Senza Filtro – THE WASTE LAND(INI)

Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono “ da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole. E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo, l’arida pietra nessun suono d’acqua.

(T.S. Eliot, La terra desolata)

Gli incidenti sul lavoro, mortali o meno che siano, sono una iattura che dovremmo tutti insieme combattere, ciascuno per il proprio ruolo e per la propria parte. Arrenderci al concetto di fatalità inevitabile, per quanto sia insito nell’esercizio di ogni attività un minimo di rischio, è quanto di più sbagliato si possa fare. Non parliamo poi del concetto di “tragedia annunciata” (ogni volta che lo sento balzo sulla sedia): se davvero fosse annunciata, dove sono mai state erette le sacrosante barricate perché la tragedia non succedesse? Questa seconda domanda va rivolta un po’ a tutti, lasciare al caso o alla fortuna (o ai “speriamo che non succeda”) non ha alcun senso, ognuno vive una responsabilità per quel che vede e per quel che sa, per quel che fa e per quel che omette. L’immagine che lasciano certi gravi infortuni è pertanto quella di una terra davvero desolata, senza speranza e con tanto dolore, incredulità, rabbia, una specie di Vajont a piccole rate. È pertanto un argomento su cui qualsiasi intervento sollecita il mio interesse. E quindi non mi sono nemmeno perso l’uscita di qualche giorno fa del segretario Cgil, Maurizio Landini, sul tema patente a crediti. Non so voi, ma personalmente quando parla Landini io lo ascolto sempre con curiosità e attenzione, per quel che dice e anche quello che non dice (è sicuramente intelligente ma è altrettanto un politico, non esattamente nel senso migliore del termine, e questo spesso incide anche su ciò che dice). E la prima cosa che noto è che è quasi sempre molto critico, ma con fortune alterne: se qualcosa va male (qualsiasi cosa, indistintamente: dalla crisi economica al fatto che le stagioni non son più quelle di una volta, dalle piogge copiose all’assenza dal gol di Leao) la colpa è sempre e comunque dei padroni (noi diremmo delle imprese) con la variante, però, che se il governo non è di quelli che sconfinferano a Landini, in tal caso la colpa è dei padroni e del Governo. E sì che Landini era anche partito bene, cioè con qualcosa che personalmente mi sentirei pure di condividere: la patente a crediti, per il nostro, è un adempimento burocratico che non serve assolutamente a prevenire gli incidenti sul lavoro. Mannaggia, ho pensato subito, qui il “Che de noantri” non ha tutti i torti, è una norma così contorta che sembra quasi scritta da qualcuno dei suoi amici (è una con divisa sensazione che su certe tornate legislative del passato “manine” interne al Ministero e vicine a Landini ci abbiano messo del loro). Una dimostrazione di ciò è che su un aspetto (il famigerato DURF) la norma si attacca ad un art. 17/bis del D.lgs. n. 241/1997 che è quanto di più emblematico possa essere prodotto. Però, Landini, se qualcuno volesse sostenere che la norma frena gli incidenti sul lavoro, Lei avrebbe anche ragione: chi affermasse ciò avrebbe perso il senso della realtà, quantomeno perché il freno a tale piaga non può che venire – è ovvio – da uno sforzo insieme culturale (da parte di tutti) e di controllo maggiore. Ecco, su questo (il controllo) la patente a crediti è un primo, quanto pure infelice e burocratico (come Lei afferma, non senza qualche ragione), tentativo. Si può, facendo, sbagliare; di sicuro con i proclami (muscolari o trionfalistici che siano) e le manifestazioni di piazza ci si fa molta pubblicità ma non si va lontano. Sotto questo profilo, ancora una volta le Sue critiche, Landini, mi ricordano quella storiella del corvo che dice al merlo “come sei nero”: da parti opposte, atteggiamenti molto più simili di quanto non sembri. Ma qui arrivano le inesattezze e le sparate (mi perdoni, volevo usare i termini più neutri possibili). La prima: “Siamo di fronte al fatto che è sufficiente che un’azienda compri un’autocertificazione per autocertificarsi che è a posto e per un po’ di tempo ha risolto i suoi problemi”. Io vorrei chiedere, se le parole hanno un senso, come diamine si fa a comprarsi un’autocertificazione? Cioè, qualcosa che uno attesta sotto la propria responsabilità civile e penale, come può essere comprata? Questa idea dei “padroni” (qui almeno definiti più civilmente aziende) che la fanno sempre franca con quattro euro fa parte di una vetero-letteratura che ormai infiamma ancora solo qualche animo romantico-nostalgico. Anche qui, abbassate le spesse lenti dell’ideologia, c’è una mezza verità, se volessimo salvare il salvabile: e cioè che le norme burocratiche e complesse ammazzano per lo più le imprese sane (che si dannano l’anima per seguirle) e molto meno i farabutti, che specie davanti a leggi farraginose qualche scappatoia la trovano sempre. E quindi bisogna distinguere bene: ci sono aziende serie e aziende meno serie, così come ci sono sindacalisti intelligenti ed altri che lasciamo perdere. Ma il culmine del Landini-pensiero vien raggiunto con la frase seguente: “Forse [la patente a crediti] potrà far fare soldi a qualche consulente del lavoro che consiglia le imprese a comprare questa certificazione”. Ecco, qui qualche precisazione è doverosa. Innanzitutto non si compra nulla, se non si fosse già capito, ma tanto a buttarla in caciara qualche tessera la si raccatta sempre. Secondariamente, da consulente del lavoro che parla con molti altri colleghi, questa norma, per la sua indeterminatezza ed improvvisazione, venuta (tra l’altro) a ridosso di altri importanti appuntamenti (il concordato fiscale, le dichiarazioni fiscali, il mod. 770) non è stata salutata dal popolo professionale con chissà quale euforia; anzi … Perché in fondo i consulenti del lavoro vendono non servizi ma competenze e legalità. E proprio per questo motivo, con molta solerzia e talvolta anche con un pizzico di dabbenaggine, alla comparsa dell’ennesimo adempimento, si informano (a fatica e rubando sonno e tempi a cose care) e lo valorizzano per quanto possono, che comunque un ripasso di quattro fondamentali ha portato qualcuno a riflettere. Terzo, i consulenti del lavoro fanno volentieri a meno di fatturare cose burocratiche, sarebbero molto contenti di avere più tempo per aiutare le imprese a crescere. E infatti, per quanto riguarda gli infortuni, i consulenti del lavoro pur non avendo alcun potere (che invece la Cgil ha: ha gli RSURLS, è nelle commissioni che da 16 anni dovevano fare la norma – ancora silente – sulla qualificazione delle imprese, è parte sociale interpellata a proposito e a sproposito da tutti i governi, è negli Enti paritetici) per promuovere la sicurezza ed i suoi adempimenti presso i datori di lavoro ci mettono il loro quotidiano e sacrosanto impegno. E quando succedono gli incidenti, li prendono a monito (non solo gli incidenti, anche i nearmiss, che ciò che non è successo oggi può succedere domani) invece di andare in piazza a sbandierare e proclamare lasciando che il giorno dopo tutto torni come prima, fino alla prossima disgrazia. Né, per dire, i consulenti del lavoro hanno mai fatto della sicurezza una leva di scambio per la contrattazione economica. Perché amiamo i fatti, non la caciara. Perché amiamo le terre fertili e piene di buoni frutti e non le lande desolate sulla cui disperazione costruire improbabili e precarie fortune. Perché, semplicemente, i consulenti non vivono di parole e manifestazioni: e allora prima di aprire la bocca per parlarne a sproposito sarebbe consigliabile un pensiero in più (e, forse, un collutorio).


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