Dario Guidi Federzoni si interroga circa la effettiva portata del codice etico aziendale
Il codice etico aziendale può lecitamente obbligare i lavoratori a comunicare le proprie relazioni sentimentali o sessuali con altri colleghi? È l’interrogativo che, con il presente contributo, si pone l’Autore analizzando una recente sentenza del Tribunale di Roma che sembra confliggere con l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori e con la legislazione antidiscriminatoria, sia europea che italiana.
Il codice etico aziendale può lecitamente obbligare i lavoratori a comunicare le proprie relazioni sentimentali o sessuali con altri colleghi? È l’interrogativo che, con il presente contributo, si pone l’Autore analizzando una recente sentenza del Tribunale di Roma che sembra confliggere con l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori e con la legislazione antidiscriminatoria, sia europea che italiana.
LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA 14.3.2023
La sentenza in commento1 ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare di un dipendente che aveva violato l’obbligo di segnalare la relazione sessuale, intrattenuta con una collega addetta alla medesima commessa, previsto dal codice etico aziendale al fine di evitare conflitti di interessi.
Il Tribunale ha considerato tale finalità come “esigenza di garantire l’imparzialità e la trasparenza delle scelte lavorative adottate dai lavoratori, nonché la serenità dell’ambiente lavorativo”. In realtà, dalla motivazione della sentenza si evince che le suddette esigenze aziendali sono state violate non solo dall’omessa comunicazione della relazione ma soprattutto da altre, ben più gravi, condotte che hanno legittimato il licenziamento e cioè l’aver indotto la collega ad abortire e a nascondere al datore la sua gravidanza, nonché alle dimissioni per accettare l’offerta di un’azienda concorrente al fine di non compromettere le possibilità di promozione del lavoratore licenziato. Colpisce che il Tribunale abbia ritenuto marginale che la relazione, durata una manciata di mesi, fosse “meramente sessuale e caratterizzata da sporadici incontri” e che non avesse minimamente inficiato le prestazioni lavorative o i risultati ottenuti dal dipendente e dalla collega (è implicito che i suddetti incontri non fossero avvenuti nel luogo di lavoro né durante l’orario di lavoro).
Ma ci che lascia ancor più dubbiosi2 è che il Tribunale abbia ritenuto di per sé disciplinarmente rilevante, e dirimente ai fini della legittimità del licenziamento, l’obbligo di comunicare la relazione previsto dal codice etico senza prendere in considerazione le molteplici disposizioni comunitarie e di legge a tutela dei lavoratori, in base alle quali si sarebbe potuti giungere a una soluzione opposta ossia l’illegittimità di un tale obbligo di comunicazione e la conseguente irrilevanza disciplinare del suo mancato rispetto. Infatti, l’obbligo di comunicare la relazione intrattenuta con un collega sembra in contrasto con la legislazione che prevede l’irrilevanza dei comportamenti extra lavorativi del dipendente e tutela la sua sfera privata3, nonché con la tutela antidiscriminatoria dei comportamenti personali in materia sessuale. A fronte delle suddette disposizioni di legge, non avrebbe potuto rilevare una prescrizione discordante contenuta nel codice etico aziendale, che ha natura di regolamento aziendale e quindi di fonte unilaterale secondaria.
IL DIVIETO DI INDAGINI PERSONALI
In primo luogo, l’obbligo di comunicare la relazione con un collega sembra contrastare col divieto4 di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, su “dati non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore” tra i quali rientra indubitabilmente la relazione sentimentale o sessuale con un collega. Infatti, l’indagine implica un’attività preordinata alla acquisizione di notizie5.
Nella nozione di indagine vietata dall’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori rientrano, oltre le indagini effettuate da terzi (come nella fattispecie giudicata dal Tribunale di Roma, in cui la relazione era stata comunicata all’azienda da un whistleblower), anche6 gli accertamenti volti ad appurare l’attendibilità di notizie aliunde pervenute7, nonché le verifiche compiute con la collaborazione dell’interessato, quali la proposizione di domande al lavoratore, fatta in base a un apparato informativo ausiliario alla formazione del rapporto8 (come il codice etico) e in generale le richieste di informazioni tramite questionari obbligatori e di referenze su fatti sui quali non è consentito indagare9.
Questo divieto di indagine è assoluto, per la natura indisponibile degli interessi che l’art. 8 intende tutelare, pertanto è irrilevante l’eventuale consenso prestato dal lavoratore10.
La Corte di Cassazione ha più volte applicato i suddetti principi – oltre che per ritenere nulle le previsioni di bandi che obbligavano i partecipanti a dichiarare vincoli di coniugio con amministratori o dipendenti11– alle relazioni sessuali dei dipendenti.
Infatti, ha considerato i dati relativi al sesso “super sensibili”, perché relativi alla “sfera più intima della persona”, e “oggetto di tutela rafforzata”, estesa anche al trattamento dei dati personali, in ragione dei “valori costituzionali (art. 2 e 3 Cost.) posti a loro presidio”12. Di conseguenza, “l’ingerenza del datore di lavoro nelle scelte di vita personale dei dipendenti integrerebbe, di per sé, la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, quale il diritto alla privacy nel luogo di lavoro”13.
In secondo luogo, il licenziamento per ragioni inerenti alle relazioni sessuali del lavoratore deve ritenersi vietato sia dalla legislazione comunitaria che da quella italiana sulle discriminazioni fondate sul sesso, che includono anche quelle relative a comportamenti sessuali dei dipendenti.
LA NORMATIVA ANTIDISCRIMINATORIA DELL’UNIONE EUROPEA
Vanno prima di tutto esaminate le seguenti norme europee sulle discriminazioni per ragioni di sesso:
l’art. 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 del Consiglio d’Europa14 che prevede che “il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso…, nonché ad ogni altra condizione”;
l’art. 6, par. 2, del Trattato UE che stabilisce che l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea, “in quanto principi generali del diritto comunitario”;
l’art. 21, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000 (c.d. “Carta di Nizza”) che vieta “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso… o le tendenze sessuali”;
l’art. 1 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate…” sulle “tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati il principio della parità di trattamento”;
l’art. 9, comma 1, del regolamento UE n. 79 del 2016 (c.d. GDPR) che vieta espressamente il trattamento dei “dati relativi… alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona”.
LA NORMATIVA ANTIDISCRIMINATORIA ITALIANA
Le principali fonti della tutela antidiscriminatoria italiana in materia di relazioni sessuali sono l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, il D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) e il D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità):
1) l’obbligo di comunicare la propria relazione con un collega, e il correlato licenziamento, sono vietati dall’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, che stabilisce che “è nullo qualsiasi… atto diretto a.… licenziare un lavoratore, discriminarlo… nei provvedimenti disciplinari” (comma 1) “ai fini di discriminazione… di sesso, o basata sull’orientamento sessuale…” (comma 2). È pacifico che nell’art. 15 l’elencazione dei fattori discriminatori è meramente esemplificativa15.
Il divieto di discriminazione è formulato in termini assoluti, nel senso che non possono essere derogati da alcuna esigenza aziendale, per quanto grave e comprovata16, a differenza di quanto previsto dalla normativa europea prima esaminata (cfr. art. 4, par. 1, direttiva n. 78/2000). Cio’ appare coerente con la facoltà lasciata agli Stati membri dall’art. 8, par. 1, della direttiva 78/2000 di “introdurre o mantenere, per quanto riguarda la parità di trattamento” (nel senso chiarito dall’art. 2, par. 1), “disposizioni più favorevoli”. 2) in recepimento della direttiva europea 78/2000 è stato emanato il D.lgs. n. 216/2003 che, delle corrispondenti norme della direttiva, replica: all’art. 2, commi 1 e 2, l’accezione della parità di trattamento come “assenza di qualsiasi discriminazione”, i motivi discriminatori (l’unica differenza è la sostituzione di “tendenze sessuali” con “orientamento sessuale”) e le nozioni di discriminazione diretta e indiretta di cui all’art. 2, par. 2, della direttiva; all’art. 2, comma 3, la considerazione come discriminazione dei “comportamenti indesiderati”, posti in essere per uno degli elencati motivi discriminatori, “aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”, di cui all’art. 3, par. 3, della direttiva; all’art. 3, co. 3, lett. b), l’applicabilità del principio di non discriminazione a tutte le persone, con specifico riferimento all’occupazione e alle “condizioni di licenziamento”, di cui all’art. 3, par. 1, lett. c) della direttiva.
Con maggiore incisività rispetto alle corrispondenti norme della direttiva, il decreto stabilisce:
all’art. 3, comma 3, che “nel rispetto dei principi di parità di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse… all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”;
all’art. 3, comma 6, che “non costituiscono… atti di discriminazione… quelle differenze che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.”
3) il D.lgs. n. 198/2006 stabilisce espressamente all’art. 26, comma 3: “gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai commi 1, 2 e 2 bis sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti indesiderati.”
INCOMPRIMIBILITÀ DEL DIRITTO ALLA PRIVATEZZA DELLA VITA SESSUALE
Dalle normative sopra esaminate si evince che la protezione antidiscriminatoria, assicurata dalla direttiva 78/2000 e dal D.lgs. n. 213/2003, “non riguarda solo la mera preferenza sessuale, ma si estende pure ai relativi comportamenti del lavoratore, in quanto connessa “con l’elemento della vita sessuale”17 e con il divieto del trattamento dei “dati relativi alla vita sessuale della persona” stabilito dall’art. 9, comma 1, del GDPR.
La ricerca, nel caso concreto, del bilanciamento tra gli interessi aziendali e il diritto alla privatezza dei lavoratori va effettuata in tre fasi:
“la verifica di idoneità, intesa ad accertare l’esistenza di un nesso di strumentalità attitudinale del mezzo rispetto al fine”;
“il controllo di necessità, conosciuto anche come regola del mezzo più mite”;
“la comparazione vera e propria “tra beni, valori e interessi coinvolti nella scelta legislativa”18.
Come rilevato dalla dottrina più attenta, “non è tuttavia detto che la logica della comprimibilità del diritto fondamentale sia universalmente applicabile: in taluni casi… il bene non tollera limitazioni di sorta, pena il suo venir meno; e quindi è il diritto fondamentale nella sua integrità a dover conseguentemente prevalere”19. Alla luce dei suddetti rilievi appare corretto ritenere che il diritto del lavoratore alla privatezza dei propri rapporti sessuali non sia comprimibile e quindi non possa venir meno nel caso in esame, tanto più per effetto di un regolamento aziendale, qual è il codice etico.
CONCLUSIONI
Si tratta di trarre le fila di un’interpretazione complessiva e sistematica delle disposizioni esaminate, tenendo conto della giurisprudenza in materia.
Appare corretto ritenere che l’obbligo di comunicare la relazione intrattenuta con un collega, e il correlato licenziamento, siano vietati e discriminatori per le seguenti ragioni:
l’obbligo di comunicazione viola il divieto, di carattere assoluto, stabilito dall’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori e dagli artt. 10 e 13 del D.lgs. n. 276/2003, di effettuare indagini su “dati non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”, tra i quali rientra certamente la relazione sentimentale o sessuale con un collega;
l’obbligo di comunicazione e il correlato licenziamento violano il divieto, anch’esso assoluto, di discriminare il lavoratore per i suoi comportamenti sessuali stabilito dall’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori;
i divieti sub 1) e 2) sono assoluti, nel senso che non possono essere derogati da alcuna esigenza aziendale, per quanto grave e comprovata; cio’ appare coerente con la facoltà lasciata agli Stati membri dall’art. 8, par. 1, della direttiva 78/2000, di “introdurre o mantenere” disposizioni antidiscriminatorie “più favorevoli” ai lavoratori;
gli atti sub 2) costituiscono anche discriminazioni basate su comportamenti sessuali, vietate dalla legislazione dell’Unione Europea e dalle citate disposizioni della legge italiana applicative della direttiva n. 78/2000;
l’art. 16 della direttiva n. 78/2000 impone specificamente agli Stati membri di prendere le misure necessarie per rendere “nulle e prive di effetto” tutte le disposizioni contrarie al principio di non discriminazione contenute nei regolamenti aziendali. Come affermato da Cass., 5 aprile 2016 n. 6575, “La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente da norme di diritto interno italiano… nonché di diritto europeo, sicché… non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria puo’ essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, di per sé legittima”.