Le dimissioni, in quanto atto unilaterale recettizio, rappresentano l’espressione della libertà del lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro per propria insindacabile decisione.
Tuttavia, il Legislatore ha ritenuto necessario introdurre delle formalità per ovviare, da un lato, al fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco” e, da altro lato, specialmente in epoca più recente, alle ingiustificate e prolungate assenze al solo fine di ottenere – ove possibile – la NaSpI.
Quanto al primo aspetto, le c.d. “dimissioni telematiche” introdotte dall’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015 sono certamente il risultato dell’evoluzione normativa degli ultimi tempi: già la Legge n. 188/2007 aveva infatti imposto l’utilizzo di specifici moduli predisposti dal Ministero del Lavoro. Solo successivamente la Legge Fornero aveva invece introdotto la procedura di convalida presso la Direzione Territoriale del Lavoro o il Centro per l’impiego o le altre sedi individuate dai CCNL quale condizione sospensiva della loro efficacia, oppure l’alternativa – ma, per certi versi, più “leggera” – procedura di sottoscrizione di dichiarazione in calce alla comunicazione di cessazione.
Le formalità introdotte muovevano quindi dall’esigenza di dare effettività alla decisione del lavoratore, riconoscendone la genuinità e la piena consapevolezza.
Quanto al secondo aspetto, negli ultimi mesi stiamo assistendo ad un dibattito particolarmente acceso sul tema delle c.d. “dimissioni per fatti concludenti” introdotto dal Collegato Lavoro alla Legge di Bilancio 2025 (L. n. 203/2024).
Tema che, ad onore del vero, non è nuovo: si ricordi infatti che, prima della Riforma Fornero, le dimissioni potevano essere rassegnate anche oralmente e che, tramite la procedura di convalida introdotta dalla citata Riforma, il lavoratore avrebbe potuto confermare la propria volontà persino non aderendo all’invito del datore di lavoro (da trasmettersi entro 30 giorni, a pena di inefficacia) per la formalizzazione delle dimissioni medesime o comunque non revocandole entro 7 giorni dall’invito. In sostanza, a fronte di un adempimento datoriale a pena di inefficacia (ossia l’invito alla convalida), il lavoratore avrebbe potuto confermare la propria volontà risolutiva attraverso un comportamento omissivo.
Ebbene, con il Collegato Lavoro, il Legislatore ha probabilmente voluto dare un valore più incisivo al comportamento omissivo del lavoratore, riconoscendo la possibilità di desumere dall’assenza dal posto di lavoro la volontà del lavoratore di risolvere il proprio rapporto di lavoro.
Ai sensi del comma 7-bis dell’art. 26, D.lgs. n. 151/2015, introdotto dall’art. 19, L. n. 203/2024, l’assenza ingiustificata non andrebbe infatti più intesa come grave inadempimento ma come espressione della volontà del lavoratore di recedere dal proprio contratto di lavoro, fatto salvo il caso di gravi motivi che giustifichino l’intervenuta assenza per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro.
In sostanza, il datore di lavoro può oggi agire affinché dall’assenza ingiustificata del lavoratore – protratta per un certo periodo di tempo – possa essere desunta una volontà dismissiva alla quale ricondurre quindi un effetto risolutivo (in deroga quindi alle disposizioni di cui all’art. 26, D.lgs. n. 151/2015 in punto di dimissioni telematiche).
Ne consegue quindi che l’assenza prolungata, non essendo riconducibile ad un provvedimento espulsivo del datore di lavoro (contrariamente al licenziamento per giusta causa nell’ipotesi di avvio di procedimento disciplinare), bensì ad una libera volontà del lavoratore, non consentirebbe nemmeno l’accesso alla indennità NaSpI, come precisato dall’Inps con messaggio n. 639 del 19.2.2025.
In punto di durata dell’assenza ingiustificata, la citata norma ha introdotto il riferimento al “termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato (…) o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni”: decorso tale termine, il datore di lavoro è tenuto a darne comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima.
Con Nota n. 579 del 21.1.2025, l’INL ha tentato di chiarire il proprio ruolo, riconoscendo la propria facoltà – e non obbligo – di avviare le verifiche del caso e determinare quindi l’eventuale inefficacia delle dimissioni, entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione da parte del datore di lavoro.
All’Ispettorato, tuttavia, non è stato riservato alcun potere di ricostituire il rapporto di lavoro in caso di esito negativo dell’accertamento di cui sopra, né tantomeno è previsto un automatismo in tal senso, nemmeno nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non ritenga accoglibili le ragioni del lavoratore (nel caso di accertamento negativo – cfr. nota Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 10.4.2025). Spetterebbe quindi, in linea teorica, al datore di lavoro di valutare i rilievi ispettivi, decidere se reintegrare il lavoratore o attendere l’esito del (probabile o quantomeno possibile) accertamento giudiziale.
Sul tema della durata (15 giorni? diverso termine previsto dal CCNL?) non sono mancati dubbi e perplessità.
Il Legislatore sembrerebbe infatti aver rimesso alle parti sociali la facoltà di determinare il termine temporale entro cui l’assenza ingiustificata può considerarsi significativa a tal punto da giustificare legittimamente la cessazione del rapporto. Il riferimento al termine di 15 giorni andrebbe pertanto interpretato come residuale, applicabile solo in assenza di diversa previsione contenuta nei contratti collettivi nazionali di categoria.
Con la citata nota del 10.4.2025, in risposta ad alcuni quesiti sollevati dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, il Ministero ha ribadito quanto già indicato con circolare n. 6 del 27.3.2025, ovvero che la soglia dei 15 giorni costituisce un limite inderogabile in senso riduttivo.
Tale atteggiamento prudenziale (seppur aperto a futuri ripensamenti laddove “si consolidassero interpretazioni giurisprudenziali difformi” – cfr. nota del 10.4.2025) parrebbe mirare a non compromettere le garanzie minime di difesa del lavoratore, nel rispetto evidentemente del generale principio di inderogabilità in peius.
Peraltro, per non farci mancare nulla (sic!), il Ministero ha aggiunto che, nell’ipotesi in cui il lavoratore comunichi le proprie dimissioni nel periodo tra la comunicazione del datore di lavoro per l’avvio della nuova procedura ex art. 26, comma 7-bis e l’effetto risolutivo di quest’ultima, le dimissioni rassegnate dal lavoratore produrranno gli effetti dal momento del loro perfezionamento. Tuttavia, nell’ipotesi in cui il lavoratore rassegnasse le dimissioni per giusta causa, la sussistenza di quest’ultima dovrebbe essere oggetto di successivo e distinto contraddittorio.
Insomma: se, da un lato, la nuova disposizione normativa sembrerebbe voler responsabilizzare i lavoratori (pena l’impossibilità di accedere alla NaSpI), dall’altro lato sembrerebbe voler indurre i datori di lavoro a ripensarci due volte prima di desumere la volontà del lavoratore, pena la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Citando Voltaire “Un uomo è libero nel momento in cui desidera esserlo” … purché ne dia notizia!