Una proposta al mese – L’ACCONTO della discordia

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

Nelle ultime settimane anche l’imposta sulla rivalutazione del trattamento di fine rapporto (TFR) ha avuto il suo momento di gloria (se di gloria si può parlare). A 23 anni dalla sua introduzione, la disposizione di cui all’art.11, c.3 del D.lgs.n. 47/2000, che ha modificato le modalità di tassazione del TFR con decorrenza 1° gennaio 2001, ha fatto molto parlare di sé. Fino al 31 dicembre 2000 l’importo della rivalutazione annuale del TFR maturato al 31.12 dell’anno precedente veniva tassato al momento dell’erogazione (sia a saldo che in caso di anticipazioni), rientrando nell’imponibile complessivo assoggettato a prelievo fiscale e scontando la medesima aliquota media relativa alla tassazione separata. Dal 2001, invece, il legislatore ha deciso di separare il TFR puro da quella che è stata spesso definita “la quota attribuibile ai rendimenti finanziari” ovvero, appunto, la rivalutazione monetaria. Da quel momento la stessa ha avuto vita propria, ed è stata assoggettata ad una specifica aliquota a titolo di imposta sostitutiva, dapprima pari all’11%, per poi arrivare, dal 1° gennaio 2015, al 17% (c. 625, art.1, L. n. 190/2014). Ma calcolare tale imposta una volta sola ed in maniera definitiva era troppo facile, cosicché il legislatore ha da subito introdotto l’obbligo di versamento dell’acconto della rivalutazione maturata nell’anno precedente al 16 dicembre di ogni anno, e del saldo calcolato sulla rivalutazione effettivamente maturata al 31 dicembre dell’anno in corso al 16 febbraio dell’anno successivo. L’acconto in questione però, non è pari al 20 o 30% del dovuto, come nascerebbe spontaneo pensare, e nemmeno al 50%, facendo uno sforzo ulteriore; no, nel caso specifico “l’acconto”, che per definizione indica una parte, ingenuamente forse ritenuta dai più una piccola parte dell’importo complessivamente dovuto, è stabilito nel 90% del totale. A ben vedere questa strana concezione dell’acconto è abbastanza diffusa nel nostro paese, anche l’acconto IVA è pari generalmente al 100% del dovuto, così come l’acconto delle imposte; sarebbe pertanto più consono e maggiormente aderente alla realtà definirlo “pagamento anticipato”. Precisamente, il comma 4 del citato art.11 del D.lgs. n. 47/2000 recita: “è dovuto l’acconto dell’imposta sostitutiva commisurato al 90 per cento delle rivalutazioni maturate nell’anno precedente. (…..) L’acconto può essere commisurato al 90 per cento delle rivalutazioni che maturano nell’anno per il quale l’acconto stesso è dovuto”. Il secondo periodo citato consente quindi di determinare l’importo dell’acconto, a libera scelta del contribuente, calcolando il 90% sulle rivalutazioni maturande sull’anno in corso al momento in cui si sta procedendo con la determinazione dell’importo (c.d. metodo previsionale), in luogo del calcolo sulle rivalutazioni maturate nell’anno precedente (c.d. metodo storico). In altre parole, secondo il testo normativo, al 16 dicembre l’azienda sceglie se calcolare il 90% a titolo di acconto sulla rivalutazione effettiva dell’anno precedente o sulla rivalutazione presunta per l’anno in corso, salvo poi naturalmente conguagliare l’importo effettivamente dovuto al 16 febbraio dell’anno successivo sulla rivalutazione effettivamente maturata nell’anno di riferimento. Il metodo previsionale è certamente più equo, in particolare laddove vi siano cessazioni di rapporti di lavoro in corso d’anno, per i quali al 31.12 non vi sarà rivalutazione e, di conseguenza, imposta sostitutiva da versare; in tal modo le aziende evitano di anticipare importi non dovuti in sede di acconto. Sulla chiarezza della norma ha però gettato un’ombra la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 50/E del 12 giugno 2002 che afferma: “Al fine della determinazione della percentuale di rivalutazione si deve utilizzare l’incremento dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati rilevato nel mese di dicembre dell’anno precedente”. Tale assunto non ha alcun riscontro nel testo della norma di riferimento. Quando il legislatore afferma che l’acconto può essere commisurato al 90 per cento delle rivalutazioni che maturano nell’anno per il quale l’acconto stesso è dovuto, logica vuole che, poiché alla data di scadenza del versamento dell’acconto (16 dicembre) l’indice di dicembre non è mai noto, che il riferimento possa essere solo un indice presunto o, tutt’al più, l’indice noto alla data di pagamento, ergo, quello relativo al mese di novembre. Tuttavia, nonostante la considerazione di cui sopra, l’imposta sulla rivalutazione del TFR non ha mai suscitato grande clamore, visti gli importi generalmente non eclatanti e l’andamento più o meno stabile degli indici di riferimento. Fino al dicembre dello scorso anno, quando l’indice di rivalutazione del TFR ha raggiunto il massimo storico del 9,974576% a causa dell’abnorme aumento del tasso di inflazione, comportando un ingente esborso per i datori di lavoro, a cui decisamente non si era abituati. Fortunatamente, a gennaio 2023 l’indice è sceso clamorosamente, fino ad arrivare, nel mese di novembre 2023, al 1,692259%. Al momento di effettuare il calcolo dell’acconto di imposta sostitutiva per il 2023, se si fosse seguito quanto comunicato dall’Agenzia delle Entrate nella citata circolare del 2002, si sarebbe dovuto applicare quindi il tasso rilevato nell’anno precedente, ovvero nel 2022, cioè il 9,974576% a fronte del 1,692259% rilevato a novembre 2023. In questo modo i datori di lavoro avrebbero effettuato versamenti spropositati, in eccesso rispetto a quanto effettivamente dovuto, intaccando pesantemente ed inutilmente la liquidità aziendale, maturando un credito da recuperare successivamente in sede di calcolo del saldo dovuto. Poiché, appunto, la norma non si esprime su quale tasso debba essere utilizzato, considerata la delicata situazione, il nostro Cno ha formalizzato le descritte criticità all’Agenzia delle Entrate che, nella risoluzione n. 68/2023, ha confermato la possibilità di utilizzare il metodo di calcolo “presuntivo”, “sulla base del calcolo della rivalutazione che presumibilmente sarà accantonata al fondo TFR nel 2023”, ma con un’amara sorpresa: “qualora il calcolo dell’acconto si riveli insufficiente rispetto all’imposta dovuta sulla rivalutazione del fondo TFR sulla base dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai e impiegati del mese di dicembre 2023, l’insufficiente versamento sarà soggetto alla sanzione di cui all’articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, ferma la possibilità di regolarizzare spontaneamente la violazione attraverso l’istituto del ravvedimento operoso ai sensi dell’articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472”. Pertanto, da un lato è stato consentito di non utilizzare forzatamente l’indice di rivalutazione dell’anno precedente ma, dall’altro, se quanto versato come acconto sulla base di un indice sconosciuto (presunto) risulterà poi insufficiente rispetto all’indice effettivo, saranno dovute le sanzioni. Quest’ultima previsione risulta assolutamente ingiusta e priva di senso. La parola “presunto” nella nostra lingua significa “che si presume, si ritiene cioè dai più, o almeno da alcuni (sulla base di congetture, di indizî più o meno validi, o anche di sole apparenze)” 1 ; quale equità vi è allora nel sanzionare un insufficiente versamento basato su un valore che, proprio perché presunto, non può, evidentemente, essere certo? Tanto più che il versamento del 16/12 è definito “acconto”, in quanto, solo due mesi dopo (al 16 febbraio dell’anno successivo), sarà integrato mediante pagamento del “saldo”, sulla base del valore consolidato! È pertanto davvero difficile trovare una ratio in quanto stabilito. La problematica può essere risolvibile stabilendo una volta per tutte una modalità di calcolo certa, ad esempio applicando il coefficiente noto ad una determinata data, magari al 30 novembre, o determinandolo quale valore medio rispetto ai coefficienti degli ultimi 12 mesi. Ancora più immediato sarebbe eliminare l’acconto e versare l’intero importo a febbraio in un’unica soluzione, cancellando possibili errori di calcolo ed inutili compensazioni debiti/crediti.

1. Fonte: Treccani vocabolario on line.


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