Senza Filtro – TANTO POI C’È IL RICORSO?!
Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)
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L’apertura di un pezzo è sempre importante, dà una particolare cadenza a ciò che seguirà. Come iniziare, dunque? “Uno spettro si aggira per l’Europa”? No, non parliamo dell’Europa ma di un suo pezzettino, l’Italia bella nostra. E poi io non sono Carlo Marx. “C’è del marcio in Danimarca”? Ancora una volta, dobbiamo soffermarci sul Bel Paese (e comunque tantomeno sono Shakespeare). Stavo per rinunciare all’incipit da citazione letteraria, quanto mi ricordai del seguente, che mi sembrò adatto allo scopo. “Josef K. doveva essere stato oggetto di una calunnia, perché una mattina, senza aver fatto nulla di male, fu arrestato” (Kafka- Il processo). Pensavo allo spettro perché quanto sto per condividere con voi turba spesso i nostri giorni lavorativi, con una frequenza sempre più impressionante, come un vero e proprio fantasma persecutorio, un cauchemar, un disturbo persistente ed inquietante.
Pensavo anche al marcio perché, pur senza alludere ad alcun tipo di corruttela, sicuramente c’è qualcosa che non va, che si è guastato e ha un cattivo sentore. Ma è la situazione kafkiana per eccellenza quella che riesce meglio a rappresentare lo sconforto, l’impotenza, il senso di inutilità che si avverte quando ci si trova di fronte alle risultanze di certe ispezioni o accertamenti. Intendiamoci, io sto per principio dalla parte degli ispettori, li considero una risorsa, vorrei vivere in un paese così serio che l’intercettazione dell’illegalità fosse pronta e tempestiva, concreta ed efficace, mirata e puntuale (e non, come accade talvolta, rabberciata e pecoreccia). Infatti, mi imbatto sempre più spesso in accertamenti che non accertano, ma ipotizzano, vanno a sensazione, non motivano, fanno trattati teorici astratti, inutili e distanti dalla realtà osservata, vagolano per assiomi, tirano conclusioni affrettate (siccome ho appena dichiarato la mia simpatia per gli ispettori, con “conclusioni affrettate” ho voluto cercare il vocabolo più gentile possibile, ma confesso che istintivamente si sono affacciate alla mente ben altre definizioni). I casi sono tanti, ognuno ne avrebbe mille da raccontare: dalla trasferta non creduta (anche se documentata) al part-time verticale scambiato per orizzontale, dall’assenza non retribuita per motivi anche seri (“ma noi i contributi li vogliamo lo stesso”) a livelli contrattuali maggiori ipotizzati a casaccio, magari solo con un veloce – e non di rado anche un po’ imbeccato – dialogo con un dipendente (definito farisaicamente “dichiarazione spontanea”). Quello che manca, in particolare, non è solo un accertamento scrupoloso (ove “scrupoloso” non vuol dire acquisire dati a sostegno della propria tesi precostituita, ignorando scientemente gli altri), ma anche un momento di confronto, con l’azienda e con il professionista.
Certo, ci può stare – è capitato e capiterà ancora – che alla fine di un percorso ci siano posizioni differenti, ma queste sono tollerabili dopo un serio esame e un confronto, non con conclusioni sparate un po’ a casaccio e sorde a qualsiasi sollecitazione o dimostrazione. Naturalmente – allarghiamo il raggio di azione – questo problema non riguarda solo il tema “ispezioni” ma in genere tutte le attività di accertamento, anche d’ufficio, poste in essere dalla Pubblica Amministrazione. Che risponde, la P.A., a principi sacrosanti e meravigliosi. Sono tante le citazioni che potremmo fare. Prendiamo ad esempio l’art. 3 del D.P.R. n. 62/2013 sul comportamento del dipendente pubblico. “1. Il dipendente osserva la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina ed onore e conformando la propria condotta ai principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. Il dipendente svolge i propri compiti nel rispetto della legge, perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare. 2. Il dipendente rispetta altresì i principi di integrità, correttezza, buona fede, proporzionalità, obiettività, trasparenza, equità e ragionevolezza (…)”. Oppure l’art. 1 della L. n. 241/90, che dopo aver richiamato i principi precedenti, esplicita con particolare forza al comma 2/bis che “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede”. Per non parlare della Direttiva Ispezioni del 18 settembre 2008, ricca di passaggi significativi, ne citiamo uno: “Al fine di avviare un rinnovato e costruttivo rapporto con gli operatori economici e i loro consulenti (…) si richiama la centralità di una visione delle attività di vigilanza attenta alla qualità ed efficacia della azione ispettiva. Azione che deve essere cioè diretta essenzialmente a prevenire gli abusi e a sanzionare i fenomeni di irregolarità sostanziale abbandonando, per contro, ogni residua impostazione di carattere puramente formale e burocratico, che intralcia inutilmente l’efficienza del sistema produttivo senza portare alcun minimo contributo concreto alla tutela della persona che lavora”.
Certo, c’è anche da dire che forse la Direttiva Ispezioni piacque molto poco a buona parte del personale ispettivo: il successivo codice di comportamento emanato il 15 gennaio 2014 nemmeno ne fece una benché minima menzione. Insomma, collaborazione sì ma a denti stretti, efficacia ed imparzialità va bene, ma vediamo di portar acqua ad un certo mulino. Gli ispettori basta che non prendano mazzette o abbiano conflitti di interesse: certo, è molto importante, ma in un paese serio è sufficiente? Mi chiedo: perché l’imparzialità e la ragionevolezza non devono trovare sempre riscontro in accertamenti volenterosi e in buona fede, mentre assistiamo talvolta a punte di malizia, di accanimento, del voler cercare a tutti i costi qualcosa che non va? Proprio a questo punto, in questo preciso punto, arriva la famosa frase magica, quella che fa precipitare qualsiasi forma di rispetto e di considerazione verso il presuntuoso burocrate che la pronuncia, specie se la pronuncia al termine di conclusioni strampalate e pretestuose: “ma tanto avete la possibilità di fare ricorso”.
Che razza di collaborazione e ragionevolezza è quella dell’accertatore che di fronte ad obiezioni sensate, a documentazione probante, rifiuta il confronto costruttivo e va dritto per la sua strada (sbagliata) rimandando tutto ad un lungo e tortuoso (e costoso…) percorso del malcapitato inquisito? E qui sovvengono alcune considerazioni.
1. Il ricorso costa. E la P.A. lo sa bene. E anche noi consulenti lo sappiamo bene quando soppesiamo insieme al cliente l’opportunità di cavalcare strade lunghe e tortuose quando l’eccezione, la sanzione, la ripresa, è di scarsa rilevanza. In tutto questo però c’è una forma di violenza, una compressione del diritto di difesa. La Pubblica Amministrazione che sbaglia, esagera e che non si corregge dovrebbe pagare. Pagare fin dal primo ricorso amministrativo, fin dalla prima azione. Magari anche diminuendo ai funzionari qualche “premio di produzione” buttato lì un po’ a casaccio. Ad esempio, a me piacerebbe vedere pubblicato non solo il numero di ispezioni e di irregolarità riscontrate (ogni anno arriva la consueta statistica – anche un po’ tronfia, diciamocelo) ma anche quali di queste sono andate in contezioso e – soprattutto – quante di queste hanno perso, nonché quelle che han portato davvero frutto. Sarebbe una valutazione di massima di cosa è funzionato davvero e di cosa, al contrario, tutto questo è costato inutilmente al sistema produttivo, oltre che alla P.A.
2. Il verbale unico di accertamento, da questo punto di vista, è quasi una presa in giro. Perché l’accertamento è “unico”, ma il contenzioso segue strade diverse e perverse: per le sanzioni amministrative c’è l’ITL, per i contributi ci sono (separatamente e con procedure differenti) Inps e Inail, ciascuno con una propria ritualità. Ma se un accertamento è unico – e io non concordo con le risultanze di questo accertamento – perché devo fare tre ricorsi? Almeno si parlassero, ma ognuno prosegue per la sua strada, cane non morde cane, e quindi gli enti si spalleggiano fra loro: sia mai che Inps dia torto ad ITL (o viceversa). E intanto fanno il gioco delle tre carte e devi correre dietro ad ognuno di loro.
3. I ricorsi per via amministrativa sono uno spasso (detto ironicamente, ma con tanta amarezza). Invece di prenderli come un ulteriore e più qualificato elemento di confronto, gli Enti non ti rispondono quasi mai. C’è il silenzio rifiuto: passato un tot di tempo, è come se ti avessero detto di no. Perché? Il cittadino-suddito e il consulente-suddito davvero non meritano una risposta motivata, un secondo sguardo? Ci sono ITL che nemmeno fanno le audizioni richieste e passano direttamente all’ordinanza ingiunzione. Ma vi pare possibile? E comunque, perché non si istituisce il silenzio-assenso? Se hai qualcosa da dire, cara P.A., fallo tempestivamente, oppure taci per sempre.
4. Le rispettive avvocature usano tragicamente criteri simili. A volte, soprattutto in primo grado, nemmeno si costituiscono in giudizio, la tirano lunga, vanno fino in Cassazione. A loro cosa costa? Nulla o quasi. Al sistema Paese invece costa moltissimo. Anche questa è una forma di deterrenza alla difesa, oltre che un’ulteriore mancanza di rispetto.
5. E infine (ma si potrebbe continuare a lungo) non avete anche voi l’impressione che a diversi ispettori piaccia vincere facile? Cioè piaccia trattare con la ditta tranquilla, rilevare piccole irregolarità (magari formali) invece di infilarsi in tortuosi procedimenti contro i veri mascalzoni (che quelli sì ricorreranno, certamente, si sono già preparati al peggio con le armi migliori, hanno vie di fuga notevoli e spesso gli accertamenti-monstre finiscono con un nulla di fatto, in termini economici. Perché con i piccoli, magari per situazioni bagatellari, c’è poca spesa e tanta resa, minimo sforzo e massimo rendimento (anche in termini di punteggio-ispezioni, probabilmente).
Aveva un bello scrivere, l’allora Ministro del Lavoro, sempre nella Direttiva ispezioni 2008: Tale clima collaborativo andrà altresì instaurato, sempre in una logica di servizio e di trasparenza della Pubblica Amministrazione, anche nei confronti dei datori di lavoro ispezionati, avendo cura, al riguardo, di distinguere il contravventore o il trasgressore occasionale ed episodico, da colui che persegue disegni criminosi o elusivi su larga scala: mentre nella seconda ipotesi (da reprimere ad ogni livello e con la massima collaborazione tra i vari enti ed organismi), verrà presumibilmente incontrata una particolare resistenza, anche tecnico-legale, e un occultamento scientifico e sistematico delle prove degli illeciti, nel primo caso potrà soccorrere un atteggiamento che – pur nella puntuale repressione delle violazioni riscontrate – non sia particolarmente accanito. In tal senso potrà essere utile la ricerca della collaborazione del consulente del lavoro (…). Ora io non dico che questo non succeda, -come vi ho detto “io sto con gli ispettori” – ma accade sempre più frequentemente il contrario. La collaborazione, invece, dovrebbe diventare un elemento di merito e di valutazione non un accessorio per eventuali volenterosi. Con la Pubblica Amministrazione facciamo protocolli, sviluppiamo collaborazioni, momenti di confronto e di formazione. Ed è tutto giustissimo, sacrosanto. Ma che qualcosa ancora non funzioni è del tutto evidente, che ci siano momenti, e nemmeno pochi, di stridente distanza dai buoni intenti del 2008 lo vediamo un po’ tutti. E quindi, diamoci tutti una mano per toglierli. Costringiamo quella parte di P.A. che ancora ragiona come il Marchese del Grillo (“io sono io e voi non siete un …”) ad addivenire a più miti consigli. Magari istituendo davvero il silenzio-assenso nei ricorsi amministrativi di lavoro e previdenza. Oppure ipotizzando un sistema di contenzioso lavoristico simile a quello tributario, un percorso differente di affronto specifico, con giudicanti preparati sulla materia (che a volte non sarebbe male). Intanto, nell’immediato, andando a rispolverare un vecchio protocollo (lo so, faceva parte della filosofia della Direttiva Ispezioni, come abbiamo detto risultata indigesta alla P.A., forse perché intelligente, futuristica e impegnativa), il progetto trasparenza ed uniformità dell’azione ispettiva (Nota Min. lavoro del 21 aprile 2009).
È ivi prevista la possibilità di segnalazione ad ITL di un comportamento ispettivo difforme dalle linee-guida e dall’indirizzo della Direttiva (ad esempio particolarmente esagerato, o scarsamente motivato). La segnalazione non è diretta ma deve pervenire, per quanto ci riguarda, attraverso l’Ordine provinciale, che esaminatone il contenuto ed eventualmente condividendolo (quindi con una forma di esame preventivo), provvederà a trasmetterlo al Direttore dell’ITL. Non è l’improperio contro questo o quello, magari sui social, che può far cambiare le cose, ma un’azione mirata, intelligente, capillare. Facciamolo con misura ma con tenacia, ogniqualvolta qualcuno abbia travalicato i confini del buon senso. L’ispezione è una cosa buona, l’accertamento è per la legalità, esattamente come lo siamo noi Consulenti del Lavoro. Aiutiamo a qualificarlo ancora di più, chiedendo rispetto, collaborazione e ragionevolezza laddove siano mancati. Prima che una questione giuridica, è un affondo culturale.