Prime valutazioni di G. Sigillò Massara sulla direttiva ue in tema di salario minimo legale
L’Autore esamina la recente Direttiva relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione Europea.
In particolare, dopo aver analizzato i contenuti, si propone di valutarne l’impatto sull’ordinamento italiano.
Da tempo si registra un retrivement del dibattito circa la necessità di una regolamentazione legale del salario minimo. Le ragioni del rinnovato interesse politico e sindacale per il tema vanno ascritte innanzitutto alla crescente diffusione di forme di lavoro “povero”, alle crisi finanziarie dello scorso decennio, all’aumento delle diseguaglianze sociali, alla diffusione di forme di occupazione precarie, per le quali deve registrarsi la difficoltà per la contrattazione collettiva di offrire una garanzia retributiva allineata alla sufficienza costituzionale. La crisi del modello della retribuzione sindacale sufficiente, costruito in oltre cinquant’anni di storia repubblicana, è riconducibile soprattutto alla frammentazione del quadro della rappresentanza sindacale, all’arretramento del tasso reale di copertura contrattual-collettiva della forza lavoro, oltreché all’endemico tasso di diffusione del lavoro irregolare che colpisce maggiormente le forme di lavoro discontinue. E tutto ciò non vale solo in riferimento ai sindacati minori e meno rappresentativi: la crisi ha finito con l’investire anche le organizzazioni appartenenti alla “triplice”1, che appaiono non attrezzate di fronte alla diffusione del lavoro digitale, freelance o su piattaforma e alla concorrenza sempre maggiore di forme più o meno esplicite di contrattazione pirata2.
Il tema è articolato e investe il delicato rapporto tra gli artt. 36 e 39, Cost., in particolare, in relazione ai profili di libertà di azione collettiva anche nella determinazione della misura minima della retribuzione.
Il timore, espresso principalmente dalle organizzazioni sindacali, è quello per cui la determinazione legale di una misura minima di salario finisca con l’appiattire l’attività di contrattazione salariale sul livello fissato dal legislatore o, in difetto, con il favorire una fuga dalla applicazione del contratto collettivo acquisitivo che diventerebbe eccessivamente oneroso. Sul piano sistematico, poi, ci si interroga circa la legittimità di un intervento di normazione primaria che fissi il livello della retribuzione sufficiente prescindendo dal settore di riferimento e, quindi, dal coinvolgimento delle parti sociali. Sicché, hanno riscontrato maggior consenso quelle proposte che prospettano un utilizzo sinergico della fonte legale e della fonte contrattuale. In questa prospettiva l’attenzione si dovrebbe spostare sulla selezione degli attori sindacali, che, nella permanente inattuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., suggerisce la necessità di una nuova legge sindacale capace di rendere credibili gli attori collettivi ed esigibile il dettato contrattuale3.
Restano, comunque, irrisolti i dubbi di opportunità avanzati da più parti4. In particolare, si sottolinea come le proposte di salario minimo legale che si sono ammassate negli ultimi cinque anni avrebbero un impatto assai ridotto soprattutto sui rapporti di lavoro esclusi dalla copertura dei contratti collettivi e maggiormente a rischio di povertà: tirocinanti, collaboratori autonomi, lavoratori occasionali, lavoratori in nero e freelance5. Si contesta, inoltre, che la determinazione legale di una retribuzione oraria minima, a dispetto degli slogan politici, non avrebbe alcun effetto sulla necessità di recupero del potere di acquisto delle retribuzioni e di adeguamento delle stesse ai livelli comunitari. La finalità del salario minimo non può certamente essere quella di innalzamento dei salari medi, bensì quella del contrasto al lavoro povero.
Tra queste deve senz’altro segnalarsi la delega legislativa contenuta nell’art. 1, comma 7, lett. g), Legge 10 dicembre 2014, n. 183, con cui si demandava al Governo l’emanazione di un decreto legislativo volto all’introduzione di un compenso minimo orario, valevole per i lavoratori subordinati e, ai fini del loro superamento, per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa. La determinazione della misura del salario minimo orario sarebbe dovuta passare per una consultazione con le parti sociali. Il modello declinato nella delega, in sostanza, mirava a realizzare un modello duale, nel quale i contratti collettivi avrebbero continuato a regolare in modo autonomo la materia salariale, ma, a chiusura del sistema, sarebbe stato previsto una sorta di “trattamento di garanzia” destinato ai settori privi di riferimenti contrattual-collettivi.
Sotto altro profilo, poi, la delega legislativa appariva lacunosa anche in ordine alle modalità di determinazione della misura legale della retribuzione oraria, completamente rimesse alla volontà dell’esecutivo.
Non stupisce, quindi, che la delega non abbia avuto alcuna traduzione nella realtà giuridica. Il tema è stato, poi, ripreso nel corso della corrente legislatura.
In particolare, si sono confrontate due ipotesi regolative: la prima presentata dall’on. Catalfo (DDL n. 658/2018), l’altra da parte dell’on. Nannicini (DDL n. 1132/2019)6.
Il primo, nelle intenzioni introduttive, rappresenta un intervento che non intende sostituire il ruolo della contrattazione collettiva, bensì affiancarla, interiorizzando il rimedio giurisprudenziale di cui al combinato disposto degli artt. 2099 c.c., e 36 Cost. La scelta, dunque, è quella di ribadire il ruolo della contrattazione collettiva nella determinazione della retribuzione costituzionalmente sufficiente mediante un rinvio mobile. Peraltro, in questa operazione si rinviene già un principio innovativo rispetto alla giurisprudenza7: se questa, infatti, ha sempre fatto riferimento ai minimi tabellari per la individuazione del salario sufficiente, il disegno di legge indica espressamente che la misura minima deve essere rinvenuta nel “trattamento economico complessivo”, che, in assenza di altre indicazioni legali, ben potrebbe coincidere con il “TEC” di cui al Patto per la fabbrica del 9 marzo 20188.
Il rinvio all’autonomia collettiva è completato da una previsione di chiusura che impone una sorta di floor alla misura minima del salario, fissato in 9 euro l’ora al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali, e che dovrebbe interessare solo i (limitati) casi in cui la determinazione sindacale si colloca sotto quella soglia9. Differentemente, per le retribuzioni determinate dal contratto collettivo, il DDL Catalfo introduce un metodo di adeguamento dei salari di natura totalmente automatica, per cui gli stessi sono legati alle variazioni annuali dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea (IPCA), in un disegno che riecheggia i meccanismi di “scala mobile” già conosciuti nel nostro passato ormai remoto. Il disegno di legge fa riferimento ai contratti sottoscritti dalle associazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative. Nel caso contrario, laddove, cioè, non vi sia alcun contratto collettivo direttamente applicabile, il disegno di legge, richiamandosi all’art. 2070, c.c., impone di rinvenire il minimo retributivo nel contratto collettivo relativo alla attività effettivamente esercitata dall’imprenditore, con conseguente compressione – almeno in relazione al profilo retributivo – della libertà di applicare un contratto collettivo previsto per differenti categorie di lavoratori, pur astrattamente ricompreso nell’ambito di operatività dell’art. 39, Cost. Al DDL Catalfo, come si è detto, nel corso della Legislatura corrente è stato contrapposto il DDL n.1132/2019 a firma dell’on. Nannicini. Anche questa proposta si colloca nell’alveo del modello complementare e non alternativo10, sostenendo il ruolo essenziale dell’autonomia collettiva.
La principale differenza sta nel fatto che il DDL Nannicini non stabilisce a priori una misura minima del salario ma rinvia tale determinazione a un meccanismo istituzionale che vede il coinvolgimento di una apposita commissione tecnica paritetica in seno al Cnel senza, dunque, alcun pericolo di contaminazione tra la fonte sindacale e quella amministrativa. Anche in questo caso la misura minima avrebbe una applicazione residuale ai soli settori non coperti dal contratto collettivo. L’altra fondamentale differenza, poi, riguarda la selezione del contratto deputato alla determinazione del minimo: il DDL Nannicini non contiene un riferimento espresso al TU della rappresentanza e, invece, demanda alla già menzionata commissione presso il CNEL l’individuazione dei criteri e dei parametri di misurazione della rappresentatività, oltreché degli ambiti della contrattazione nazionale.
Il dibattito italiano, ovviamente, non si è svolto nel “vuoto pneumatico”.
Anche l’Unione Europea si interrogava circa la possibilità di un intervento di coordinamento salariale: già il 17 luglio 2019, in occasione del suo insediamento, la Presidente della Commissione Europea aveva preannunciato l’intenzione di allestire un quadro generale finalizzato alla garanzia a favore dei lavoratori di un salario minimo11.
Alle intenzioni aveva, quindi, fatto seguito un vivace dibattito in ordine alla competenza comunitaria atteso che l’art. 153, par. 5, TFUE, esclude la possibilità per il diritto eurounitario di emanare direttive aventi a oggetto la misura dei compensi garantiti negli Stati membri12. La competenza sulla base della quale la Commissione ha inteso proporre la propria Direttiva è contenuta nell’art. 153, par. 1, lett. b), del TFUE, laddove si stabilisce che l’Unione sostiene e completa l’azione degli Stati membri nel settore delle condizioni di lavoro, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Sulla proposta della Commissione si è formato subito il consenso del Parlamento europeo che, il 25 novembre 2021 ha approvato il mandato concordato dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali per procedere a negoziare con il Consiglio l’adozione della direttiva sulla base della proposta della Commissione. Tra il 6 e il 7 giugno scorsi è stata raggiunta una intesa tra Consiglio e Parlamento sul testo della Direttiva, il 4 ottobre 2022 il Consiglio ha approvato in via definitiva la proposta già concordata con e approvata dal Parlamento lo scorso 14 settembre; il Testo è stato poi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Ue il 25 ottobre 2022 e manca ora il successivo adempimento nella legislazione statale.13
La Direttiva non include direttamente la fissazione della misura del salario minimo ma mira a stabilire un quadro di riferimento unitario, allo scopo certamente di contrastare fenomeni di dumping salariale tra gli Stati membri, ma anche e soprattutto di assicurare migliori condizioni di vita e di lavoro, anche attraverso salari minimi adeguati. La Commissione ha individuato due principali strumenti di attuazione degli obiettivi indicati: il primo rappresentato dalla promozione della contrattazione collettiva, che, laddove sufficientemente diffusa, è ritenuta idonea a produrre salari minimi più elevati e adeguati e ridurre le disuguaglianze.
L’altra modalità è invece riferita agli Stati che hanno già fissato per via legislativa minimi salariali, per i quali sussiste un timore di inadeguatezza dei livelli predeterminati: prevale, in questa prospettiva, la lettura della Direttiva come strumento per evitare la concorrenza sleale tra i Paesi comunitari. Si tratta, dunque, di una regolamentazione a “geometria variabile”14 in cui, tuttavia, è dato riscontrare alcuni elementi di comunanza, primo tra tutti il campo di applicazione. Infatti, la regolamentazione del salario minimo è destinata a incidere sulla situazione dei workers, intesi non solo come lavoratori dipendenti ma tutti coloro lavoratori che, a prescindere dal nomen iuris, garantiscono a favore di un altro soggetto alla cui direzione soggiacciono prestazioni in contropartita di una retribuzione, e quanto sono stabilmente integrati, per la durata del rapporto, nell’impresa nel cui interesse svolgono la propria attività.
Questa sembra anche l’accezione che è rinvenibile nello spirito della Direttiva che ne richiama l’applicabilità tra gli altri ai lavoratori domestici, a chiamata, ai lavoratori intermittenti, ai falsi lavoratori autonomi, ai lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti, secondo un modello che apprezza il reale atteggiarsi della fattispecie.
La Direttiva, con un approccio minimalista di soft law, mira a diffondere la contrattazione collettiva, nella consapevolezza che uno tra i principali fini della stessa è proprio quello della determinazione della misura del salario. Ne deriva una disciplina differenziata in ragione del tasso di diffusione (o di copertura) della forza lavoro da parte dei contratti collettivi: per tutti gli Stati membri, infatti, si prescrive l’adozione di strumenti promozionali della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale, nonché di procedure che favoriscano le negoziazioni in materia salariale tra i soggetti collettivi.
A ciò si aggiunge l’obbligo di introdurre misure di protezione contro le discriminazioni e le interferenze eventualmente attuate in ragione delle negoziazioni volte alla determinazione della misura delle retribuzioni. Tuttavia, due ulteriori questioni non sono state direttamente affrontate dalla Direttiva: la prima è relativa al fatto che, nei Paesi in cui la garanzia è rimessa unicamente alla contrattazione collettiva, alcuni lavoratori non riescono ad accedere al salario minimo sindacale, in quanto esclusi dalla copertura sindacale vuoi in ragione del principio di libertà sindacale, vuoi perché occupati irregolarmente, vuoi ancora in quanto impiegati con contratti di lavoro non subordinato.
L’altra osservazione attiene alla corretta selezione degli agenti negoziali poiché la contrattazione collettiva è capace di assicurare effettivamente salari adeguati solo quando è condotta da soggetti collettivi effettivamente e genuinamente rappresentativi degli interessi riferibili a un determinato gruppo di lavoratori. Di maggiori, ma pur sempre incerti, obblighi, invece, sono destinatari gli Stati membri nei quali il tasso di copertura da parte della contrattazione collettiva è inferiore al 80%. Per questi, in aggiunta alle già ricordate prescrizioni, si stabilisce l’obbligo di predisporre un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva in materia salariale e di definire un piano d’azione – da condividere con i partner comunitari e la Commissione e rivedere, almeno, ogni cinque anni – per promuovere la contrattazione collettiva, che ponga una chiara e verificabile timeline di interventi, finalizzati ad incrementare il tasso di copertura e diffusione della contrattazione collettiva. Anche in questo caso, dunque, le imposizioni agli Stati membri appaiono ispirate a un approccio più promozionale di buone pratiche che prescrizionale.
La circostanza per cui l’inadeguatezza dei salari minimi investe quegli Stati in cui la misura dei salari minimi è fissata ex lege ha fatto sì che proprio a questi fossero
destinate le misure più corpose e più puntuali (rectius prescrittive) della Direttiva.
In particolare, si chiede a questi Paesi di approntare meccanismi di determinazione e aggiornamento della misura delle retribuzioni minime basate su criteri stabili e chiari, coerenti con gli obiettivi di garanzia di condizioni di vita e lavoro dignitose, promozione della coesione sociale, della convergenza verso l’alto dei compensi e riduzione delle discriminazioni di genere.
La Commissione ha inteso anche indicare i criteri nazionali che devono essere considerati nella determinazione dei salari minimi (il potere d’acquisto dei salari minimi, il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione, il tasso di crescita dei salari lordi e l’andamento della produttività del lavoro) disponendo, in particolare, che il valore indicativo per la determinazione del salario minimo possa essere fissato nel 60% del salario mediano e nel 50% del salario medio.
Si tratta, invero, di una indicazione che, nel rispetto delle prerogative degli Stati membri, prende la forma di una “possibilità-parametro”. Infine, a sostegno dell’effettività della tutela retributiva minima, la Direttiva contiene alcune disposizioni in materia di rafforzamento dei controlli e delle ispezioni da parte delle pubbliche amministrazioni.
Tra queste va segnalata certamente la previsione della Direttiva che fa riferimento all’obbligo di conformazione ai salari minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva o ai salari minimi legali, ove esistenti, imposto agli operatori economici che intendono partecipare ad appalti pubblici.
Si diceva non innovativa per il panorama normativo italiano ma certamente utile in quanto risolve in modo chiaro e definitivo la questione della compatibilità della disposizione nazionale rispetto al diritto comunitario, messa in dubbio in riferimento alle note pronunce nei casi Rüffert (C-346/2006), Bundesdruckerei GmbH (causa C-549/2013) e RegioPost GmbH & Co. KG (C-115/2014)15. Maggiore impatto hanno, invece, le previsioni in tema di monitoraggio della copertura sindacale e della adeguatezza dei salari minimi eventualmente regolati.
A questo scopo, la Direttiva impone agli Stati membri di comunicare annualmente alla Commissione alcuni dati ritenuti essenziali e finalizzati all’accertamento dell’efficacie attuazione della regolamentazione europea. Tra questi, almeno per l’Italia, assume una specifica rilevanza la previsione che impone una raccolta di dati relativi ai lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva, da riferire in forma disaggregata per genere, età, condizioni di salute, dimensioni dell’impresa e settore. Probabilmente sul CNEL, invece, ricadrà l’improbo compito di assicurare le informazioni in merito al salario minimo contenute nei contratti collettivi siano rese pubbliche e comunicate con trasparenza.
Tra le disposizioni di enforcement, infine, vanno segnalate quelle che impongono agli Stati membri l’adozione di un sistema di protezione dei lavoratori che rivendicano il diritto al giusto salario e di un apparato sanzionatorio adeguato a garanzia dell’effettività delle tutele salariali previste.
L’impressione è che “la montagna abbia partorito un topolino”. L’approccio soft adottato dalla Commissione, in effetti, sembra lasciare così largo spazio alle determinazioni nazionali da risultare assai poco incisivo. Pesa in questo quadro la mancata definizione a livello comunitario della nozione di adeguatezza del salario minimo: la Direttiva e la Relazione di accompagnamento, infatti, fanno riferimento a tale adeguatezza solo in termini di comparazione rispetto alla situazione dei lavoratori nazionali. Si tratta, dunque, di un concetto evanescente e per lo più rimesso alla buona volontà degli Stati membri. Quella della Commissione, dunque, appare una iniziativa a valenza più politica che giuridica, la cui portata potrà essere valutata solo a valle dell’attuazione che intenderanno darne i Paesi coinvolti. Un’ultima notazione, infine, riguarda la inapplicabilità della Direttiva nei confronti dei lavoratori autonomi e il problema del lavoro irregolare. Si tratta di due enormi limiti a una qualunque regolamentazione legale dei minimi salariali.
Occorrerebbe dunque escogitare, anche per questi lavoratori, strumenti di garanzia dell’adeguatezza reddituale anche per il tramite di un intervento pubblico, stante la preclusione di fatto della strada dell’imposizione di minimi legali di tariffa.
Infine, come è stato osservato, la garanzia di un salario adeguato passa inevitabilmente per il contrasto al lavoro irregolare, visto che è proprio la non applicazione o l’applicazione non corretta dei contratti collettivi a determinare l’ampia diffusione di lavori a bassa paga oraria16.
* Sintesi dell’articolo pubblicato in MGl, 2022, n. 3, pp. 603-620 dal titolo Prime osservazioni sulla direttiva europea sul salario minimo, Editore Giappichelli. Si segnala che l’articolo è stato pubblicato poco prima della pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale UE, della dir. 2022/2041 sul salario minimo.
1. T. Treu, Diritto e politiche del lavoro tra due crisi, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2020, p. 242; M. Miracolini, La funzione anticoncorrenziale della contrattazione collettiva nazionale di categoria. Nodi critici e prospettive, in Var. temi dir. lav., 2021, pp. 367-368.
2. A. Lassandari, Oltre la grande dicotomia? La povertà tra subordinazione e autonomia, in Lav. dir., 2019, p. 81. Cfr. anche i contributi di P. Passalacqua-N. Rossi-S.M. Corso, presenti nel n. 2/2021 della rivista Var. temi dir. lav., p. 231 ss.
3. M. Rusciano, Legificare la contrattazione per delegificare e semplificare il diritto del lavoro, in Lav. dir., 2016, p. 953.
4. S. Spattini-M. Tiraboschi, Questione salariale: guardare la luna, non il dito. A proposito di dinamiche retributive, salario minimo e dei presunti 1.000 contratti collettivi nazionali di lavoro, in Boll. ADAPT, 18, 2022.
5. G. Proia, La proposta di direttiva sull’adeguatezza dei salari minimi, in Dir. rel. ind., 2021, p. 40.
6. Oltre a quelle indicate, invero, vi sono state ulteriori proposte depositate in Parlamento: d.d.l. n. 862/2018, a firma dell’on. Pastorino; d.d.l. n. 947/2018, dell’on. Delrio; d.d.l. n. 1542/2019 dell’on. Rizzetto; d.d.l. n. 1259/2019, on. Laforgia.
7. V. Bavaro, Note sul salario minimo legale nel disegno di legge n. 658 del 2018, in ildiariodellavoro.it, 2019, p. 3.
8. A. Garnero-C. Lucifora, L’erosione della contrattazione collettiva in Italia e il dibattito sul salario minimo legale, in Giorn. dir. lav., 2020, p. 295; A. Lassandari; Retribuzione e contrattazione collettiva, in Riv. giur. lav., 2019, p. 210; N. De Marinis, Dal caso FIAT al Patto di Fabbrica. La contrattazione collettiva nello spazio economico globale, in Lav. prev. oggi, 2018, p. 152.
9. A quanto risulta, solo i settori della vigilanza, del multiservizi e del terziario avrebbero una retribuzione oraria minima inferiore, pari, rispettivamente, a 7,07, 7,59 e 8,64. Cfr. L. Birindelli-S. Leonardi-M. Raitano, Salari minimi contrattuali e bassi salari nelle imprese del terziario privato, Roma 2017.
10. B. Caruso, Il sindacato tra funzioni e valori nella “grande trasformazione”. L’innovazione sociale in sei tappe, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, 2019, p. 394.
11. Il discorso d’insediamento di Ursula von del Lyen in https://www.politicheeuropee.gov.it/media/4816/discorso-al-parlamento-ursula-von-der-leyden.pdf.
12. M. Barbieri, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. L’Europa sociale ad una svolta, in Dir. rel. ind., 2021, p. 387.
13. A. Lo Faro, La proposta europea per “salari minimi adeguati” nella prospettiva dell’ordinamento italiano: vincoli e prospettive, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT, 2022, p. 157; che ricostruisce il passaggio dalla proposta originaria della Commissione alla formulazione attuale.
14. G. Proia, La proposta di direttiva, cit., p. 28; v. anche A. Lo Faro, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo, p. 539.
15. F. Gori, Le clausole di costo del lavoro negli appalti pubblici e il diritto UE, in Boll. ADAPT, 2 maggio
2017; I. Alvino, Clausole sociali, appalti e disgregazione della contrattazione collettiva nel 50° anniversario dello Statuto dei lavoratori, in https://www.lavorodirittieuropa.it, 2 luglio 2020.
16. F.Segnezzi-M. Tiraboschi, I bassi salari non scompariranno, se non aggrediamo le cause, in Boll.
ADAPT, 2020, p. 5