E’ senza dubbio uno degli argomenti che negli anni il nostro ordinamento ha maggiormente modificato, integrato, trasformato, ritoccato, quasi sempre bistrattato e, a volte, poche per la verità, migliorato, ma comunque reso sempre di difficilissima, complessa e rischiosa applicazione.
Di fatto, quasi ogni ministro competente ha sentito il bisogno irrefrenabile di apporre il suo “tocco personale”, per quanto, spesso ininfluente ed in alcuni casi persino dannoso. Le 34 modifiche normative intervenute nell’arco di 14 anni1 sono chiara espressione di un grande – e disturbato – amore per la materia. Eppure, a ben vedere, questa forma contrattuale, i cui paletti applicativi sempre più rigidi sono diventati politicamente il baluardo della lotta alla precarietà, con piccoli, ma incisivi ritocchi, potrebbe divenire un elemento fondamentale per gestire la flessibilità del personale, con notevole vantaggio per le aziende e, senza per questo, cagionare alcun danno al lavoratore.
Partiamo dalla Direttiva 1999/70/CE (consiglio del 28 giugno 1999), relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato che, al comma 1 della clausola n. 5 – Misure di prevenzione degli abusi – recita:
“Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma
delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
Secondo la allora CE, pertanto, per evitare l’abuso dei contratti a termine, sarebbe stato sufficiente adottare UNA-O- PIÙ-MISURE tra quelle proposte. Una o più… noi italiani, super efficienti, non solo ne abbiamo recepito due – le causali, di cui alla lettera a), e la durata massima, di cui alla lettera b) -, ma ne abbiamo addirittura introdotte delle altre, ovvero un limite al numero massimo di contratti stipulabili per azienda e un limite ulteriore al numero massimo di proroghe. E non solo: abbiamo anche stabilito che detti limiti debbano essere riferiti all’intera vita dei medesimi soggetti datore di lavoro – lavoratore. Fermo restando che gli abusi vanno sempre limitati e combattuti, tutta questa regolamentazione, neanche a dirlo, rende quantomeno complesso, per usare un eufemismo, l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, e anche quando, per una serie di fortunate congiunture astrali si riesca ad utilizzarla, meglio fare i dovuti scongiuri in quanto cadere in fallo è di una facilità estrema. Per iniziare, la prima idea che ci sovviene, è di limitare il periodo a cui riferire le verifiche del rispetto di tutti i limiti ad un tempo “congruo”, ed evidentemente congruo non può essere illimitato, come lo è attualmente. A tal proposito è intervenuta recentemente anche la Corte d’Appello di Milano ritenendo un lasso di tempo pari a 7 anni un ragionevole lasso di tempo superato il quale i rapporti a termine tra i medesimi soggetti “decadono” e non devono più essere computati nella durata massima dei 24 mesi (sentenza n. 1375/2021). Questo servirebbe ad evitare sanzioni per chi, in assoluta buona fede, dovesse malauguratamente escludere dal computo della durata massima uno o più rapporti di lavoro vetusti, magari risalenti – e non sarebbe infrequente – in tempi in cui non esistevano le comunicazioni telematiche, o i cui documenti cartacei sono stati eliminati poiché trascorsi oltre 5 anni2.
Altro paletto eccessivamente limitante è il numero massimo di 4 proroghe, soprattutto per i lavoratori stagionali, per i quali non è mai stato affermato in modo incontrovertibile che, vista la natura dell’attività svolta, non rientrino in tale casistica. D’altronde, se già abbiamo limitato la durata massima del contratto, viene spontaneo chiedersi per quale motivo debba esserci anche un numero massimo di proroghe, il primo potrebbe tranquillamente escludere il secondo. Relativamente alle proroghe, vi è anche poca chiarezza per quanto riguarda i contratti a termine stipulati per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ed in particolare in caso di apposizione del ter
mine senza una data ben definita, ma condizionata al rientro del lavoratore sostituito. In tali casi, se l’assenza del lavoratore si protrae, siamo dinanzi ad una proroga? E se il lavoratore assente protrae la sua assenza per oltre 4 volte, e quindi, qualora considerassimo lo spostamento del termine condizionato come una proroga, arrivati alla quarta saremmo obbligati a cessare il rapporto o, in alternativa, a trasformarlo a tempo indeterminato pur non avendone alcuna intenzione, poiché la stipula è avvenuta per una necessità contingente che ha un fine ben definito? In realtà il caso specifico potrebbe essere gestito con la “modifica del termine inizialmente fissato” come una delle alternative presenti nel modello Unilav, d’altronde, se non è una modifica del termine (necessaria) questa, non si comprende quale potrebbe esserlo. In questo modo ci si libererebbe dal problema proroga, ma nessuno ha mai scritto nero su bianco tutto ciò.
In alternativa, liberalizzare la durata del contratto per sostituzione, o comunque prevedere un termine più ampio di 36 o 48 mesi, sarebbe senz’altro un’azione di buon senso. Relativamente alla sostituzione del lavoratore assente, un’altra problematica frequente si verifica allorquando il lavoratore sostituito rientra a lavoro, ma nel frattempo l’azienda ha maturato la necessità di prorogare il rapporto del lavoratore assunto in sostituzione. Ebbene, il Ministero del lavoro nella circolare n. 17/2018 ha affermato che “la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza. Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.”, precludendo secondo tale assunto la possibilità di procedere alla proroga nel caso prospettato e obbligando le parti contraenti a stipulare un rinnovo, quindi con due obblighi contestuali: l’apposizione della causale al rinnovo e il rispetto dello stop-and-go, pena la trasformazione del secondo contratto a tempo indeterminato.
Si potrebbe quindi eliminare lo stop-and-go, almeno in caso di rinnovo contrattuale conseguente ad un precedente contratto a termine per sostituzione.
E, diciamolo, a fronte di tutte le limitazioni esistenti, ben si potrebbe escludere, almeno entro i 12 mesi, l’obbligo di causale agli intervenuti rinnovi, che, come nel caso analizzato, di fatto sono delle proroghe per cui è variata la motivazione.
Curiosamente, tra l’altro, la differenziazione tra rinnovo e proroga è squisitamente made in Italy, l’Unione Europea nella sua direttiva menziona infatti solo i rinnovi. Certo, tutto potrebbe essere risolto con l’identificazione della mitica causale, se non fosse che, come già approfondito in questa stessa Rivista3, le causali identificate dal Legislatore sono:
-esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; quindi, per inciso, attività diverse da quella abitualmente svolta. L’azienda dovrebbe quindi diversificare per poter utilizzare tale causale;
-esigenze di sostituzione di altri lavoratori, con le criticità su esposte;
-esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. Non si comprende bene il senso della frase non programmabili. Giusto per fare un esempio, la vincita di una gara d’appalto è da considerarsi programmabile perché partecipando alla gara in qualche
modo ho coscienza della probabilità dell’incremento dell’attività, e quindi non potrei utilizzare l’appalto come causale per il contratto a termine o, al contrario, è da considerarsi non programmabile perché non vi è certezza di vincerla?
Sarebbe utile, anche in tal senso, chiarire meglio il concetto, o anche stabilire un limite temporale di riferimento entro il quale l’incremento di attività si possa considerare o meno programmabile.
Qualche contratto collettivo ha introdotto alcune causali, che spesso si sono però rivelate inadeguate in quanto, come da giurisprudenza consolidata, esse devono indicare in modo specifico “le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa” (Cassazione n. 22496/2019). In buona sostanza la causale è idonea se identifica in maniera chiara e verificabile la necessità che ha reso legittima l’applicazione del termine contrattuale.
Nell’attesa che permane dal 2018, anno del decreto “Dignità”, di parti sociali impavide che individuino tali ragioni giustificatrici, perché non interviene il Legislatore onde evitare impugnazioni fin troppo facili? Si parla tanto della necessità di deflazionare il contenzioso, non a caso è in atto proprio in questi mesi la riforma del processo civile, sarebbe pertanto oltremodo propizio il momento per rendere chiaro a tutti quando il termine contrattuale sia legittimamente applicabile.
Inoltre, sarebbe opportuno prendere coscienza che, nonostante il termine, vi potrebbe essere, ahimè, la necessità di interrompere il contratto prima della scadenza da ambo le parti, e non solo per giusta causa. Perché non prevedere tale possibilità allora, magari come già da più parti proposto, stabilendo delle penali a carico del soggetto che recede, proporzionandole alla durata del contratto, o al tempo che residua dalla cessazione alla scadenza inizialmente stabilita.
Anche sul periodo di prova il Legislatore nicchia da sempre, nemmeno nello schema di decreto approvato in Consiglio dei Ministri che modifica il D.lgs. n. 152/97 è riuscito a dare una definizione certa della durata della prova nei contratti a tempo determinato. Eppure, il modo ci sarebbe, il più immediato potrebbe essere quello di rapportare il periodo di prova previsto per il contratto a tempo indeterminato alla durata del contratto a termine, identificando la durata minima e massima, ma, in effetti, così sarebbe troppo semplice… Infine, la previsione che consente di “ripartire da zero” ai fini del raggiungimento della durata massima di 24 mesi in caso di stipula di un contratto a termine con lo stesso lavoratore, ma per mansioni di livello e categoria legale differenti, non è comunque da considerarsi un rinnovo? Sarà quindi soggetto a causale pur nell’ambito dei primi 12 mesi e assoggettato alla contribuzione addizionale, che tra l’altro cresce esponenzialmente ad ogni rinnovo? Anche in riferimento a ciò, senz’altro sarebbe cosa buona e giusta chiarire la problematica, oltre che fissare una misura massima del contributo addizionale. Nell’attuale momento storico, con la condizione economica in cui versano le aziende, probabilmente sarebbe utile agevolare l’occupazione flessibile, anziché costringerle forzosamente ad utilizzare il solo contratto a tempo indeterminato.
Non dobbiamo mai dimenticare che la flessibilità iniziale spesso rappresenta il biglietto d’ingresso per la stabilità, ma a condizione che vi siano regole certe per tutti. E allora, a conclusione alla nostra riflessione, da sognatori innamorati del diritto in quanto fondamento di certezze per chi lo deve interpretare ed applicare, la semplificazione estrema, perfettamente in linea con quanto impartito dall’Unione Europea, è indicare UNA sola delle misure proposte, ovvero, ad esempio, la durata massima consentita, abolendo tutti gli altri farraginosi limiti, in attuazione anche del comma 4 della clausola 8 – Disposizioni di attuazione – della già citata direttiva CE, in cui si afferma: “Il presente accordo non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere, al livello appropriato, ivi compreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordo in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate.”
Ma si sa, quando un concetto è troppo semplice, chissà come mai, diviene automaticamente impopolare.
1. Camera R., Contratto a tempo determinato: come scrivere la causale prevista dal CCNL, Qi, Ipsoa, 26 agosto 2021.
2. A tal proposito vedi Asnaghi A., Una proposta al mese: Il tempo determinato…con una memoria a tempo indeterminato?, Sintesi, ottobre 2019.
3. A tal proposito vedi A. Asnaghi, Sul tempo determinato (a partire dal Decreto Dignità), Sintesi, luglio 2018.