Speciale Convegno – IL PUNTO SUI LICENZIAMENTI ANCHE ALLA LUCE DELLE RECENTISSIME SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Angelo Zambelli, Avvocato in Milano - Hanno collaborato alla redazione l’avvocato Arianna Lucariello e la dott.ssa Giulia Bonadonna,

1. PREMESSA

L’analisi della disciplina della cessazione del rapporto di lavoro non può prescindere da una lettura integrata tra normativa codicistica, evoluzione legislativa e interpretazione giurisprudenziale, tenendo in particolare considerazione i recenti interventi della Corte costituzionale.

Il quadro normativo vigente, lungi dal presentarsi come monolitico, riflette, infatti, una stratificazione di fonti e princìpi, a partire dal 1942 con l’art. 2119 c.c., che prevede l’ipotesi di licenziamento per giusta causa e legittima la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, senza preavviso, laddove intervenga un fatto che non consenta la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto stesso. A tale nozione si è affiancata, ai sensi dell’art. 3, Legge n. 604 del 1966, quella di giustificato motivo, declinata tanto soggettivamente, in termini di grave inadempimento contrattuale del prestatore, quanto oggettivamente, in relazione a esigenze organizzative o produttive del datore di lavoro.

Quanto al regime sanzionatorio applicabile alle aziende c.d. “medio – grandi” (aventi più di 15 dipendenti nella unità produttiva interessata o, alternativamente, più di 60 lavoratori sul territorio nazionale), il sistema italiano di tutela contro i licenziamenti illegittimi – dopo aver introdotto nel 1970 l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che prevedeva la reintegrazione quale unica sanzione tipizzata – ha conosciuto, negli ultimi quindici anni, una significativa evoluzione normativa e giurisprudenziale, caratterizzata da una progressiva tensione tra istanze di semplificazione e di flessibilizzazione del mercato del lavoro, da un lato, e l’esigenza di garantire una protezione effettiva e proporzionata al lavoratore, dall’altro.

La stagione delle riforme, inaugurata dalla Legge n. 92/2012 (c.d. “Legge Fornero”) e culminata nell’adozione del D.lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), ha profondamente inciso sull’assetto tradizionale delineato in precedenza dall’art. 18 St. Lav., ridimensionando l’ambito applicativo della tutela reintegratoria a favore di un sistema fondato, nella generalità dei casi, su rimedi esclusivamente indennitari.

Dal canto suo, il D.lgs. n. 23/2015 ha pure introdotto una netta linea di demarcazione tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, così determinando la coesistenza di due sistemi distinti: da un lato, la disciplina dell’art. 18 St. Lav., come modificato dalla riforma Fornero e, dall’altro, il sistema delle tutele crescenti.

In tale contesto, oltre all’elevato numero di interventi della giurisprudenza di merito e di legittimità, si sono susseguiti – soprattutto in tempi recenti – numerosi provvedimenti correttivi della Corte costituzionale, che hanno messo ulteriormente in discussione l’impianto dogmatico e sistematico voluto dal Legislatore con le due riforme sopra citate.

A ciò aggiungasi che il quadro attuale potrebbe essere nuovamente sovvertito dagli esiti della questione referendaria, che sarà sottoposta al voto popolare nelle giornate dell’8 e 9 giugno prossimo, volta ad abrogare l’intera disciplina del Jobs Act e a ripristinare l’unicità della tutela ex art. 18 St. Lav., a prescindere dalla data di assunzione del lavoratore.

2. GLI INTERVENTI DELLA GIURISPRUDENZA E DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULL’ART. 18 ST. LAV. COME MODIFICATO DALLA RIFORMA FORNERO

Sin dalla sua introduzione nel 2012, la riforma dei licenziamenti non ha mancato di generare perplessità tra gli addetti ai lavori per i suoi numerosi profili di incertezza, contravvenendo alle finalità di rapidità e di prevedibilità delle decisioni che il legislatore si era prefissato di perseguire.

In tale contesto, la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, ha assunto un ruolo di primo piano, risolvendo i numerosi dubbi interpretativi circa l’effettiva portata dell’intervento riformatore: basti pensare alle pronunce in tema di “fatto contestato” ai fini dell’applicazione dell’art. 18, comma 4, St. Lav., che hanno chiarito che per “insussistenza” deve intendersi la carenza del fatto giuridicamente rilevante nella sua interezza, comprensiva non solo della materialità della condotta, ma anche dell’elemento soggettivo e dell’antigiuridicità; o, ancora, alla giurisprudenza sull’onere di repêchage, che ha ulteriormente sottolineato il ruolo attivo del datore di lavoro nell’indagine circa l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in mansioni alternative, anche equivalenti o inferiori, purché compatibili con l’inquadramento e il contesto organizzativo, facendone gravare interamente la relativa prova sul datore, in quanto – in forza del principio di vicinanza della prova – soggetto titolare delle informazioni rilevanti in ordine alla struttura interna e alle possibilità di riallocazione.

Anche il Giudice delle leggi è intervenuto a censurare – con pronunce, tutte, di elevato impatto sociale – l’art. 18 St. Lav., come modificato dalla riforma Fornero.

In particolare, con la sentenza n. 59 del 2021 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, nella parte in cui prevedeva che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare” – invece che “applica altresì” – la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18, e ciò in quanto, secondo la Corte, si rivelava “disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza” il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell’inconsistenza della giustificazione addotta e della presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto.

Più di recente, con sentenza n. 125 del 2022 la Consulta si è pronunciata sull’art. 18, comma 7, secondo periodo, ritenendo incostituzionale anche l’inciso “manifesta” rispetto all’elemento dell’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. E ciò poiché il requisito della “manifesta” insussistenza avrebbe demandato al giudice una valutazione “non sorretta da alcun criterio direttivo, privo di un plausibile fondamento empirico”, portando, così, a incertezze applicative che avrebbero potuto condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento. Dunque, anche nel licenziamento per g.m.o. l’insussistenza del fatto comporta oggi la reintegrazione ex art. 18 St. Lav., sia pure “cappata” a 12 mensilità: soluzione ben lontana dalla spinta (in verità timida) riformatrice della legge Fornero.

3. GLI INTERVENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL JOBS ACT

3.1. L’illegittimità dell’automatismo indennitario e il ritorno al potere valutativo del giudice: le sentenze n. 184 del 2018 e n. 150 del 2020

Anche l’impianto normativo introdotto con il Jobs Act – ben più audace rispetto alla riforma precedente – è stato oggetto di un ampio percorso di “ri-costituzionalizzazione” ad opera della Consulta protrattosi fino a pochi mesi fa.

A soli tre anni dalla sua entrata in vigore, con la sentenza n. 194 del 2018 la Corte costituzionale ha dato una prima ma definitiva “picconata” all’impianto sanzionatorio delineato dal D.lgs. n. 23 del 2015, dichiarando l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, nella parte in cui prevedeva un rigido automatismo nella liquidazione dell’indennità spettante al lavoratore fondato sul solo parametro dell’anzianità di servizio. Secondo la Corte, tale meccanismo di quantificazione non era in grado di assicurare né un ristoro adeguato del pregiudizio subìto dal lavoratore, né una funzione dissuasiva effettiva nei confronti dei datori di lavoro. In altri termini, la previsione di un criterio meramente aritmetico è stata ritenuta inidonea a realizzare un equilibrato bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica del datore e la tutela del lavoratore ingiustamente espulso, essendo, piuttosto, necessaria la valutazione da parte del giudice del lavoro delle circostanze del caso concreto, tenuto conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di ulteriori elementi quali le dimensioni dell’impresa, il numero dei dipendenti occupati, il comportamento delle parti e ogni altro aspetto rilevante al fine di modulare l’indennizzo in maniera equa e congrua. Come dire, tutto l’impianto sanzionatorio basato sulla tabellina del 2 – tratto distintivo della riforma – viene cancellato integralmente.

In linea di continuità con tale pronuncia, poco dopo nel 2020, con la sentenza n. 150, è stato altresì dichiarato incostituzionale l’art. 4 del D.lgs. n. 23/2015 sull’indennità risarcitoria legata ai vizi formali o procedurali del licenziamento, ancorata anch’essa in via esclusiva all’anzianità di servizio, e ritenuta “contrastante con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza e con la tutela del lavoro in tutte le sue forme”: una decisione annunciata, conseguenza coerente della decisione precedente.

3.2. La caducazione dell’avverbio “espressamente” e l’unificazione del regime del licenziamento nullo: la sentenza n. 22 del 2024

Venendo più vicino ai giorni nostri, con la sentenza n. 22 del 2024, la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente sul D.lgs. n. 23/2015 dichiarando, questa volta, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, limitatamente all’avverbio “espressamente”: la previsione subordinava l’applicazione della tutela reintegratoria alle sole ipotesi di licenziamento nullo “espressamente” previste dalla legge, escludendo dunque quelle riconducibili a norme imperative prive di espressa sanzione di nullità. Avverbio tutto sommato infelice, che aveva determinato numerose perplessità tra gli interpreti, senza peraltro aggiungere o determinare chissà quali vantaggi, dovendosi a quel punto applicare stricto iure la disciplina civilistica che non sempre risultava vantaggiosa per le aziende.

La Consulta, ripercorrendo le tappe evolutive della disciplina dei licenziamenti e i criteri interpretativi dell’art. 76 Cost., ha ritenuto che la disposizione censurata eccedesse i limiti della delega legislativa di cui all’art. 1, comma 7, lett. c), della Legge n. 183/2014, introducendo una distinzione non voluta dal legislatore delegante e tale da compromettere l’unitarietà del sistema sanzionatorio.

In altri termini, secondo la Corte costituzionale, l’esclusione delle nullità diverse da quelle espresse – conseguente all’impiego dell’avverbio “espressamente” – non trovava rispondenza nella legge delega che, piuttosto, riconosceva la tutela reintegratoria nei casi di licenziamenti nulli genericamente intesi, senza distinzione alcuna.

3.3. L’estensione della reintegrazione ai licenziamenti economico e disciplinare: le sentenze n. 128 e n. 129 del 2024

Infine, con le pronunce gemelle nn. 128 e 129 del 2024, la Corte costituzionale ha ampliato ulteriormente l’ambito applicativo della tutela reintegratoria prevista dal D.lgs. n. 23/2015, intervenendo rispettivamente sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo e su quello disciplinare. In entrambi i casi, il Giudice delle leggi ha riscontrato un’irragionevole disparità di trattamento, in violazione dei principi costituzionali di uguaglianza, proporzionalità e adeguatezza della tutela.

La sentenza n. 128 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, nella parte in cui escludeva la possibilità di applicare la reintegrazione in caso di accertata insussistenza del fatto materiale posto a fondamento di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte ha valorizzato il principio della necessaria causalità del recesso, chiarendo che la mancanza del presupposto fattuale integra un vizio sostanzialmente analogo a quello che, in ambito disciplinare, giustifica la reintegrazione, con la conseguenza che è escluso che possa esserci – nel caso in cui si accerti che il fatto (oggettivo o soggettivo) non esiste – “una ragione che giustifichi una regola differenziata” per il licenziamento economico e per quello disciplinare, dovendo corrispondere “a una pari gravità del vizio […] un eguale trattamento sanzionatorio”. E in ciò raggiungendo il medesimo risultato già ottenuto con riferimento all’art. 18 Stat. Lav.

La sentenza n. 129, invece, interpretando la norma in maniera costituzionalmente orientata, pur non dichiarandone l’illegittimità costituzionale, ha stabilito il diritto del lavoratore a essere reintegrato nel posto di lavoro nel caso in cui il fatto all’origine del licenziamento, pur disciplinarmente rilevante, sia punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione meramente conservativa, dovendosi questa ipotesi equiparare al caso del fatto materiale insussistente. In questa prospettiva, la Consulta ha richiamato l’autonomia collettiva quale fonte normativa primaria nel sistema delle relazioni industriali, sottolineando che la sua compressione – mediante l’elisione del rilievo vincolante delle sanzioni pattizie – rappresentava una lesione dell’art. 39 Cost.: anche qui, la diversa previsione effettuata espressamente dalla legge Fornero alle fonti collettive è stata dirimente per rendere omogeneo il quadro sanzionatorio di riferimento.

3.4. I licenziamenti collettivi c.d. “economici”: la sentenza n. 7 del 2024

Con la sentenza n. 7 del 2024 la Corte costituzionale si è pronunciata sull’art. 10 del D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui rinvia alle sanzioni di cui all’art. 3, comma 1, in caso di licenziamento collettivo intimato in violazione dei criteri di scelta, per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015.

Secondo la Corte di merito partenopea, che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, tale previsione, oltre a porsi in contrasto con l’art. 76 Cost. in quanto frutto di un presunto eccesso di delega, produce una disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima e dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015.

La Consulta, con la pronuncia in commento, ha respinto tutte le censure prospettate, con una motivazione articolata e sistematicamente fondata. In primo luogo, ha escluso che vi sia stato un travalicamento dei limiti della delega contenuta nella Legge n. 183/2014, osservando che la locuzione “licenziamenti economici”, contenuta all’art. 1, comma 7, lettera c), deve essere interpretata in senso ampio e non tecnico, sì da ricomprendervi anche i licenziamenti collettivi determinati da ragioni di impresa. Di conseguenza, l’estensione del regime sanzionatorio indennitario anche a tali fattispecie è da ritenersi coerente con i criteri direttivi della delega legislativa.

Quanto alla presunta disparità di trattamento tra lavoratori “pre” e “post” Jobs Act, il Giudice delle leggi ha ribadito un orientamento ormai consolidato secondo cui la differenziazione normativa fondata su elementi temporali non contrasta con l’art. 3 Cost. In tale prospettiva, la finalità perseguita dal legislatore, volta a incentivare l’occupazione mediante un regime maggiormente prevedibile e semplificato, risulta idonea a giustificare la diversità di trattamento.

4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

L’evoluzione della disciplina in materia di licenziamenti evidenzia, nel panorama normativo e giurisprudenziale italiano, un costante e complesso confronto tra esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e princìpi di tutela sostanziale del lavoratore. L’attuale quadro normativo, ben lontano dall’essere statico o omogeneo, si configura come un mosaico composito, modellato da interventi legislativi di segno anche contrastante e da un’intensa attività giurisprudenziale – in particolare della Corte costituzionale – che ne ha progressivamente ridisegnato i confini applicativi, in molti casi riportando la disciplina al punto di partenza.

La riforma Fornero ha segnato un primo tentativo di ridimensionamento della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 St. Lav., successivamente completato dal D.lgs. n. 23/2015 con l’introduzione di un sistema sanzionatorio prevalentemente indennitario. Tuttavia, tale impianto è stato in gran parte riformulato dalla giurisprudenza costituzionale, che ha reintrodotto nel sistema delle tutele contro il licenziamento illegittimo elementi strutturali propri dell’impianto previgente, riconsegnando alla reintegrazione un ruolo centrale, quasi esclusivo, salvo ipotesi marginali non previste nel regime dello Statuto dei Lavoratori: mi riferisco principalmente nel Jobs Act alla violazione dell’obbligo di repêchage e alla violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi.

In questo contesto profondamente mutato, la questione referendaria sull’abrogazione del Jobs Act – oggetto della consultazione dell’8 e 9 giugno prossimi – assume contorni meno dirompenti, certamente ideologici, tanto da chiedersi se tale referendum rappresenti uno strumento davvero necessario a rafforzare la protezione dei diritti dei lavoratori o se, al contrario, sia espressione solo simbolica di un’asserita esigenza di giustizia che ha già trovato un’efficace risposta nell’evoluzione giurisprudenziale.


Scarica l'articolo