“Vado al massimo, vado a gonfie vele”. Così cantava un quasi giovane Vasco Rossi nel 1982 a Sanremo. Evidentemente quando non si pensa al top ma ci si preoccupa del minimo, forse di gonfie vele non se ne vedono poi così tante. Purtroppo.
Oggi il dibattito sul salario minimo infiamma, con toni da tifosi del wrestling da una parte e dall’altra, ma la sensazione è che buona parte dei discorsi non siano seri, non tanto nelle intenzioni (ci mancherebbe, non ci permetteremmo mai) ma come metodo. Si va per slogan, per tentativi, per emozioni, si sbandierano numeri che sembrano messi lì a perorare la propria causa, ma si sa che i numeri a seconda di come li guardi danno ragione a chi sostiene una tesi e a chi dice il contrario.
Ora la questione è stata congelata per due mesi; è un periodo di tempo utile a schiarirsi le idee, forse verrebbe maliziosamente da pensare che qualcuno speri che intanto sorgeranno altri temi di interesse.
Proviamo invece a non perdere la concentrazione e a riflettere su alcune questioni, con la solita seria leggerezza.
IL CALCOLO DI RAFFRONTO
Chiedendo scusa per la domanda molto tecnica, ma se proprio volessimo fare un confronto (fra Ccnl ad esempio), potremmo chiederci come calcolare questa benedetta paga minima oraria. Il problema non è da poco, soprattutto perché la maggior parte dei contratti collettivi ragionano su una paga mensilizzata, qualcuno ha un divisore orario che è stato contrattualizzato un tanto al chilo e, soprattutto, ci sono trattamenti che si dipanano per tutto l’anno e di cui è difficile dare una valutazione in termini orari. D’altronde, mica ce la si puo’ cavare con qualche frasetta ambigua (tipo: “indennità contrattuali fisse e continuative”, che se mettete insieme 100 bravi consulenti del lavoro non sanno cosa voglia dire in termini concreti – e peraltro chi lo propone lo sa ancor meno) o addirittura confondendo lordo con netto come se fossero termini fungibili, mentre sono parecchio distanti. Ovviamente non ha alcun senso parlare di netto, viste le variabili fisco-previdenziali in cui si incappa, ma questo – tranne qualche sprovveduto- lo capiscono quasi tutti.
C’è chi propone di inserire nel computo due scatti (ma non si capisce perché per arrivare al salario minimo un lavoratore dovrebbe aspettare 4, o talvolta 6, anni); c’è chi propone di inserirvi il TFR, ma anche in tal caso si prende una posta che ha una funzione previdenziale per dargli una veste retributiva (e pure questo non è tanto bello).
Volendo fissare un termine abbastanza fermo, per fare una valutazione trasversale fra Ccnl si potrebbe ragionare sulla seguente formula (abbastanza semplice da calcolare – le variabili devono esser poche e di facile recupero)
M x m
[(52x H)-Fs-Fe-P]
Ove M è la retribuzione mensile dell’ultimo livello di un Ccnl e m è il numero di mensilità (di solito 13 o 14) previste dal contratto, H è l’orario settimanale previsto dal Ccnl e Fs, Fe e P sono rispettivamente le ore di festività, ferie e permessi retribuiti fissi stabiliti dal contratto per il livello e l’anzianità di ingresso del lavoratore (per i non addetti ai lavori, si tratta di dividere la retribuzione teorica annua per il numero delle ore effettivamente lavorabili previste da ciascun contratto). Mettendo con questa formula a confronto molti Ccnl si avrebbe un lordo orario superiore ai 9 euro. Ma non è questo il punto. Il punto è che qualsiasi sia la base minima che si vuole fissare (8, 9 o 10 euro, lordi mi raccomando) va individuato lo strumento che faccia da efficace e concreto termine di paragone fra i vari contratti (o trattamenti, in assenza di contratto).
E poi, ogni tanto, bisognerebbe ricordarsi di rivalutare il minimo stabilito (non fare come gli importi dell’art. 51 TUIR, che sono disperatamente fermi a 25 anni fa).
UN NUCLEO DI DIRITTI
Essendo il computo precedente abbastanza “asciutto” (che per è il suo vantaggio, quello di avere pochi parametri ma cruciali), insieme ad esso si potrebbe individuare una serie di diritti minimi: un certo numero di ferie annuali, un divisore orario congruo, una maggiorazione minima per lavoro straordinario, un trattamento minimo in caso di malattia, infortunio, (e relativi periodi di comporto), un’indennità minima di trasferta etc.. Perché fare tutto questo? Semplicemente per assicurare condizioni minime di lavoro uniformi. Non sarebbe male ripensare in chiave di questa uniformità anche le forme di previdenza ed assistenza obbligatorie per legge: ad esempio, perché qualcuno è coperto per malattie e infortuni e qualcun altro no?
I CONTRATTI COLLETTIVI
Qualcuno pensa che l’introduzione di un salario minimo (e quindi, lo pensa anche per stabilire un nucleo minimo di diritti?) comprimerebbe l’autonomia delle parti sociali nella contrattazione. Tuttavia, al contrario, senza modificare la propensione allo stimolo (che deve restare) verso il riferimento alla contrattazione di maggiore rappresentatività, si tratterebbe unicamente di individuare una linea sotto la quale chi ci va sta risparmiando (e fa male) sulle risorse umane.
Certo, il nucleo di tutele individuate (salario minimo orario compreso) deve essere fissato in modo equilibrato; una volta individuato, per , proposte che vedrebbero l’incentivazione fiscale dei contratti emergenti dalle paludi del “sottobosco retributivo” appaiono senza pudore. Piuttosto si potrebbero promuovere fiscalmente forme di welfare vero (“vero” nel senso che il reale vantaggio non stia nei fornitori di welfare ma nelle provvidenze che arrivano alle persone) magari partendo dalle attenzioni ai redditi economicamente più deboli ed evitando fughe in avanti verso trattamenti de luxe a chi non ne avrebbe effettivamente chissà quale bisogno. Fissati i paletti minimi, anzi, ecco che la creatività della contrattazione collettiva (compresa quella di secondo livello ed aziendale) avrebbe maggiori possibilità di promozione sociale. E magari anche l’iniziativa individuale, chè nelle piccole aziende funziona senza interventi posticci di qualche sindacalista raccattato per strada (e magari pure “retribuito” per questo). Insomma lo scopo vero sarebbe tagliar fuori il mercato dei furbi, di qualunque genere e profilo, non di competere con la contrattazione seria e i trattamenti adeguati.
IL LAVORO AUTONOMO, I CONTRATTI SPURI, LE ESTERNALIZZAZIONI, IL DUMPING
Parlando di furbi, tuttavia, come non ricordare la pletora di sistemi e sistemini oggi presenti sul mercato del lavoro, con cui si cerca di evadere ed eludere (non usiamo il termine risparmiare, che ha un’accezione positiva, perché risparmiare sulla pelle di chi lavora è fondamentalmente rubare) oneri e tutele. Quanto lavoro autonomo è veramente tale? Perché non eliminare contratti “falsi autonomi” con un’azione che coniuga semplificazione a legalità? Come funziona (e come si contrasta) il dumping, interno ed esterno? Quali tutele per i lavoratori esternalizzati (guarda caso i contratti collettivi al ribasso prosperano in certe filiere)? Come si intercetta un’illegalità diffusa che non viene toccata dalla contrattazione collettiva e dal salario minimo, perché lì le tutele vengono proprio saltate a piè pari? Come si smascherano le false cooperative, le false onlus, i falsi contratti di rete e tutti gli orpelli messi in atto da geni del male (se professionisti, veri e propri traditori della deontologia)?
Anche apprezzando, per i motivi esposti sopra, l’idea di un salario minimo (ragionato), senza un ribaltamento di alcune tendenze borderline – se non del tutto illegali – dell’attuale mercato del lavoro non si arriva da nessuna parte. C’è chi avverte – e non va troppo lontano dal vero – su possibili derive di fuga rispetto ad un aumento del costo del lavoro (ci sono adesso, non ci saranno dopo?). Senza un’azione di promozione della legalità e di contrasto efficace ai fenomeni elusivi il problema esce dalla porta per rientrare (di soppiatto, che è anche peggio) dalla finestra. Qualcuno parla di rivalutare il 603/bis c.p. ampliando il concetto di sfruttamento, qualcuno di collegarlo più energicamente con la responsabilità di impresa ed i modelli organizzativi ex D.lgs. n. 231/01. Che fare impresa abbia un orizzonte etico e debba rispettare e promuovere equità ci sembra quasi ovvio, ben vengano per obblighi e controlli, magari anche preventivi, a rafforzare il concetto finchè diventi cultura acquisita. Sul lavoro autonomo, poi, alcune proposte oggi in campo vorrebbero utilizzare il salario minimo orario o il corrispettivo della retribuzione di pari livello dei contratti più rappresentativi (quali siano, forse un giorno qualcuno ce lo dirà) come trattamento minimo del lavoro autonomo. Ma la proposta è sostanzialmente irreale. Per quale motivo un effettivo (e non sfruttato) lavoratore autonomo dovrebbe accontentarsi del medesimo trattamento di un dipendente, non avendo le stesse tutele (anzi, non avendole del tutto…) ed avendo a suo carico l’alea del rischio e quasi sempre l’intero onere previdenziale? Sembra un ribasso nel rialzo, una foglia di fico per non affrontare il vero problema di ci che autonomo non è, ma si continua a trattarlo come tale.
LA QUESTIONE ECONOMICA
Sullo sfondo, nemmeno a dirlo, c’è sempre la questione economica. Arrivare ad un’economia sostenibile vuol dire rispettare le risorse che si impiegano; abbiamo attenzione crescente per l’ambente, vogliamo trascurare le risorse umane (cioè le persone)? L’obiezione che un aumento delle retribuzioni possa aumentare alcuni prezzi complessivi e avere effetti negativi sul costo della vita puo’ avere qualche senso, ma stiamo parlando di retribuzioni infime e non dignitose. Perché non tornare allora alla schiavitù (sicuramente molto conveniente e senza rischi di innescare fenomeni inflattivi)? Dobbiamo piuttosto chiederci, in effetti, se tutto ci che oggi è spreco, superfluo, posticcio, inutile non debba lasciar spazio a modelli di sviluppo e di consumo più responsabili. Un avere meno che è un avere meglio, dove il “meglio” passa anche per la condivisione e la solidarietà. È un concetto troppo grande per poter esser affrontato in poche righe, tuttavia una riflessione sistemica, finanche sui modelli di vita e comportamento, va fatta. Ed è quello che riguarda anche temi precedenti che con il trattamento minimo potrebbero sembrare non aver parentele. Senza una visione ecologica (nel senso di olistica), almeno in prospettiva, l’idea di un salario minimo, per quanto apprezzabile, rischierebbe di essere solo un tassello spaiato con contraccolpi di vario effetto, la solita bandierina di conquista ideologica dove tutto cambia perché tutto resti come prima (se non peggiore). Come ogni azione che vuol essere davvero efficace, per dirla con altre parole, il salario minimo va situato ed accompagnato. Sullo sfondo una Europa che deve fare propria questa riflessione sui modelli culturali e di scelta, e sulla loro condivisibilità in un territorio che vede profonde differenze; è necessario, se vogliamo essere costruttori di cattedrali, che non siano … ridicole e pretenziose cattedrali nel deserto.
Abbiamo offerto qualche concetto senza particolari pretese di esaustività, come spunti di riflessione.
Intanto il dibattito sul salario minimo continua ed appassiona le piazze (anche televisive), speriamo che un’esigenza di equità e legalità sociale non duri solo fino alla prossima trovata emozional-elettorale (vuoi vedere che forse di chi non va a gonfie vele non è che gliene freghi poi molto a tanti?).
Vedremo. Anzi, usiamo la stessa canzone anche per chiudere: “Voglio proprio vedere, sì voglio proprio vedere come va a finire”.