TEMPO DI LAVORO: LE SFIDE DELLA SUA REGOLAMENTAZIONE GIURIDICA*
Antonella Rosati , Ricercatrice Centro Studi Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano
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Vito Sandro Leccese si interroga sul ruolo del tempo nel diritto
Il tempo continua a rivestire un ruolo imprescindibile per il diritto poiché è insito nella dimensione esistenziale dei lavoratori. Si sono inoltre aggiunti nuovi modi di lavorare che sfidano legislatori, interpreti e soggetti collettivi interessati a porsi la questione dei rischi e dei bisogni di protezione, oltre che delle opportunità che il lavorare “senza tempo” comporta. Un esempio, per tutti: la celere diffusione dell’intelligenza artificiale (IA) generativa consente di automatizzare molte attività, riducendo il tempo necessario per svolgerle; essa, al contempo, permette di lavorare in modo asincrono e da remoto. E ciò incide su numerosi aspetti connessi alla disciplina dei tempi di vita e di lavoro, sia sul piano delle tutele che su quello della revisione dell’orario di lavoro. In primo luogo, l’accresciuta e accelerata disponibilità di tempo liberato rende ancor più complesse le riflessioni concernenti gli effetti delle innovazioni tecnologiche sui livelli occupazionali e sul governo collettivo di questi aspetti: a partire dal dibattito sulla plausibilità della ben nota previsione rifkiniana sulla “fine del lavoro” 1. In secondo luogo, sul piano dei rapporti individuali di lavoro, quella disponibilità di tempo liberato, unita alla possibilità di ampliare le modalità asincrone di svolgimento della prestazione, offre al management una ragguardevole opportunità di rispondere ai bisogni di conciliazione vita-lavoro, mediante la flessibilizzazione degli orari, perseguendo, al contempo, obiettivi di incremento della produttività. Al contrario le stesse caratteristiche del processo produttivo e i condizionamenti derivanti dalle variabili organizzative fanno sì che spesso la libertà dei tempi del lavoratore digitale sia solo apparente 2. Ebbene, quello che l’indagine intende mettere in discussione è proprio l’idea della perdita di centralità del tempo nell’esecuzione della prestazione lavorativa, anche subordinata e, per conseguenza, della crescente irrilevanza della sua regolazione giuridica. Il lavoro è pur sempre espressione e applicazione di energie lavorative fisiche e/o mentali, che, in quanto tali, sono erogate in un tempo e in uno spazio; solo che, in alcuni casi, quel tempo e quello spazio sono collocati altrove rispetto ai tradizionali luoghi di produzione e distanti dalle coordinate spazio-temporali di altri lavoratori. In definitiva, il lavoro è dentro il tempo e lo spazio, poiché c’è sempre un (altro) luogo fisico e un (altro) tempo della prestazione. La questione, dunque, verte su un altro aspetto e cioè sulla ricerca e adozione di nuove soluzioni normative che consentano di rispondere meglio alle sfide poste da queste modalità di lavoro, diverse rispetto al modello standard di lavoratore.
UN PROFILO DI ANALISI: I LAVORI “SENZA TEMPO” NELLA COSTITUZIONE E NELL’ATTUALE QUADRO REGOLATIVO DELL’UNIONE (DIRIGENTI E NON SOLO)
L’esempio dei dirigenti e, più in generale, del personale direttivo delle aziende ha un suo rilievo intrinseco nella nostra dimensione regolativa, se si considera che la loro tradizionale esclusione dalle tutele relative alle durate massime dell’orario ha subito il vaglio della giurisprudenza costituzionale sia pure con riferimento alla questione di legittimità, per contrasto con l’art. 36, co. 2 3. Nell’argomentare sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 2, R.D.L. n. 692, la Consulta ha affermato che per la «speciale categoria dei dirigenti […] il legislatore non [sarebbe] tenuto a fissare un orario giornaliero e nemmeno settimanale», a causa delle caratteristiche stesse della loro prestazione, connotata da poteri di iniziativa e autonomia, direttamente connessi al carattere fiduciario della prestazione, il cui esercizio inciderebbe anche sulla quantità e sulla collocazione temporale della prestazione stessa, che risulterebbero quindi necessariamente variabili; quella prestazione, dunque, mal si adatterebbe a essere svolta «secondo periodicità costante o uniforme» e la durata del lavoro avrebbe di per sé una «misura non prevedibile né determinabile». D’altra parte, la Corte ha ammesso che, anche qualora non possano operare tetti giornalieri e settimanali di durata, sussiste pur sempre la necessità di individuare «un limite quantitativo globale» della prestazione, a tutela della salute e della integrità fisico psichica dei lavoratori, il quale tenga conto delle obiettive esigenze e delle caratteristiche dell’attività richiesta. Il giudice ordinario, in particolare, può esercitare «un controllo sulla ragionevolezza della durata delle prestazioni di lavoro pretese dall’imprenditore» e, una volta individuato quel limite globale, può anche valutare se la retribuzione complessivamente percepita sia «proporzionata alla qualità e quantità del lavoro compiuto, in conformità al principio enunciato dall’art. 36 [c. 1] Cost.». Questa valutazione non potrà avere a oggetto la mera durata della prestazione, ma dovrà tenere conto soprattutto della «intensità e tempestività dell’impegno, spesso discontinuo e variamente concentrato in rapporto alle più diverse esigenze». In primo luogo, l’esistenza di margini, anche ampi, di autonomia nell’esecuzione della prestazione e nella scelta della collocazione temporale «variamente concentrata» della stessa, «non implica affatto necessariamente che la […] prestazione non possa e non debba essere assoggettata ad un limite di durata massima» 4 . Inoltre, è la stessa Corte a riconoscere che anche la salute e l’integrità dei lavoratori in questione debbano essere tutelate contro l’eccessivo sfruttamento mediante la fissazione di un «limite quantitativo globale» alla prestazione, salvo poi escludere che il limite debba necessariamente individuarsi su un arco temporale giornaliero o settimanale; e l’affermazione non è accompagnata da alcun elemento utile a individuare un diverso periodo di riferimento 5 . La verifica deve invece riguardare direttamente il contenuto dell’attività concretamente svolta in ogni singola fattispecie; attività che, per risultare esclusa, deve rivestire tutte le caratteristiche (autonomia, poteri decisionali e responsabilità) che nella pronuncia già risultavano enfatizzati 6 .
LA CORTE DI GIUSTIZIA: VERSO UN PROGRESSIVO RIDIMENSIONAMENTO DELLA CATEGORIA DEI LAVORATORI “SENZA TEMPO”?
L’armamentario concettuale qui brevemente riproposto (posizione della Corte e relativa critica) deve infatti confrontarsi con il mutato assetto regolativo derivante dalla disciplina dell’Unione e della giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale si è sinora mossa in una direzione decisamente restrittiva rispetto alle fattispecie che possono essere sottratte alle tutele europee in materia di durate massime e di riposi. L’art. 17, par. 1, della Direttiva 2003/88, consente agli Stati membri, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di derogare alla gran parte delle tutele poste dalla direttiva allorché «la durata dell’orario di lavoro, a causa delle particolari caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi»; in particolare, quando si tratta: a) di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo; b) di manodopera familiare; o c) di lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunità religiose». A sua volta, il nostro legislatore, nel riprodurre la struttura della previsione europea, ha riproposto il presupposto dell’esclusione in essa contemplata, ma ne ha ampliato l’elenco, inserendo nella prima lettera il riferimento anche al «personale direttivo delle aziende» 7 e aggiungendo, poi, una lettera relativa alle «prestazioni rese nell’ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro» 8 . La disciplina in questione non è risultata esente da critiche e proposte di modifica. In particolare, nel quadro di uno dei percorsi avviati in vista della modifica della direttiva del 2003 (nessuno dei quali portato a termine), il Parlamento Europeo mise in luce i rischi connessi alla deroga contemplata dall’art. 17, par. 1, e propose di restringerne la portata 9 . A direttiva invariata, il dibattito si è corroborato allorché la Corte di Giustizia dell’Unione, con due sentenze, la prima del 2019 10, la seconda del 2024 11, ha affermato che dalla direttiva va desunto un obbligo, per gli Stati membri, di imporre ai datori di lavoro l’istituzione di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, al fine di garantire che le previsioni in materia di orario massimo e di riposo minimo giornaliero siano effettivamente rispettate; obbligo che però, come afferma la stessa Corte, non sussiste allorché si tratti, appunto, delle attività cui si riferisce l’art. 17, par. 1, dir. n. 2003/88. L’approccio teleologico si è poi rafforzato, da qualche tempo, grazie al richiamo, ormai presente in quasi tutte le pronunce in materia, all’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea 12, il quale prevede che «ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite»; ed è alla luce del riconoscimento di questo generale e fondamentale «diritto» che vanno poi interpretate le stesse clausole della dir. n. 2003/88 che lo precisano 13, le quali «non possono essere oggetto di un’interpretazione restrittiva a detrimento dei diritti che il lavoratore [ne] trae» 14. Guidata da questo “faro”, dunque, già in una sentenza del 2006 la Corte aveva osservato che dalla stessa formulazione della previsione derogatoria contenuta nell’art. 17, par. 1, risulta che «essa si applica solo ai lavoratori il cui orario di lavoro nella sua interezza non è misurato o predeterminato o può essere determinato dai lavoratori stessi, a causa della natura dell’attività esercitata» 15. Nel 2010 la Corte aveva anche chiarito che la deroga può operare solo se risulti provato che al lavoratore è riconosciuta la facoltà di decidere del numero delle ore di lavoro da prestare 16. Più recentemente la Corte ha ribadito che la deroga prevista dall’art. 17, par. 1, dir. n. 2003/88 «non è applicabile a un’attività subordinata […] qualora non sia dimostrato che l’orario di lavoro, nel suo complesso, non sia misurato o predeterminato o che possa essere stabilito dal lavoratore stesso» 17. La pronuncia risulta interessante in virtù del fatto che in essa la Corte ha fornito elementi più dettagliati per la valutazione del giudice del rinvio, chiarendo che, ai fini dell’esclusione dalle tutele, non è sufficiente che i lavoratori abbiano «una certa autonomia riguardo al loro orario di lavoro e, più particolarmente, all’organizzazione dei loro compiti quotidiani, dei loro spostamenti e dei periodi d’inattività»; né rilievo decisivo assume il fatto che il datore di lavoro possa incontrare difficoltà oggettive «per quanto riguarda il controllo dell’esercizio quotidiano delle attività dei suoi dipendenti», qualora sussistano comunque elementi tali da far ritenere al giudice del rinvio che il datore conservi un qualche potere nella individuazione dei periodi in cui lavorare 18. In un’altra pronuncia, relativa all’attività lavorativa di personale universitario, la Corte ha poi affidato al giudice del rinvio il compito di verificare se «almeno una parte dell’orario di lavoro […] fosse determinata dal loro datore di lavoro, il che escluderebbe la possibilità che la deroga di cui all’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 possa essere […] applicabile» 19. Infine, nella più recente pronuncia sull’obbligo di misurazione dell’orario 20, il giudice dell’Unione, nel ritenere che esso sussista anche con riferimento al rapporto delle lavoratrici domestiche, implicitamente esclude la loro diretta riconducibilità alla nozione di manodopera familiare. Nel complesso, dalle pronunce della Corte emerge un progressivo ridimensionamento, ai fini dell’applicazione delle tutele garantite dalla dir. n. 2003/88, della categoria dei lavoratori “senza tempo”, tanto che la stessa Commissione europea, nel riproporre taluni passaggi di quelle pronunce, ha affermato non solo che la deroga «non può […] essere applicata estensivamente a un’intera categoria di lavoratori» (anche se rientrante nell’elenco esemplificativo di cui all’art. 17, par. 1), ma anche che essa «potrebbe comprendere determinati dirigenti di alto livello il cui orario di lavoro, nel suo complesso, non è misurato o predeterminato, dal momento che essi non sono obbligati ad essere presenti sul posto di lavoro a orari fissi ma possono decidere autonomamente l’organizzazione del proprio orario di lavoro. Analogamente, la deroga potrebbe applicarsi per esempio a determinati esperti, avvocati inquadrati in un rapporto di lavoro in ruoli di responsabilità o esponenti del mondo accademico che hanno una notevole autonomia nella determinazione del proprio orario di lavoro» .
ALTRI PROFILI DI INDAGINE: CONFRONTI E PROSPETTIVE
La ricerca pone anche altri interrogativi, che coinvolgono sia i profili retributivi, sia quelli qualificatori (si pensi ai platform workers) sia quello del rapporto tra tutela della salute e svolgimento della prestazione “senza tempo”. D’altra parte, il lavoro “senza tempo” offre un grande potenziale in termini di capabilities e in questa prospettiva diviene fondamentale il confronto diretto con i protagonisti delle relazioni collettive di lavoro, oltre che l’analisi della produzione contrattuale, al fine di verificarne la percezione – potenzialmente anche diversa – di bisogni, rischi, ma anche opportunità che derivano dalla liberazione dai vincoli temporali, specie in connessione con la digitalizzazione del lavoro. Anche su questo piano, infatti, la sfida per il soggetto collettivo è alta e variegata: da un lato, esso è chiamato a entrare in contatto con un mondo del lavoro talora trasportato altrove rispetto alla tradizionale struttura organizzativa; dall’altro è impegnato a intercettare i nuovi bisogni, potenzialmente anche molto parcellizzati, rendendosene interprete, senza dimenticare la propria opera di mediazione degli interessi. In particolare, i percorsi di regolazione, anche in materia di orari e loro superamento, che perseguano l’obiettivo di un miglior adattamento alle esigenze dei singoli «non devono in alcun modo essere intesi come contrapposti o alternativi alle forme di azione collettiva dei lavoratori», ma promossi e attuati «proprio nell’ambito di una cornice normativa anche di fonte collettiva, e in funzione sinergica con l’azione sindacale, creando cioè i presupposti per nuove tecniche di rinvio regolativo dalla legge e dal contratto collettivo al contratto o patto individuale» 21. Non si tratta di elaborare nuove tecniche, ma di sfruttare quelle che già esistono: si pensi alla disciplina del welfare già sperimentata in alcuni contesti aziendali e di alcune forme di flessibilità dell’orario “a scelta”, anche nel quadro del matching tra esigenze organizzative e individuali o, ancora, a talune discipline collettive sul lavoro agile.
* Sintesi dell’articolo pubblicato in LLI, Vol. 11, No. 1, 2025, ISSN 2421-2695 dal titolo Lavoratori “senza tempo”? Rischi, bisogni di protezione, opportunità.
1. J. Rifkin, The End of Work: The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era, Putnam’s Sons, 1995.
2. M. Franceschetti – D. Guarascio, Il lavoro ai tempi del management algoritmico. Taylor è tornato? RGL, 2018, I, 705 ss.
3. «La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge».
4. P. Ichino, L’orario di lavoro e i riposi. Artt. 2107-2109, in Il Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Giuffrè, 1987, 34; P. Ichino – L. Valente, L’orario di lavoro e i riposi. Artt. 2107-2109, in Il Codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè, 2012, 147.
5. Cfr. T. Treu, Commento all’art. 36, in Commentario della Costituzione. Rapporti economici, tomo I, a cura di G. Branca, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1979, 134; V. Leccese, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale cit., 321.
6. V. Leccese, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale cit., 322; cfr. già P. Tosi, Il dirigente d’azienda. Tipologia e disciplina del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1974, 110.
7. Art. 17, c. 5, lett. a, D.lgs. n. 66/2003.
8. Art. 17, c. 5, lett. d, D.lgs. n. 66/2003. 9. V. la Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 17 dicembre 2008, che propose numerosi e significativi emendamenti alla Posizione comune (CE) n. 23/2008 definita dal Consiglio il 15 settembre 2008, adottata in vista dell’adozione di una direttiva di modifica della dir. 2003/88.
10. C. giust. 14 maggio 2019, C-55/18, CCOO.
11. C. giust. 19 dicembre 2024, C-531/23, Loredas.
12. Cui va riconosciuto, ai sensi dell’art. 6, par. 1, del Trattato Ue, il medesimo valore giuridico dei Trattati.
13. C. giust. 14 maggio 2019, CCOO, cit., punto 31 e sentenze ivi citate.
14. C. giust. 14 maggio 2019, CCOO, cit., punto 32; C. giust. 19 dicembre 2024, Loredas, cit., punto 28.
15. C. giust. 7 settembre 2006, C-484/04, Commissione v. Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, punto 20.
16. C. giust. 14 ottobre 2010, C-428/09, Union syndicale Solidaires Isère, punto 40 ss. (corsivo nostro). Non basta, dunque, che al lavoratore sia riconosciuta una pur ampia flessibilità nella scelta della collocazione della prestazione (cioè del momento in cui lavorare): si pensi a certi modelli di flessibilità, anche spinta, dei tempi, che vede il lavoratore in grado di distribuire l’orario in modo diverso tra i giorni o le settimane, ma pur sempre nel rispetto – sia pure come media – di specifici limiti di orario.
17. C. giust. 26 luglio 2017, C-175/16, Hälvä, punti 45 e 49.
18. C. giust. 26 luglio 2017, Hälvä, cit., spec. punti 33-36.
19. C. giust. 17 marzo 2021, C-585/19, Academia de Studii Economice din Bucureşti, punti 60-63.
20. C. giust. 19 dicembre 2024, Loredas, cit.
21. A. Perulli – V. Speziale, Dieci tesi sul diritto del lavoro, il Mulino, 2022, 89.