TRACCE DI “AFFECTIONIS VEL BENEVOLENTIAE CAUSA” IN UN MONDO DI ONEROSITÀ Quando il lavoro non è reso per un corrispettivo economico-monetario

di Marco  Tuscano, Consulente del lavoro in Brescia

Com’è noto, nel nostro ordinamento giuridico vige una presunzione di onerosità della prestazione  lavorativa, talvolta accreditata come vero e proprio principio1 , che trova le sue stabili fondamenta sia nei dettami di legge che nelle varie pronunce giurisprudenziali.
Con riferimento alle fonti di legge, si vedano, ex multis, le seguenti previsioni normative:
– Art. 2094 c.c.: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”;
– Art. 2222 c.c.: “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”.
In tutta evidenza, nella generalità dei casi, il Legislatore sottende alla resa della prestazione di lavoro (nei casi richiamati a titolo subordinato o autonomo) un corrispettivo monetario, da definirsi retribuzione o compenso a seconda della modalità di resa della prestazione lavorativa.
Con riferimento alle fonti giurisprudenziali, invece, si prenda a riferimento la sentenza n. 7703,
del 28 marzo 2018, della Corte di Cassazione, nella quale fu chiarito che “[…] ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si deve presumere come effettuata a titolo oneroso […]”, a confermare quale sia la normalità in presenza della resa di una attività lavorativa, ossia l’esistenza di una controprestazione.
Tuttavia, al di là della presunzione (o principio) di onerosità vista, il nostro ordinamento giuridico ammette la resa di una prestazione di lavoro a titolo gratuito, sebbene in circostanze specifiche, ovvero in eccezione alla predetta normalità.
Tra queste possono essere individuate le ipotesi riconducibili al concetto di lavoro reso “affectionis vel benevolentiae causa”.
Per una definizione di prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”, si leggano le parole di L. Menghini che così la definisce: “collaborazione dettata da sentimenti affettivi, rivolta  all’attuazione del principio morale […] esercitata non per averne in contraccambio una corrispettiva retribuzione materiale, bastando il conseguimento dei benefici spirituali […]” 2

Ma si valuti, in aggiunta, anche la voce della  giurisprudenza, che così si esprime: è un “criterio della causa del rapporto”3 , “caratterizzato dalla gratuità della prestazione; a tale fine non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata”4 ; in altre parole, si è in presenza di una “prestazione di lavoro […], non […] eseguita con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, ma affectionis vel  benevolentiae causa o in omaggio a principi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall’esercizio dell’attività stessa”5.
A questo punto della disamina, si rende utile individuare i contesti in cui possa essere identificata la  prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”.
Indubbiamente, l’apporto di lavoro a tale titolo può essere individuato nelle prestazioni rese dai familiari. A tal proposito, si veda l’esaustiva Circolare M.L.P.S. n. 10478/2013, che così si esprime: “Nella maggior parte dei casi, la collaborazione prestata all’interno di un contesto familiare viene resa in virtù di una obbligazione “morale”, basata sulla c.d. affectio vel benevolentiae causa, ovvero sul legame solidaristico e affettivo proprio del contesto familiare, che si articola nel vincolo coniugale, di parentela e di affinità e che non prevede la corresponsione di alcun compenso”; tale documento di prassi, vi è da chiarire, risulta peraltro fortemente supportato da numerosissimi riferimenti  risalenti e non) di natura giurisprudenziale6.
D’altra parte, come del resto risulta evidente, le prestazioni lavorative caratterizzate da una causa riconducibile alla mera benevolenza possono essere identificate nell’ambito del volontariato, che si caratterizza proprio per lo spirito dei cittadini “[…] che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona […]”7 con spontaneità e autonomia “per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”8, laddove “Il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà”9 . Tali prestazioni, pertanto, certamente sono da catalogarsi come di lavoro, benché rese “affectionis vel benevolentiae causa”10, secondo “Le motivazioni  profonde di ciascuno (psicologiche, affettive, ecc.)”11, nella piena consapevolezza “di effettuare la propria attività senza voler assolutamente ottenere in cambio un corrispettivo monetario o comunque rapportato al lavoro prestato”12. Ulteriormente, anche nell’ambito sportivo è stato ritenuto configurabile un rapporto reso “affectionis vel benevolentiae causa”; sulla questione, così si è espressa la dottrina : “I motivi che spingono un soggetto a prestare la propria attività lavorativa senza ricevere in cambio alcun compenso, possono essere molteplici, comunque riconducibili al brocardo  “affectionis vel benevolentiae causa” vale a dire la realizzazione di una determinata causa di natura non economica ossia a carattere sociale, culturale, assistenziale o  sportiva ritenuta comunque meritevole secondo l’ordinamento giuridico”13.
E, sul punto, vale la pena evidenziare quanto sancito dalla recente riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo, ai sensi del D.lgs. n.  36/2021, che all’art. 29, co. 1, recita: “Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a., possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”.
In conclusione, pur apparendo generalmente difficile legare il concetto di lavoro a quello di gratuità14, appare ormai chiaro come sia invece possibile lavorare lontani dall’idea di onerosità, ma certo solo per determinati e specifici ambiti, ben delimitati e riconosciuti da normativa, giurisprudenza, dottrina e prassi, tra cui, appunto, l’ambito del lavoro reso “affectionis vel benevolentiae causa” nelle sue diverse declinazioni.
E quanto sopra, del resto, risulta scontato, se si considera la “fonte dei principi generali del diritto”15, ossia la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, “a common standard of achievement for all  peoples and all nations” 16, la quale all’art. 23 sancisce che “Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione”, che “Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro” e che “Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”.

1. Cfr. ex multis G. Quadri, Lavoro familiare e presunzione di gratuità, volume 5, n. 2 del 2013, temilavoro.it, p. 33 e T. Bussino, Vigilanza ispettiva nel lavoro a titolo gratuito e a titolo oneroso, Working Paper Adapt, 12 ottobre 2009, n. 95, p. 2.
2. L. Menghini, Nuovi valori costituzionali e volontariato, Giuffrè Editore, Milano, 1989, p. 2.

3. Così L. Gori, La disciplina del volontariato individuale, ovvero dell’applicazione diretta dell’art. 118, ultimo comma, cost., Rivista Aic, n. 1/2018, p. 18, richiamandosi a Cass. 6 aprile 1999, n. 3304.
4. Cass., 6 aprile 1999, n. 3304.
5. Cass., 7 novembre 2003, n. 16774.
6. Ex plurimis, si vedano Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, Cass., 13 giugno 1987, n. 5221 e Cass., 21 agosto 1986, n. 5128.
7. Art. 1, comma 1, D.lgs. n. 117/2017.
8. Art. 2, D.lgs. n. 117/2017.
9. Art. 17, D.lgs. n. 117/2017.
10. Cfr. A. Lepore, Lavoro gratuito e subordinazione, Riv. giur. lav., 2006, II, p. 320.
11. Così L. Zoppoli, Volontariato e diritti dei lavoratori dopo il Jobs Act, WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2016, p. 11.
12. Ibidem.

13. Così G. Martinelli, Il rapporto di lavoro sportivo: aspetti giuridici, 2009, documentazione Coni Marche. Per l’ambito giurisprudenziale, si veda Cass. 20 febbraio 1990, n. 1236.
14. A tal proposito, si valutino le eloquenti parole di V. Bavaro: “la formula “lavoro gratuito”, per il diritto, è un ossimoro” in Questioni in diritto su lavoro digitale, tempo e  l libertà, in RGL, 2018., p. 37.
15. Così E. Bergamini, La Dichiarazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 4 – 2019, p. 60.


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