Flessibilità ed autonomia nel rapporto di lavoro subordinato: era questo l’obiettivo della L. n. 81/2017 che ha introdotto nell’ordinamento giuridico la disciplina del c.d. lavoro agile o smart working.
Il lavoro agile è una prestazione effettuata dai lavoratori dipendenti, anche mediante l’ausilio di strumenti tecnologici, sia all’interno dei locali dell’impresa sia al di fuori dei locali della stessa, senza una postazione fissa e senza precisi vincoli di orario.
Prima della recente novella legislativa, esisteva già, nel nostro ordinamento, una forma di lavoro da remoto, il c.d. telelavoro, introdotta con l’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 (che recepisce l’accordo quadro europeo del 16 luglio 2002) in cui la prestazione lavorativa si assumeva regolarmente svolta – mediante l’uso di strumenti telematici – al di fuori dei locali dell’azienda.
Questo istituto, mantenendo intatto il sistema di tutele e controlli, non ha riscosso gran successo e ha subito una interpretazione restrittiva delle proprie potenzialità, che sono state principalmente ricondotte nell’alveo del solo telelavoro domiciliare, quindi espresse nei soli casi di chiara e vantaggiosa compatibilità della lavorazione con lo strumento contrattuale specifico.
Lo smart working, accentuando la contrapposizione tra la dislocazione fisica del lavoratore e la struttura aziendale, rappresenta l’evoluzione giuridico-sociale dell’istituto del telelavoro.
La nuova modalità organizzativa – grazie alle nuove tecnologie – consente infatti al lavoratore di gestire in piena autonomia (tuttavia normata da un accordo inter partes che, per certi versi, può risultare anche più coercitivo e stringente della ordinaria disciplina del telelavoro) il luogo e i tempi di svolgimento della prestazione lavorativa.
Ma ciò che più conta consente a entrambe le parti di “pensare”, anche prima della assunzione, diversamente il lavoro stesso.
Nondimeno, la possibilità di svolgere il lavoro ovunque e in qualsiasi momento – utilizzando la tecnologia portatile – comporta inevitabilmente alcune criticità:
L’art. 18, L. n. 81/2017 individua la ratio delle disposizioni ivi contenute, nell’incremento della competitività attraverso una moderna organizzazione del lavoro che consenta ai lavoratori di conciliare l’attività lavorativa con la vita sociale.
L’utilizzo continuativo delle tecnologie digitali, oltre a compromettere la salute – fisica e mentale – dei lavoratori, i quali possono incorrere più facilmente in patologie quali il techno-stress, la dipendenza tecnologica, il burnout, tende a confondere, anziché conciliare, i tempi della vita professionale e personale degli smartworkers.
L’art. 19, L. n. 81/2017 prevede che “i tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” siano definiti da un accordo tra le parti del contratto di lavoro.
Il problema principale che si pone con riferimento al “diritto alla disconnessione” è quello della sua effettività, ovvero di come assicurarne la concreta applicazione.
Quanto ai poteri di controllo del datore di lavoro, quest’ultimo è materialmente impossibilitato, allorquando la prestazione si svolga al di fuori dai locali dell’azienda, a verificare, ad esempio, il rispetto dell’orario di lavoro.
L’art. 21, L. n. 81/2017 circoscrive inoltre, l’ambito del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali, nei limiti di quanto disposto dall’art. 4, L. n. 300/1970. Tale previsione normativa, al co. 2 esclude l’applicazione delle disposizioni sugli impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo nei luoghi di lavoro, agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa. Ebbene, la rilevanza di questo profilo, porta inevitabilmente ad interrogarsi sulla natura ontologica dei devices utilizzati dagli smartworkers per svolgere l’attività lavorativa, in guisa da poter o meno essere ritenuti strumenti essenziali alla prestazione lavorativa.
Il combinato disposto degli artt. 22-23, L. n. 81/2017, pone in capo al datore di lavoro il duplice onere di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore nonché di tutelare quest’ultimo dai rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali.
Emergono a riguardo dubbi, quantomeno applicativi, stante anche la recente circolare Inail n. 48, in cui viene ribadito l’assunto – in caso di infortunio – della diretta correlazione dell’evento con la prestazione lavorativa.
Orbene, la Legge sul lavoro agile, nulla dispone circa il tempo e il luogo fisico di svolgimento della prestazione lavorativa; pertanto, in caso di evento accidentale con effetto lesivo, sarà arduo stabilire se nel luogo del sinistro il lavoratore si trovi per svolgere la propria attività lavorativa o per altre ragioni scevre di rilievo ai fini dell’indennizzo assicurativo.
Più in generale, per chi è appassionato della materia, l’introduzione del sistema lavoro agile (la cui limitazione alle qualifiche “di concetto” potrebbe, in teoria, essere anch’essa oggetto di futuro superamento) porta con sé un enorme quesito inerente la effettiva attualità della storica dicotomia tra lavoro autonomo e lavoro subordinato.
L’esame comparato del D.lgs. n. 81/2015 (art.2) e della normativa sul lavoro agile evidenzia il mutamento degli ambiti di appartenenza delle due categorie e la contestuale formazione di un territorio ampio (una vera prateria) all’interno del quale sarà possibile comprendere la natura della prestazione solo attraverso un approfondimento caso per caso, quando ci si riuscirà.
Sarà più subordinato un lavoratore agile, libero di lavorare dove vuole, secondo orari propri e tenuto a rispettare specifici targets o un collaboratore cui, ad esempio, si richieda la presenza periodica in azienda e il rispetto di un disciplinare di lavorazione, sebbene in modalità coworking?
E quali gli effetti giudiziari nell’accertamento della mancata regolarizzazione di prestazioni parasubordinate ai confini tra la prima e la seconda categoria?
Di fatto ad oggi, per effetto delle nuove norme in commento, i soli indici generale di eterodirezione ed eterorganizzazione restano stabili a presidio del concetto di subordinazione lavorativa.
Naturalmente il discorso è affascinante perchè porta con sé la necessità per tutti gli operatori giuslavoristici di studiare e definire la reale (enorme) portata della novella 81/2017, quale vettore di un nuovo modo di approcciare e regolamentare il mercato del lavoro che non può essere limitata a una mera modalità di esecuzione della prestazione.
Ad un anno dalla sua entrata in vigore è certamente prematuro tracciare bilanci sugli effetti della introduzione del cd. lavoro agile.
Come noto le nuove norme erano state precedute con largo anticipo da virtuosi esempi di policy aziendale con le quali, in via di fatto, si era sostanzialmente dato inizio a un sostanziale ripensamento del consolidato sistema di conferimento della prestazione di lavoro.
Al nuovo corpus normativo va, tuttavia, dato atto, di aver riacceso un nuovo e, diremmo, frizzante interesse delle parti sociali e degli operatori verso la materia del lavoro a distanza.
Nondimeno residuano ancora troppi quesiti non totalmente evasi in relazione ai punti di criticità che, fisiologicamente, caratterizzano, come ogni altra novella, anche la L. n. 81/2017.
Uno degli elementi che desta maggiore curiosità è la mancanza a tutt’oggi di una significativa giurisprudenza interpretativa dei casi limite, a maggior ragione necessaria quando si verta in tema di sconvolgimento della storica linea di demarcazione subordinazione/autonomia.
Se un errore di valutazione fosse, infatti, a parer nostro, individuabile nell’esame della incidenza della normativa sul cd. “smart working”, esso ricadrebbe nell’individuare nei nuovi istituti e procedure una semplice estensione del tema introdotto dal telelavoro.
Nella sostanza, invece, il lavoro agile, agevolato dalla sostanziale rielaborazione, in senso estensivo, della categoria della subordinazione, viene a costituire uno strumento alla portata di azienda e lavoratore a mezzo del quale può essere ripensato l’intero mercato del lavoro e, a parere di chi scrive, un rapporto più “umano” tra il lavoro stesso e gli altri interessi sociali e familiari, altrettanto necessari al complessivo sviluppo della persona.