Qualche pagina prima avrete letto (e se non l’avete fatto, leggetelo quanto prima) il bell’articolo di Alberto Borella sulle circolari INL che chiariscono alcuni passaggi sulla recente norma che sancisce il divieto di pagamento in contanti delle retribuzioni.
In particolare, non una ma ben due circolari affrontano (senza risolverlo completamente, ma d’altronde pare che la sistematicità manchi non solo al legislatore in questo Paese …) il problema su cosa debba essere considerato “retribuzione” ai sensi dell’art. 1, co. 910 – 913, della Legge n. 205/2017.
A suo tempo (si veda “L’ultima follia del prestilegislatore”, in Sintesi, aprile 2017) avevamo criticato una norma che per come era stata ideata avrebbe avuto degli effetti paralizzanti (pur in una sostanziale inutilità) e che, trasposta nella Legge di Bilancio 2018 (anch’esso brutto segno di antisistematicità, quando le nostre leggi finanziarie diventano uno spudorato zibaldone di desiderata senza una logica unitaria) aveva vivaddio perso almeno i passaggi più scabrosi.
Ma la querelle se considerare o meno i rimborsi spese (e le somme analoghe) è di vecchia data e si era scatenata già nel 2008 con la riforma delle scritture del personale passata alla storia come Libro Unico del Lavoro (art. 39 D.l. n. 112/2008).
Lì il legislatore aveva risolto la questione in modo abbastanza puntuale, stabilendo (co. 2 dell’art. 39) espressamente che nel Libro Unico dovessero essere annotate “tutte le dazioni in danaro o in natura … comprese le somme a titolo di rimborso spese, le trattenute a qualsiasi titolo effettuate”. Cosa molto chiara, sennonchè al comma 7 del medesimo articolo, in chiave di un’intelligente indirizzo punitivo per le violazioni sostanziali e non formali, si stabiliva la sanzione per l’omessa e infedele registrazione che determinasse “differenti trattamenti retributivi, previdenziali o fiscali”.
Con ciò, l’attento (o, più probabilmente, il malizioso?) commentatore riproponeva la questione in diversa salsa: la legge prevedeva sì l’annotazione delle somme a titolo di rimborso spese, ma qualora le stesse fossero state esenti (come di regola è) o lo fossero state altre somme simili (ad esempio, le indennità forfettarie di trasferta) non essendo “retribuzione” in senso stretto la loro mancata annotazione non avrebbe dato luogo a sanzione. E la risposta che, sia per parte legale che per parte contrattuale, determinati rimborsi costituivano un diritto in senso lato per il lavoratore cosicché avrebbero potuto trovare spazio in un concetto ampio di “retribuzione” incontrava la tenace resistenza di chi è abilissimo a spaccare il capello in quattro per interpretare la lettera della legge pro domo sua (purtroppo non di rado per difendere interessi non certo cristallini…).
Ad avviso di chi scrive, si tradiva così l’intento del legislatore che era quello di scambiare semplificazione (e quella del Libro Unico lo fu davvero, forse la più significativa semplificazione sotto l’aspetto documentale amministrativo del lavoro) con trasparenza, ritornando ad avere scuse per non annotare importi che talvolta nascondono operazioni borderline e che, proprio per questo e in ogni caso, è meglio che siano messe in chiaro e sottoposte alla possibilità di controllo dei verificatori.
Del resto, non si comprende la distinzione operata ora dall’INL nelle recenti circolari: ad avviso di chi scrive, non è sempre vero che le indennità forfettarie di trasferta hanno una “natura mista”; ciò non si riscontra – quantomeno per la parte esente fiscalmente – né dal punto di vista teleologico, ne da quello giuridico, e ciò è molto spesso chiarito da molta contrattazione collettiva nei passaggi in cui ne stabilisce importi e modalità di erogazione. La “giustificazione” che INL rende per considerare l’indennità di trasferta retribuzione è pertanto posticcia, una pezza peggio del buco e potrebbe essere letta in maniera del tutto opposta: qualora la trasferta avesse chiara natura esclusivamente risarcitoria, chi legge la circolare (che non è legge, ne fornisce una mera interpretazione) potrebbe sentirsi per la medesima logica esentato dal considerarla retribuzione.
Oltretutto, come chiarito dal collega Borella, questa ambiguità lascia preoccupanti spazi di manovra a chi volesse ancora frodare sul netto delle retribuzioni corrisposte al lavoratore (e questo sia detto indipendentemente dal fatto che chi scrive continua a nutrire comunque forti dubbi sull’efficacia della norma).
In ogni caso, potrebbe essere il momento di tagliare la testa al toro, come si usa dire, e di collegare le due norme con un unico intento, di chiarezza e rigore sistematico.
Ecco così che l’incipit del co. 7 dell’art. 39 del D.l. n. 112/2008 potrebbe diventare (in grassetto la modifica):
7. Salvo i casi di errore meramente materiale, l’omessa o infedele registrazione dei dati di cui ai commi 1 e 2 che determina differenti trattamenti retributivi o economici in genere verso il percettore, nonché imponibili previdenziali o fiscali è punita con la sanzione pecuniaria amministrativa (… etc)
Allo stesso modo, sul medesimo argomento, i commi della finanziaria 2018 potrebbero essere così modificati, addirittura integrandoli come commi aggiuntivi del predetto art. 39 (ed operando, già che ci siamo, un restyling in altri passaggi oscuri della norma):
911. I datori di lavoro o committenti non possono corrispondere la retribuzione per mezzo di denaro contante direttamente al lavoratore, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato. Ai fini del comma presente e del precedente comma 910, per “retribuzione” si intende ogni elemento economico di cui all’art. 39 commi 1 e 2 del D.l. n. 112/2008 ed in ogni caso utile a determinare la spettanza netta al lavoratore.
Tolto ogni dubbio, intercettata ogni possibile furbizia.