qual è la logica dietro tutto questo? Com’è possibile che dopo diversi anni diventi possibile accertare un dato che in origine non lo era? Perché non prevedere un sistema in cui l’Inps accerti preventivamente il possesso o meno dei requisiti per la corretta applicazione dell’agevolazione? Sembra di essere all’ufficio complicazioni affari semplici.

D’altra parte l’Istituto non è nuovo rispetto al tema delle agevolazioni preventive. Per citarne una recente, la Legge 30 dicembre 2021, n. 234 aveva previsto per l’anno 2022, uno sgravio contributivo pari al 50 per cento dei contributi a proprio carico per tutte le lavoratrici madri che rientrassero in servizio dopo la fruizione del congedo di maternità. In quella circostanza l’Inps aveva messo a disposizione un canale specifico e preventivo per l’autorizzazione allo sgravio e, tramite cassetto bidirezionale, i datori di lavoro potevano interrogare l’Istituto per ottenere una conferma circa la possibilità o meno di accedere al beneficio. Supponendo che per l’agevolazione Under 36 una verifica preventiva sia impraticabile, fermo restando che ci piacerebbe capirne il motivo, per quale assurda ragione attendere fino a due, tre o quattro anni prima di emettere un avviso di accertamento?

Per quanto sia innegabile l’utilità dello strumento messo a disposizione dall’Inps, di cui nessuno mette in discussione le potenzialità, il problema sta nel fatto che i vantaggi dell’Utility vengono vanificati dalla lentezza nelle verifiche sulla spettanza o meno del beneficio.

Lasciar trascorrere un lasso di tempo eccessivamente ampio determina inevitabilmente un aumento esponenziale dei recuperi e delle relative sanzioni che aggravano una situazione già di per sé estremamente onerosa. È davvero impossibile concludere gli accertamenti in un periodo di tempo che non superi l’anno? E badate bene, chiediamo un anno, 12 lunghi mesi, il quadruplo del tempo che invece mette a disposizione l’Inps per sanare gli errori. In caso di dichiarazione mendace del lavoratore che abbia indotto ad applicare un’agevolazione non spettante, c’è chi suggerisce di far pagare al lavoratore le relative sanzioni. Ma siamo davvero certi che dirottare ad altri la responsabilità sulla verifica di dati posseduti ab origine dalla pubblica amministrazione sia la scelta più corretta?

Per non parlare poi del fatto che, anche volendo seguire questa strada, comprensibile da un punto di vista pragmatico, dobbiamo comunque fare i conti col fatto che il lavoratore in occasione dell’accertamento potrebbe essere già cessato da tempo, e a quel punto che fare? Certo non è la prima norma con una struttura applicativa “discutibile” dal punto di vista del soggetto che, basando la sua gestione amministrativa su dichiarazione di altro soggetto, deve sostenere il rischio delle sanzioni. Si pensi alla Legge 8 agosto 1995, n.335, art. 2, c. 18 in tema di applicazione del massimale contributivo che pone le aziende a rischio di sanzioni per errate dichiarazioni del lavoratore. In questo caso, per , almeno c’è una via d’uscita: richiedendo al lavoratore copia dell’estratto conto contributivo è possibile risalire alla data di prima anzianità contributiva con ragionevole certezza, potendo a quel punto determinare se applicare o meno il massimale.

Lo stesso estratto conto contributivo, tuttavia, non dà modo alle aziende di verificare la tipologia del contratto di lavoro, rendendo il datore di lavoro un soggetto che si assume un rischio piuttosto elevato in termini di costi e sanzioni senza avere mezzi concreti per ridurre al minimo le conseguenze di una scelta che dovrebbe essere premiata, supportata e sempre più incentivata: quella di assumere un giovane e per giunta a tempo indeterminato.

Al di là di tante parole, facciamo una riflessione pratica: l’Inps ci dice che è in grado di individuare solo i dati dal 1998 in avanti, e tanto basta visto che nel 1998 quelli che oggi sono considerati giovani avevano solo 11 anni. Ma allora perché non certificare in anticipo e formalmente lo stato occupazionale del lavoratore? O, meglio ancora, perché non associare al codice fiscale del lavoratore un blocco in fase di controllo Uniemens al fine di permettere alle aziende di non accedere a risorse pubbliche indebite, evitando così successivi recuperi estremamente gravosi?

L’aspetto paradossale di tutto ci è che se c’è un Ente in grado di fare tutto questo è proprio l’Inps! Nessun altro Istituto possiede così tali e tante informazioni sui suoi assicurati; perci viene ancora una volta da chiedersi: perché mai non agire in anticipo? Infine, una riflessione molto generica, ma altrettanto onesta.

L’amministrazione pubblica ha certamente tra le sue funzioni quella di operare quale organo di controllo della finanza pubblica e di irrogare le dovute sanzioni, ma ha anche una funzione di carattere sociale, ovverosia quella di supportare cittadini, aziende e soggetti che ad essa si rivolgono, assistendoli nei corretti adempimenti che le diverse norme impongono. Se è vero che ignorantia legis non excusat, si potrebbe quanto meno ridurre d’ufficio le sanzioni alla misura degli interessi legali. D’altra parte, già l’articolo 116, comma 15, lettera a) della Legge n. 388/2000 contiene un’analoga previsione per i casi di mancato o ritardato versamento dei contributi dovuti, derivante da oggettive incertezze amministrative e/o diversi orientamenti giurisprudenziali.

Questa stessa soluzione, sempreché si dimostri la buona fede del datore di lavoro e vi sia un’autocertificazione del lavoratore, si potrebbe estendere anche alle ipotesi di recupero dei contributi omessi per errata applicazione del massimale contributivo di cui alla sopracitata Legge n. 335/1995.

Semplificare le procedure amministrative e migliorare l’accesso ai dati non avrebbe altro effetto che quello di portare un vantaggio all’intera collettività; quindi, perché non procedere in tal senso?


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