Speciale Convegno – IL LAVORO CHE CAMBIA: tra complessità fiscale, tutele costituzionali e nuove sfide dell’equità retributiva

A cura della Redazione,

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Il convegno milanese del 13 ottobre 2025 ha tracciato la mappa delle trasformazioni in atto nel diritto del lavoro italiano: dalla rivoluzione fiscale delle auto aziendali alle nuove garanzie per i lavoratori delle piccole imprese, fino alla trasparenza retributiva di genere. Un filo rosso unisce questi temi apparentemente eterogenei: la ricerca di un equilibrio sempre più difficile tra tutela dei diritti, sostenibilità economica per le imprese e adeguamento agli standard europei.

Presso la Sala Orlando dell’Unione del Commercio di Milano, il 13 ottobre 2025 si è svolto un evento formativo che ha radunato professionisti del lavoro, consulenti, avvocati e rappresentanti delle istituzioni per fare il punto su alcune delle più significative trasformazioni normative degli ultimi mesi. Organizzato dall’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano, dalla Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano e da ANCL UP di Milano, il convegno “Il lavoro che cambia: tra fringe benefit, trasparenza retributiva e licenziamenti” ha messo a fuoco le sfide operative che attendono le direzioni del personale e i loro consulenti 1. Dietro la varietà dei temi affrontati emerge un denominatore comune: l’ordinamento giuslavoristico italiano sta attraversando una fase di profonda rielaborazione, caratterizzata da interventi normativi spesso emergenziali, pronunce giurisdizionali dirompenti e pressioni del legislatore europeo. Il risultato è un quadro di una crescente complessità tecnica che impone ai datori di lavoro investimenti significativi in consulenza specialistica, aggiornamento normativo e revisione delle procedure interne.

AUTO AZIENDALI: QUANDO LA TRANSIZIONE ENERGETICA INCONTRA IL CAOS NORMATIVO

Il caso delle auto aziendali rappresenta l’emblema della stratificazione normativa disordinata. Come illustrato da Andrea Asnaghi, Coordinatore del Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano, la Legge di Bilancio 2025 (L. n. 207/2024) ha stravolto un sistema consolidato con una “transizione energetica improvvisata” che ha creato un labirinto di aliquote differenziate. Il nuovo regime fiscale del benefit legato all’uso promiscuo dell’auto aziendale prevede diverse e numerose modalità di tassazione del fringe benefit, determinate dall’incrocio di molteplici variabili: data di immatricolazione del veicolo, data di assegnazione al dipendente, tipologia di alimentazione ed emissioni di CO₂. Le percentuali di tassazione variano drasticamente oscillando tra il 10% per i veicoli elettrici puri e il 20% per gli ibridi plug-in e il 50% per tutte le altre alimentazioni.

Le contromisure per le direzioni HR

Il convegno ha evidenziato alcune strategie di mitigazione di fronte ad un Legislatore che è intervenuto a più riprese e in modo disordinato creando una reale confusione tra gli operatori sempre in bilico tra mille norme e interventi dell’Agenzia delle Entrate:

• Regolamentazione aziendale articolata: diventa quasi indispensabile dotarsi di policy interne che disciplinino termini di utilizzo, condizioni di sicurezza, gestione della manutenzione, modalità di gestione di multe e danni, criteri per la revoca dell’assegnazione.

• Lettere di assegnazione personalizzate: ogni consegna deve essere accompagnata da documentazione che richiami le norme applicabili e i criteri di valorizzazione fiscale.

• Riaddebito al dipendente: se si prevede che il dipendente rimborsi all’azienda il valore fiscale dell’autovettura aziendale, tale rimborso riduce, fino ad azzerarlo, il valore del benefit attribuito al lavoratore. Il rimborso deve essere oggetto di fatturazione; qualora si assuma come riferimento il valore del fringe benefit, occorre ricordare che esso è comprensivo di IVA. I vantaggi della suddetta operazione possono così sintetizzarsi: si applica la piena detraibilità dell’IVA relativa al veicolo; è più semplice determinare il valore da considerare ai fini del TFR e della retribuzione di fatto e si raggiunge una ulteriore utilità anche nei casi in cui sia necessario applicare il valore normale del bene, poiché il rimborso consente di neutralizzare o ridurre gli effetti fiscali e contributivi del benefit.

• Riconversione del parco auto: privilegiare veicoli elettrici o ibridi plug-in per contenere l’impatto fiscale. Il giudizio critico degli operatori è unanime: una norma scritta con finalità ambientaliste ha finito per generare un incubo amministrativo, con oneri sproporzionati rispetto agli obiettivi dichiarati.

LICENZIAMENTI NELLE PICCOLE IMPRESE: LA CONSULTA RIEQUILIBRA LE TUTELE

Sul fronte della tutela dei lavoratori la Corte Costituzionale ha compiuto un intervento caratterizzato da un ampliamento delle garanzie. L’avvocato Laura A. di Nunzio ha illustrato la portata della sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 9 del D.lgs. n. 23/2015. A distanza di tre anni dalla precedente pronuncia (n. 183 del 2022), la Corte Costituzionale è tornata a esaminare la legittimità della norma che disciplina le indennità risarcitorie in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori delle piccole imprese, e questa volta la norma non supera il vaglio di costituzionalità. Al centro dell’attenzione è finito l’articolo 9 del Decreto Legislativo n. 23/2015 che, in origine, prevedeva che le indennità da riconoscere ai dipendenti delle aziende con meno di 15 lavoratori in caso di licenziamento illegittimo – sia per mancanza di giustificazione, sia per vizi procedurali nella contestazione disciplinare – dovessero essere dimezzate rispetto a quelle previste per le imprese di maggiori dimensioni, con un tetto massimo inderogabile di sei mensilità dell’ultima retribuzione utile al calcolo del TFR. La Corte Costituzionale conferma la legittimità del principio del dimezzamento rispetto alle tutele previste per i lavoratori delle grandi aziende, ma dichiara l’illegittimità costituzionale del limite massimo di sei mensilità. In pratica, la tutela indennitaria in caso di licenziamenti illegittimi e l’importo dell’offerta conciliativa per i lavoratori delle piccole imprese saranno determinati dal giudice senza tenere conto del vincolo delle sei mensilità. È auspicabile che il legislatore intervenga sul profilo inciso dalla pronuncia, nel rispetto del principio secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale.

Cosa cambia concretamente

Per i datori di lavoro, le conseguenze operative di questa pronuncia sono immediate e di notevole portata. In primo luogo, si registra un significativo aumento del rischio economico connesso alla gestione dei licenziamenti: un recesso privo di giustificazione può oggi costare all’impresa fino a diciotto mensilità di retribuzione, in base alle valutazioni discrezionali del giudice chiamato a decidere sulla controversia. Tale incremento del rischio rafforza ulteriormente la necessità per le aziende di valutare con maggiore prudenza e responsabilità ogni decisione volta all’interruzione del rapporto di lavoro, ponendo particolare attenzione alla sussistenza dei presupposti giustificativi e al rispetto rigoroso delle procedure previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva. In questo mutato scenario normativo, diventa inoltre opportuno rivalutare le strategie di separazione dal personale, privilegiando, ove possibile, soluzioni consensuali o il ricorso all’offerta conciliativa prevista dalla normativa sulle tutele crescenti, strumenti che si confermano economicamente più vantaggiosi rispetto all’incertezza e ai costi connessi al contenzioso giudiziale.

L’OFFERTA CONCILIATIVA: TECNICISMI CON GRANDI CONSEGUENZE

 Sulla scorta della sentenza n. 118/2025 riferita alle piccole imprese (v. supra), Andrea Asnaghi ha approfondito un tema di estrema rilevanza pratica: il calcolo dell’offerta conciliativa e delle indennità di licenziamento riprendendo un tema già esplorato negli anni scorsi.

Il nodo interpretativo: il calcolo delle mensilità risarcitorie e la nozione di “ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr” nel contratto a tutele crescenti

Come noto, il D.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 ha introdotto nell’ordinamento giuslavoristico la disciplina delle c.d. “Tutele crescenti”, che ha comportato, fra le altre cose, una diversa modalità di quantificazione dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori soggetti al regime delle “tutele crescenti”, ovvero gli assunti (o confermati) dalla data del 7 marzo 2015, nonché i lavoratori già assunti a tempo indeterminato il cui datore di lavoro, dopo tale data, abbia superato il limite dimensionale di cui all’art. 18 L. n. 300/1970, co. 8 e 9. In particolare, con il D.lgs. n. 23/2015 è cambiata la base di calcolo delle mensilità di retribuzione costituenti l’indennità risarcitoria spettante ai lavoratori a tutele crescenti in caso di accertata illegittimità del licenziamento loro intimato. Anziché ad un certo numero di mensilità “dell’ultima retribuzione globale di fatto”, invero, l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore a tutele crescenti è commisurata ad un certo numero di mensilità “dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”. E a tale parametro si fa riferimento costante in tutto il Decreto in argomento. Si tratta, evidentemente, di una scelta precisa del legislatore nella direzione di disancorarsi dalla nozione di “ultima retribuzione globale di fatto”, fonte di notevoli dubbi e contrasti interpretativi (mai del tutto risolti); il nuovo criterio di calcolo introdotto dal decreto in esame ha come base l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, richiama implicitamente l’art. 2120 c.c. Si tratta ora di attribuire all’espressione normativa il significato più corretto, e quindi di identificare la retribuzione “ultima” di riferimento, che farà da base di calcolo alle indennità de quibus ed inoltre rapportarla al termine di mensilità. La necessità di identificare un criterio condiviso per effettuare il calcolo delle predette indennità acquista molteplici valenze – la quantificazione in sé dell’indennità in caso di contenzioso giudiziale; – nell’ambito stragiudiziale, la determinazione dell’offerta di conciliazione utile a determinare: • la validità stessa dell’offerta (di cui comunque resta facoltativa l’accettazione) senza conseguenze di sorta • il corretto limite di esenzione dal punto di vista fiscale dell’importo offerto al lavoratore in tale ambito. Il Centro Studi e Ricerche dell’Ordine di Milano ha proposto, ai fini del calcolo, un metodo innovativo “misto”2 che combina due differenti metodi di calcolo (che presi da soli non sarebbero risolutivi del problema evidenziato). Si ritiene che il metodo proposto sia equo e rispondente in maniera più precisa alla volontà del legislatore – in termini di esattezza, quanto più possibile, della determinazione dell’indennità risarcitoria, ma senza perdere in efficacia. È un calcolo che, per quanto più laborioso di un calcolo immediato, consente tuttavia di attenuare il più possibile le punte di discrepanza più elevate presenti in ciascuno dei due metodi alternativi. Ai fini della valorizzazione della retribuzione utile ai fini del Tfr, per la retribuzione normale (proiettata) si tratterà di prendere la retribuzione di base del lavoratore all’atto del licenziamento (includendo o escludendo gli eventuali elementi che la compongono secondo le previsioni legali /o contrattuali, e quindi arrivando alla, eventualmente diversa, retribuzione base RBT), moltiplicare la stessa per il numero di mensilità in atto in azienda e dividerla per 123 , trovando così la prima parte che compone la nozione ed il calcolo dell’importo richiesto dalla legge. in formula: RBT x m : 12 = RMP (retribuzione mensile di proiezione, ove “m” è il numero di mensilità) Poi si osserverà un periodo di riferimento a ritroso del mese di cessazione del rapporto (ed escluso lo stesso), che si ritiene congruo essere di 12 mesi (essendo il Tfr calcolato su base annua), nel quale si sommeranno tutti gli altri elementi (diversi ovviamente dalla retribuzione base) utili al calcolo del Tfr, sempre in stretto ossequio alla disciplina legale e contrattuale) dividendo l’importo per 12 o per il minor numero dei mesi presi a considerazione (se il rapporto è durato meno). La considerazione su base annuale permette di avere come campo di osservazione il periodo caratteristico in cui si forma la retribuzione, solitamente su base annua, includendovi così con una certa media tutti gli elementi caratteristici che in maniera periodica/ricorrente la compongono. in formula: EUT(M) : M4 = QRM dove EUT è la somma degli elementi utili ai fini del Tfr (con esclusione della retribuzione base), M è il numero di mesi 5 presi ad osservazione (di regola 12, ma potrebbero essere minori se il rapporto è stato di durata inferiore) e QRM è la quota di retribuzione mensile storicizzata. Trovati questi due elementi con i predetti metodi distinti, basterà sommarli per trovare infine l’ultima retribuzione utile di riferimento per il calcolo del Tfr (URT) (contemplata dalla norma in argomento). RMP + QRM = URT In assenza di elementi variabili o significativi nel periodo considerato, si evidenzia che, più semplicemente, RMP = URT.

RETRIBUZIONE MINIMA: L’ITALIA SCEGLIE LA VIA CONTRATTUALE

Riccardo Bellocchio, Responsabile del Centro Ricerche della Fondazione, ha illustrato la Legge n. 144 del 26 settembre 2025, una riforma che ridefinisce l’approccio italiano alla questione salariale.

No al salario minimo legale, sì ai CCNL “maggiormente applicati”

La scelta del legislatore è netta: niente salario minimo per legge, ma rafforzamento sostanziale del ruolo della contrattazione collettiva nazionale. Il nuovo criterio dei CCNL “maggiormente applicati” si basa sul numero effettivo di imprese e lavoratori coinvolti, superando il tradizionale riferimento alle associazioni “comparativamente più rappresentative”. L’approccio italiano si differenzia così dalle pressioni europee (Direttiva 2022/2041/UE sul salario minimo legale), puntando sull’estensione erga omnes dei trattamenti economici previsti dai contratti collettivi più diffusi. Il Governo ha sei mesi dall’entrata in vigore (scadenza aprile 2026) per emanare i decreti attuativi. Il successo dell’operazione dipenderà dalla qualità di questi decreti e dalla capacità del sistema di garantire controlli efficaci (si noti che la normativa in oggetto non si applica al settore pubblico).

I quattro pilastri della riforma

La legge, entrata in vigore il 18 ottobre 2025, persegue – in sintesi – i seguenti obiettivi

1. Trattamenti retributivi equi per garantire ai lavoratori una retribuzione proporzionata e sufficiente

2. Rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva nazionale

3. Incremento della trasparenza nelle dinamiche salariali e contrattuali

4. Contrasto al dumping contrattuale, evasione fiscale e lavoro sommerso

Riflessi operativi

Si tratta di una legge delega; pertanto, per comprenderne l’effettiva portata occorrerà attendere i decreti delegati e le circolari esplicative che ne seguiranno. Tuttavia, alcune considerazioni si possono già sviluppare. La riforma introduce meccanismi operativi volti a garantire effettività e trasparenza al nuovo sistema. Sul fronte della tracciabilità, viene sancita l’obbligatorietà dell’indicazione del codice CCNL applicato in tutti i principali adempimenti amministrativi: dalle trasmissioni telematiche Uniemens verso l’Inps alle comunicazioni obbligatorie di instaurazione, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro, fino alle buste paga consegnate mensilmente ai dipendenti. Tale previsione consente una maggiore verificabilità da parte degli organi di vigilanza e costituisce un deterrente significativo contro l’utilizzo di contratti collettivi “di comodo”. Particolare attenzione viene riservata al settore degli appalti, tradizionalmente caratterizzato da maggiori criticità in termini di rispetto delle tutele contrattuali. Le società appaltatrici e subappaltatrici saranno tenute a riconoscere ai propri lavoratori trattamenti economici complessivi minimi non inferiori a quelli previsti dai CCNL maggiormente applicati nel settore di riferimento. A presidio dell’effetto di tale obbligo, la normativa prevede controlli rafforzati da parte delle stazioni appaltanti, che si vedono così attribuire un ruolo di garanzia nella corretta applicazione degli standard retributivi. Un ulteriore profilo di rilievo riguarda l’estensione delle tutele ai lavoratori attualmente privi di copertura contrattuale collettiva. A questi soggetti, che oggi si trovano in una condizione di maggiore vulnerabilità, verrà applicato il contratto collettivo nazionale della categoria professionale più affine rispetto alle mansioni concretamente svolte. Tale meccanismo di estensione analogica garantisce che anche i lavoratori oggi sprovvisti di riferimenti contrattuali possano beneficiare di una base retributiva minima definita, colmando un vuoto di tutela che caratterizza segmenti non marginali del mercato del lavoro.

TRASPARENZA RETRIBUTIVA DI GENERE: OLTRE L’ADEMPIMENTO

Loredana Salis, Responsabile della Sezione Semplificazione del Centro Studi, ha presentato i contenuti della Direttiva UE 2023/970 sulla trasparenza retributiva, che l’Italia dovrà recepire entro il 7 giugno 2026, e le ricadute sui datori di lavoro. In particolare, la direttiva mira a rafforzare l’applicazione del principio di parità retributiva tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, attraverso la trasparenza salariale e i relativi meccanismi di applicazione, considerato che nell’Unione Europea le donne guadagnano in media il 13% in meno degli uomini per ogni ora lavorata, con un divario pensionistico che raggiunge il 30%.

Gli impatti sulla gestione HR

Il primo strumento fondamentale è l’assessment dei dati retributivi, presentato come punto di partenza imprescindibile. “Non puoi giustificare la meta se non conosci il punto di partenza”. L’analisi deve essere condotta in modo articolato per ciascuna famiglia professionale presente nell’organizzazione. Occorre mappare la retribuzione globale – comprensiva di componenti fisse, variabili, bonus e altre compensazioni – disaggregandola per genere, età, anzianità di servizio e tipologia di orario di lavoro, al fine di rendere visibili eventuali disparità altrimenti non evidenti. È necessario inoltre definire con chiarezza i range retributivi per ogni ruolo, specificando valori minimi e massimi, nonché i livelli medi e mediani effettivamente corrisposti. A tale mappatura deve accompagnarsi l’esplicitazione dei criteri oggettivi che presiedono al posizionamento di ciascun lavoratore all’interno del range di riferimento, superando logiche discrezionali o poco trasparenti. Infine, devono essere formalizzate regole chiare che disciplinino le progressioni economiche, ossia i meccanismi attraverso i quali un lavoratore può accedere a livelli retributivi superiori. La trasparenza su questi aspetti rappresenta un elemento fondamentale non solo per garantire l’equità retributiva, ma anche per alimentare la motivazione del personale. L’assessment consente di calcolare il Gender Pay Gap, individuare differenziali superiori al 5% che richiedono giustificazioni oggettive e confrontare il posizionamento aziendale con i benchmark di mercato. Un focus particolare è stato dedicato alla trasformazione della ricerca del personale. Se oggi gli annunci recitano genericamente “la retribuzione sarà commisurata all’effettivo livello di esperienza”, domani dovranno contenere informazioni ben più precise. In risposta a questa esigenza durante l’intervento sono stati presentati due modelli alternativi per assolvere all’obbligo di trasparenza negli annunci sottolineando come possa essere una valida idea quella di adottare una Policy per la Selezione Inclusiva e Trasparente, che stabilisca criteri chiari, condivisi e non discriminatori per l’intero processo di recruiting. L’intervento ha messo in luce anche una riflessione di carattere culturale da non perdere di vista. “Non è solo una questione di denaro”, è stato evidenziato, “la retribuzione è espressione concreta del vedere, rispettare e dare valore a una persona”. La Direttiva europea si è confermata, dunque, essere non solo un adempimento normativo, ma un’occasione per ripensare le politiche retributive in chiave di equità, trasparenza e valorizzazione del capitale umano. Le aziende che sapranno anticipare questi cambiamenti potranno trasformare un obbligo di legge in un vantaggio competitivo nell’attrarre e trattenere talenti.

IL FILO ROSSO: TRA TUTELE E SOSTENIBILITÀ

Quali riflessioni emergono dal convegno milanese? I temi, come anticipato, apparentemente eterogenei – auto aziendali, licenziamenti, conciliazioni, retribuzione minima, trasparenza di genere – sono accomunati da una tensione crescente tra due esigenze contrapposte. Da un lato, l’evoluzione dell’ordinamento verso maggiori tutele, spinta sia dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 118/2025) sia dalle direttive europee in materia di parità retributiva e salari minimi adeguati: un movimento progressivo che risponde a esigenze di equità sociale e conformità agli standard internazionali. Dall’altro, la crescente complessità gestionale e i costi economici che ricadono sui datori di lavoro, particolarmente gravosi per le piccole e medie imprese, aggravati da una stratificazione normativa spesso disordinata che genera incertezza applicativa e moltiplicazione degli adempimenti. L’analisi complessiva delle normative discusse durante il convegno evidenzia innanzitutto una serie di aspetti positivi che meritano di essere sottolineati. Sul piano delle tutele sostanziali, emerge con chiarezza come la sentenza della Corte Costituzionale abbia riequilibrato le posizioni dei lavoratori delle piccole imprese, mentre la trasparenza retributiva si configura come uno strumento efficace per contrastare le discriminazioni di genere e la valorizzazione dei CCNL “maggiormente applicati” rappresenta un argine concreto contro il dumping contrattuale. Dal punto di vista della gestione aziendale, le novità normative costituiscono anche uno stimolo verso una maggiore qualità nei processi organizzativi. Le aziende si trovano infatti spinte ad adottare procedure più rigorose, a formalizzare policy trasparenti e a implementare sistemi retributivi equi: elementi che, pur richiedendo investimenti nel breve periodo, sono destinati a migliorare il clima aziendale e l’attrattività dell’impresa verso i talenti nel medio-lungo termine. Non va inoltre trascurato il progressivo allineamento dell’Italia agli standard europei, con il recupero di ritardi strutturali particolarmente evidenti in materia di parità di genere e tutele salariali. Accanto a questi aspetti positivi, le normative presentano tuttavia criticità strutturali che non possono essere sottovalutate. La complessità amministrativa che ne deriva appare in molti casi difficilmente sostenibile: la gestione delle auto aziendali con le sue sei diverse casistiche, i calcoli sofisticati richiesti per determinare l’offerta conciliativa e la reportistica di genere impongono alle imprese investimenti significativi in consulenza specialistica e sistemi informativi evoluti, gravando in modo particolare sulle piccole e medie realtà prive di strutture dedicate. Sul piano economico, l’impatto delle riforme si manifesta attraverso un evidente aumento del costo del lavoro: la triplicazione delle indennità di licenziamento nelle piccole imprese, l’incremento significativo nella tassazione dei benefit auto con alimentazioni tradizionali e i possibili adeguamenti retributivi necessari per rispettare i CCNL “maggiormente applicati” rischiano di compromettere la competitività di molte imprese, soprattutto in un contesto economico già caratterizzato da margini ristretti. A queste difficoltà si aggiunge una preoccupante insicurezza giuridica generata da normative spesso scritte in modo frettoloso o poco chiaro – emblematico il caso delle auto aziendali – da interventi correttivi in corso d’opera e da zone grigie interpretative che permangono su aspetti cruciali quale il calcolo della mensilità TFR. Questa instabilità normativa genera inevitabilmente rischio di contenzioso e difficoltà applicative quotidiane per gli operatori. Emerge infine con evidenza una persistente disomogeneità di trattamento che contrasta con l’obiettivo dichiarato di equità: continuano a sussistere disparità tra lavoratori assunti prima e dopo il 2015, tra imprese di diverse dimensioni e tra settori regolati da CCNL differenti, frammentazione che il legislatore sarà chiamato ad affrontare nei prossimi interventi di riforma.

GOVERNARE LA COMPLESSITÀ: PREPARARSI AL CAMBIAMENTO

Il messaggio del convegno milanese è chiaro: il diritto del lavoro italiano sta attraversando una fase di profonda trasformazione, caratterizzata da maggiori tutele per i lavoratori ma anche da crescente complessità gestionale per le imprese. Il quadro che emerge dalle normative analizzate richiede un cambio di paradigma nella gestione del personale, che non può più limitarsi all’ordinaria amministrazione. Diventa innanzitutto imprescindibile un significativo investimento in competenze specialistiche. La consulenza giuslavoristica e fiscale non può più essere considerata un costo accessorio da contenere, ma rappresenta ormai una necessità strategica per i professionisti per evitare errori che potrebbero rivelarsi estremamente costosi: un calcolo sbagliato dell’offerta conciliativa, una gestione opaca delle retribuzioni o una procedura di licenziamento approssimativa possono costare decine di migliaia di euro e danneggiare irrimediabilmente il clima aziendale e mettere in ombra la figura del professionista. È di tutta evidenza che occorre garantire una formazione continua: l’obsolescenza delle competenze si misura ormai in mesi anziché in anni, rendendo indispensabile un piano formativo permanente per il personale amministrativo e le direzioni HR. Parallelamente, la digitalizzazione dei processi assume un ruolo centrale, poiché la gestione manuale di adempimenti caratterizzati da tale complessità risulta impraticabile, rendendo necessari software aggiornati capaci di integrare in modo sinergico payroll, benefit, analytics retributivi e compliance normativa. Sul piano metodologico si impone inoltre un approccio proattivo in luogo di quello tradizionalmente reattivo. Attendere chiarimenti ministeriali definitivi o successivi interventi correttivi del legislatore significa rimanere esposti a rischi significativi: risulta preferibile dotarsi tempestivamente di soluzioni prudenziali, fondate sulle migliori interpretazioni disponibili e sulle prassi consolidate. Acquisisce infine crescente rilevanza la valorizzazione del dialogo sociale: le procedure di valutazione congiunta previste dalla direttiva sulla trasparenza retributiva, il ricorso all’offerta conciliativa e il coinvolgimento attivo dei rappresentanti dei lavoratori si configurano non come meri adempimenti burocratici, ma come opportunità concrete per prevenire il contenzioso e costruire relazioni industriali più mature. Non si tratta di resistere al cambiamento, ma di governarlo. Il tempo per prepararsi non è molto: i decreti attuativi sulla retribuzione minima arriveranno entro aprile 2026, la direttiva sulla trasparenza retributiva va recepita entro giugno 2026, mentre la nuova disciplina delle auto aziendali e la sentenza della Consulta sui licenziamenti producono già effetti immediati. Tutti devono arrivare preparati ai prossimi appuntamenti, datori di lavoro e consulenti del lavoro, per sviluppare approcci strutturati e trasformare obblighi normativi in opportunità competitive: in un mercato del lavoro che cambia, la qualità della consulenza specialistica diventa fattore decisivo per la sopravvivenza e il successo delle imprese.

  1. Le slide presentate al Convegno sono disponibili cliccando qui.
  2.  Orientamento n. 2, Contratto a tutele crescenti: il calcolo delle mensilità risarcitorie e la nozione di “ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, consultabile qui.
  3. Si noti che in ossequio al principio di “mensilità” previsto dalla norma, nelle determinazioni suddette il riferimento va sempre riportato a mese, che a nostro avviso altro non può essere che il rapporto fra la retribuzione individuata in un certo periodo divisa per il numero dei mesi dai quali tale periodo è composto.
  4. Ibid.
  5. Ibid.

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