Speciale Convegno – RECESSO PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO: IL DISABILE VA TUTELATO

Laura Antonia di Nunzio , Avvocato in Milano

Introduzione

Licenziare per superamento del periodo di comporto un lavoratore che versi in uno stato di disabilità non è mai semplice per le aziende, innanzitutto perché si tratta di una scelta influenzata da un umano senso di solidarietà sociale verso i più deboli, sentimento che tocca corde opposte a quelle tese a garantire l’efficienza organizzativa di un’impresa. In secondo luogo, la complessità di questa tipologia di recesso sta nella difficoltà per il datore di lavoro di comprendere se l’eccessiva morbilità del lavoratore sia o meno dovuta alla sua condizione di disabilità e per questo non debba essere considerata ai fini del calcolo del comporto.

Il nuovo concetto di disabilità

Per affrontare questo delicato tema occorre partire dal principio, ossia dal nuovo concetto di disabilità accolto dal legislatore con il D.lgs. n. 62/2024, secondo il quale la disabilità è “una duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva del neurosviluppo o sensoriale che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri”. Si tratta invero di un concetto non nuovo nel nostro panorama giuridico, in quanto da tempo presente nelle pronunce delle nostre Corti in quanto recepito dalla giurisprudenza europea.

Così anche nella recentissima ordinanza resa dalla Cassazione lo scorso 15 aprile si legge che “secondo la Corte di Giustizia ‘la nozione di “handicap” di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata’”1.

La tutela rafforzata

Questa nuova nozione di disabilità ha portato la giurisprudenza a pretendere da parte datoriale un’aumentata attenzione per quei lavoratori che non riescono ad affrontare la vita lavorativa al pari dei colleghi a causa proprio della condizione di maggiore vulnerabilità dovuta alla patologia sofferta e che si vedono frapposte numerose barriere derivanti dal mondo esterno che impediscono loro di avere le stesse possibilità lavorative di chi non deve convivere con una patologia. E nell’ampio concetto di “barriera” rientra proprio tutto, dalla difficoltà di spostarsi per raggiungere il posto di lavoro, a quella di relazionarsi con i colleghi, all’impossibilità di sottoporsi nel corso della giornata lavorativa alle terapie necessarie, all’esposizione a fattori di rischio non compatibili con lo stato di salute, ecc.

Per questo, per garantire l’eguaglianza sostanziale tra le persone – quella che ci impone di realizzare la nostra Carta costituzionale è possibile solo se si eliminano le differenze di partenza – non è più sufficiente dare rilievo al solo aspetto oggettivo della disabilità, com’è avvenuto sino ad oggi dalla legge e, ancor più, dalla contrattazione collettiva, che hanno previsto una tutela rafforzata solo per coloro che siano affetti da determinate gravi patologie, quali, a titolo esemplificativo, quelle oncologiche o quelle che richiedano terapie salvavita.

Un ordinamento che voglia davvero eliminare ogni disparità di trattamento è quello capace di valorizzare anche le condizioni soggettive della disabilità, ossia che dia rilievo alle concrete difficoltà del soggetto affetto da una qualsiasi patologia (anche non grave) di mettersi in relazione con il mondo esterno, in quanto maggiormente vulnerabile proprio a causa della patologia sofferta2.

Chi è il lavoratore disabile

Per comprendere bene la portata rivoluzionaria dell’attuale posizione giurisprudenziale occorre chiarire un possibile equivoco: per “lavoratore portatore di disabilità” e come tale meritevole di una tutela rafforzata non deve intendersi solo colui che sia stato assunto per ottemperare alla normativa sul collocamento obbligatorio, ma anche tutti quei dipendenti che – seppur non assunti come disabili – soffrono di una qualsiasi patologia che possa renderli maggiormente vulnerabili e portati ad assentarsi più frequentemente dal lavoro a causa proprio della malattia patita. Si pensi ad esempio a chi soffre di uno stato depressivo o di un serio problema alla schiena o di un’insufficienza respiratoria o di una malattia della pelle. Tutti questi lavoratori, proprio per la patologia sofferta, sono più vulnerabili rispetto agli altri e quindi – secondo i nostri giudici – svantaggiati rispetto ai colleghi.

Gli obblighi del datore di lavoro

Sulla scorta di queste argomentazioni, ormai da qualche tempo, la giurisprudenza impone al datore di lavoro che conosca lo stato di disabilità del lavoratore (o che potrebbe conoscerlo usando l’ordinaria diligenza3) di acquisire informazioni sulla correlazione tra le assenze per malattia accumulate dal dipendente e la sua disabilità.

Spesso, davanti a questo assunto, il datore di lavoro eccepisce di non essere a conoscenza dello stato di salute del lavoratore ed anzi di non poterlo proprio conoscere, in quanto si tratta di dati sensibili che eccedono le informazioni necessarie per lo svolgimento del rapporto di lavoro, tant’è che non vi è alcuna possibilità per parte datoriale di sapere la diagnosi in caso di assenza per malattia del dipendente, né di leggere la cartella sanitaria del lavoratore, custodita dal medico del lavoro.

Tuttavia, anche per i lavoratori che non siano stati assunti come disabili, il datore di lavoro, usando l’ordinaria diligenza, potrebbe venire a conoscenza dello stato di disabilità sofferto dal lavoratore: si pensi ai casi in cui si trovi a ricevere una serie di certificati che attestano l’accesso ripetuto al pronto soccorso o continui ricoveri ospedalieri; o al caso in cui ne venga a conoscenza informalmente, dai colleghi; o perché riceva dal medico competente una valutazione circa l’idoneità alla mansione specifica con una serie di limitazioni.

Ebbene, quando parte datoriale ha a disposizione tali indizi e si trova di fronte al superamento del periodo di comporto, correttezza e buona fede gli impongono non già di licenziare il lavoratore, ma di confrontarsi preliminarmente con lui per comprendere se le assenze siano conseguenza di un’eventuale patologia sofferta. Le informazioni richieste dal datore di lavoro non potranno essere negate dal lavoratore, in quanto la loro omissione legittimerebbe – qualora fosse superato il comporto – il licenziamento per superamento del comporto.

Dunque, prima di poter procedere al licenziamento il confronto tra le parti rappresenta una fase ineludibile, confronto – e da qui il secondo obbligo posto in capo al datore di lavoro, in questo caso, dalla legge4 – finalizzato all’adozione di “accomodamenti ragionevoli”, per garantire al lavoratore portatore di disabilità una piena eguaglianza con gli altri colleghi ed evitare che la sua disabilità lo pregiudichi nella sua vita lavorativa.

Accomodamenti ragionevoli

Anche in questo caso, i “ragionevoli accomodamenti” delineano una categoria ampia che deve necessariamente essere declinata al caso di specie, considerando la specifica condizione del lavoratore e le possibilità dell’azienda di andare incontro al dipendente. La Convenzione ONU del 13 dicembre del 20065 definisce “accomodamento ragionevole” quell’istituto che individua le misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato.

Così, un ragionevole accomodamento potrà essere considerato la previsione di un più lungo periodo di comporto rispetto a quello previsto per la generalità dei lavoratori o l’esclusione dei giorni di malattia legati alla disabilità dal calcolo del comporto; oppure la fruizione di un’aspettativa, anche non retribuita, nel corso della quale il lavoratore si impegni a rendere nota al datore di lavoro la progressione delle terapie in corso; oppure la concessione di un più ampio ricorso allo smart working o del part-time o del telelavoro.

Conseguenze del mancato adempimento

Il datore di lavoro che non adempia a tali obblighi (quello di preventivo confronto con il lavoratore e l’offerta di ragionevoli accomodamenti) e proceda ugualmente al recesso del dipendente applicando l’ordinario periodo di comporto previsto per tutti i lavoratori sarà soccombente in giudizio e il licenziamento comminato sarà dichiarato nullo, in quanto discriminatorio.

Infatti, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, “in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto previsto per il lavoratore non disabile al lavoratore che si trovi in condizione di disabilità, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo dello stesso periodo di comporto in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione particolare svantaggio”6.

Conclusione

Si comprende quindi come il licenziamento del disabile per eccessiva morbilità non sia certo semplice, ma richieda un’estrema cautela da parte del datore di lavoro, che dovrà entrare nella sfera personale del lavoratore per cercare di azzerare lo svantaggio che gli deriva dall’essere portatore di una patologia. La prova di avere ottemperato al confronto col lavoratore e all’adozione di “accomodamenti ragionevoli” dovrà essere resa in giudizio proprio dal datore di lavoro e dall’assolvimento di tale onere probatorio dipenderà la legittimità del recesso.

  1. Cass. Civ., Sez. Lav. 15/04/2025, n. 9897; in modo conforme Cass. Civ., Sez. Lav. 18/04/2024, n. 10568.
  2. Cass. Civ., sez. Lav., 23/05/2024, n. 14402; Cass. Civ., sez. Lav., Ordinanza, 06/09/2024, n. 24052.
  3. Cass. Civ., sez. Lav., 23/05/2024, n. 14402.
  4. Art. 3, comma 3-bis del D.lgs. n. 216 del 9/7/2003, n. 216 Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e della direttiva n. 2014/54/UE relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori.
  5. Convenzione sui diritti delle persone con disabilità e il suo Protocollo opzionale (A/RES/61/106), ONU 13 dicembre 2006.
  6. Cass. Civ., sez. Lavoro, Ordinanza (data ud. 05/12/2024) 07/01/2025, n. 170.

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