Il D.lgs. n. 104/2022 è stato oggetto, del tutto legittimamente e giustificatamente, di numerose critiche in ordine a diversi aspetti dell’applicazione della Direttiva UE 2019/1152: non sono state criticate solo le tempistiche e le modalità di formazione del decreto (che ha visto lo scarso coinvolgimento di parti importanti del mondo del lavoro, quali i professionisti) ma anche alcune prese di posizione estremamente burocratiche e vessatorie prese dal legislatore italiano, non richieste dalla Direttiva ed in qualche caso anche in contraddizione con essa. Di questo si è parlato e si parlerà ampliamente, ma forse uno sguardo su qualche sbavatura (a parere di chi scrive) nella Direttiva stessa ha influito sull’applicazione italiana e influirà nel futuro su tutto il territorio dell’Unione. Faremo alcuni esempi di seguito di alcune dissonanze notate nel testo europeo, ma è prima opportuno fare due premesse. La prima è che non può che essere salutata favorevolmente una norma che persegua principi di trasparenza, informazione e maggiori condizioni di tutela nei rapporti di lavoro. Opportunamente il Considerando n. 48 (bellamente disatteso dal legislatore italiano) ha previsto un carico burocratico maggiore ed ha quindi cercato di porvi un freno prevedendo che “gli Stati membri dovrebbero evitare di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di micro, piccole e medie imprese. Gli Stati membri sono pertanto invitati a valutare l’impatto dei rispettivi atti di recepimento sulle piccole e medie imprese per accertarsi che non siano colpite in modo sproporzionato”. Tutto molto giusto, però è arduo comprendere perchè questa prerogativa sia riservata solo alle PMI, per quanto sicuramente meritevoli di un’attenzione preferenziale, e non a tutte le imprese in generale. Appesantire il lavoro con “lacci e lacciuoli” spesso inutili (pensiamo a certi rapporti annuali obbligatori, tanto per fare un esempio) fa male a tutti, ma proprio a tutti, e non contribuisce a creare una cultura positiva del lavoro e dell’apprezzamento delle giuste tutele ad esso riservate.
La seconda premessa è che la Direttiva in questione pare mossa, lo dichiara la Direttiva stessa (vedi Considerando n. 2 e 4, solo per citarne alcuni), dalla preoccupazione verso una maggior tutela delle forme di lavoro più flessibili e precarie o atipiche. Tale presupposto, tuttavia, pare far dimenticare alcuni principi fondamentali comuni del rapporto di lavoro, creando in qualche caso un effetto di “squilibrio di ritorno”: in altre parole, la Direttiva cercando di incidere su alcuni aspetti, anche comprensibilmente, in qualche passaggio non si muove in una prospettiva ecologica (o sistemica) e ciò che protegge da una parte rischia di trascurare dall’altra. Se si identificano norme che hanno come obiettivo, rider, lavoratori a chiamata o precari, forse è utile non dimenticare che esistono anche (sono la stragrande maggioranza) rapporti di lavoro normali a cui applicare condizioni di lavoro “non sospettose”.
Ciò premesso, procediamo all’analisi di qualche criticità.
Sicuramente, balza all’occhio un passaggio del Considerando n. 8.
“I lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva, in quanto non soddisfano tali criteri. L’abuso della qualifica di lavoratore autonomo, quale definito dal diritto nazionale, a livello nazionale o nelle situazioni transfrontaliere, costituisce una forma di lavoro falsamente dichiarato che è spesso associata al lavoro non dichiarato. Il falso lavoro autonomo ricorre quando il lavoratore, al fine di evitare taluni obblighi giuridici o fiscali, è formalmente dichiarato come lavoratore autonomo pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro. Tali persone dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva. a. È opportuno che la determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro si fondi sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro e non basarsi sul modo in cui le parti descrivono il rapporto”.
Salvato un poco (ma solo un poco) dall’ultimo periodo, il concetto che ci si presenta è piuttosto strano, che potremmo riassumere con un sillogismo: i lavoratori dipendenti, a differenza degli autonomi, hanno diritto all’informazione; esistono falsi lavoratori autonomi, che in realtà sono lavoratori dipendenti camuffati; anche questi lavoratori hanno diritto all’informazione.
A parte che è poco comprensibile comprendere perché lavoratori realmente autonomi (penso agli agenti e rappresentanti, ma è solo un esempio fra i tanti) non avrebbero diritto ad un’apprezzabile trasparenza, ma se proprio volessimo incidere sul mercato del lavoro, dovremmo prevedere non tanto che ai “falsi autonomi” vada fornita un’informazione completa, ma, piuttosto, che essi abbiano diritto ad un inquadramento contrattuale corrispondente alla propria prestazione, risolvendo così in radice il problema. Si noti ad esempio che la trasposizione di questa ambiguità comporta, nell’applicazione italiana a cura del D.lgs. n. 104/22, l’obbligo di informativa anche per i co.co.co. (che autonomi sono e restano, e ai quali di fatto la maggior parte delle informazioni previste dalla norma non riguardano). Forse è il caso di uscire dai sospetti e dalle ibridazioni e di tracciare una linea definita fra autonomia e subordinazione, una volta per tutte, in Italia ed in Europa. Passando ad altri esempi, l’articolo 8 della Direttiva disciplina il periodo di prova e precisamente stabilisce al comma 2.
“Nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri provvedono affinché la durata di tale periodo di prova sia proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti, il rapporto di lavoro non è soggetto a un nuovo periodo di prova.” Nulla quaestio sulla necessaria indeterminatezza del termine “proporzionale” (che però forse potrebbe avere avuto una consistenza meno descrittiva), sennonché esso pare lasciato completamente al buon senso del legislatore statale (nel caso italiano,
carente) o alla determinazione delle parti sociali (nel caso italiano, non considerate sull’argomento), con tutti i risvolti possibili in termini di contenzioso.
Ma altrettanto pare strano non dare alcun limite temporale al termine “rinnovo”. Se ho assunto dieci anni fa per un lavoro una persona e oggi la richiamo, è legittimo voler verificare se sia la stessa di allora (e di converso, anche la persona non potrebbe voler verificare che l’azienda sia la stessa?). Sono limiti che si vedono anche nella normativa italiana sul tempo determinato. È che quando si concretizza una norma, sarebbe opportuno pensare a tutte (o almeno alla maggior parte del)le possibili conseguenze ed applicazioni sul lato pratico. Uguali discrasie si trovano nell’articolo 9 sull’impiego in parallelo.
“Gli Stati membri provvedono affinché il datore di lavoro non vieti a un lavoratore di accettare impieghi presso altri datori di lavoro al di fuori della programmazione del lavoro stabilita con il primo né gli riservi un trattamento sfavorevole sulla base di tale motivo.
2. Gli Stati membri possono stabilire condizioni per il ricorso a restrizioni di incompatibilità da parte dei datori di lavoro sulla base di motivi oggettivi quali la salute e la sicurezza, la protezione della riservatezza degli affari, l’integrità del servizio pubblico e la prevenzione dei conflitti di interessi.”
Una domanda: è un diritto disponibile o no? E, soprattutto, è un diritto in qualche modo economicamente compensabile?
Ad esempio, se offro ad un lavoratore, magari strategico, condizioni economiche ottimali, perché non posso prevedere che la sua attività lavorativa sia dedicata completamente alla mia azienda?
Ed anche in caso di lavoro part-time, se chiedo una disponibilità o una flessibilità, perché non posso garantirmi la stessa (senza intoppi di altri impegni di lavoro), con un’equa compensazione economica (senza andare lontano, è quello che succede in certi contratti della GDO con le cassiere part-time sottoposte a turni alternati).
È assurdo che non sia stata prevista una compensazione economica equa che permetta al datore di lavoro di stare tranquillo ed al lavoratore di conseguire una retribuzione giusta. La norma in questione invece, pare giustificare, quasi istigare, ai lavoretti, ai secondi lavori etc. etc. a cui anzi il lavoratore avrebbe “diritto” (salvo poi, come vedremo dopo, agognare e acquisire diritti a lavori più stabili, quasi un controsenso).
E ancora: cosa è posto in carico al datore di lavoro in termini di controllo sul rispetto di pause e riposi per altrui attività, magari autonome? Non sarebbe compito dello Stato vigilare in tal senso? Il nostro Ispettorato del lavoro pensa di no: se due datori di lavoro part-time, magari uno all’insaputa dell’altro, sforano nella sommatoria il limite settimanale di ore di lavoro sarebbero entrambi sanzionabili: si sfiora l’assurdo se si cerca di conciliare questa posizione, peraltro paradossale di per sé, con la norma appena commentata.
Altrettanto discutibile è l’art. 12, sulla transizione ad un’altra forma di lavoro.
“1. Gli Stati membri provvedono affinché un lavoratore con almeno sei mesi di servizio presso lo stesso datore di lavoro, che abbia completato l’eventuale periodo di prova, possa chiedere una forma di lavoro con condizioni di lavoro più prevedibili e sicure, se disponibile, e riceva una risposta scritta motivata. Gli Stati membri possono limitare la frequenza delle richieste che fanno scattare l’obbligo di cui al presente articolo.”
Dietro l’apparente equità e attenzione sociale, cosa manca, evidentemente, a questa norma? Qualsiasi riferimento alle mansioni esercitate in precedenza o ad altre almeno analoghe. Per come è scritta, un lavoratore che magari possegga i requisiti, può lavorare sei mesi ed un giorno come addetto alle pulizie part-time e poi avanzare la richiesta per il posto, resosi vacante, di … direttore generale.
Comprendiamo quali e quante situazioni paradossali potrebbero nascondersi dietro la mancanza (del tutto irragionevole) di qualsiasi limite in proposito?
Beninteso, non si vuole inserire nessun vincolo agli ascensori sociali, però pare logico e ragionevole che un’azienda che prova un lavoratore in una mansione non dovrebbe essere tenuta ad altri obblighi se non nei limiti di ciò che ha conosciuto per quella mansione o (al limite) per altre corrispondenti.
Infine, l’art. 18, che si preoccupa di proteggere il lavoratore che avanzi i suoi diritti nell’ambito della presente legge. Così i commi 2, 3 e 4.
“2. I lavoratori che ritengono di essere stati licenziati, o soggetti a misure con effetto equivalente, per il fatto di aver esercitato i diritti previsti dalla presente direttiva possono chiedere al datore di lavoro di fornire i motivi debitamente giustificati del licenziamento o delle misure equivalenti. Il datore di lavoro fornisce tali motivi per iscritto.
3. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, quando i lavoratori
di cui al paragrafo 2 presentano, dinanzi a un organo giurisdizionale o a un’altra autorità od organo competente, fatti in base ai quali si può presumere che vi siano stati tale licenziamento o tali misure equivalenti, incomba al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è stato basato su motivi diversi da quelli di cui al paragrafo 1.
Fino al comma 3 potremmo esser d’accordo. Tuttavia, il comma 4, cioè la possibilità di inversione completa di onere della prova (guarda caso, subito applicata dal legislatore italiota) è un principio giuridico da maneggiare con estrema cautela. Se vi sono, lo prevede la Direttiva (ma qui in Italia si è andati verso la sanzione e la condanna aprioristica), possibilità di difesa dei propri diritti ricorrendo in prima battuta agli organi di vigilanza, non sarebbe stato meglio imporre una via conciliativa?
Sappiamo tutti che esistono datori buoni e datori non buoni (così come esistono lavoratori sfruttati e lavoratori furbetti): allora per evitare, da una parte o dall’altra, gli “espedienti”, perchè non immaginare come via preferenziale, anzi direi proprio come strada maestra da seguire, procedure preventive obbligatorie di accomodamento (dopo le quali, allora sì che ogni parte in causa si prende le proprie responsabilità)?
Quelli che precedono sono solo alcuni esempi di disorganicità, ad avviso di chi scrive, della normativa europea in commento, che poi nelle mani di alcuni Stati membri avrebbe potuto prevedibilmente essere peggiorata o interpretata nel modo più deteriore. E in questo purtroppo, in Italia sembriamo non essere secondi a nessuno.
* Pubblicato anche su Lavoro Diritti Europa, n. 3/2022.