In stracarichi tranvai
accalcandoci insieme,
dimenandoci insieme,
insieme barcolliamo. Uguali ci rende
una uguale stanchezza.
Di quando in quando c’inghiotte il metrò.
Poi dalla bocca fumosa ci risputa,
il metrò.
E. A. Evtusenko, In stracarichi tranvai
.
“Quanti siete? Cosa portate? Un fiorino!” Chi ha visto “Non ci resta che piangere” (e quasi tutti quelli della mia età lo hanno fatto, prima o poi), con gli indimenticabili Troisi e Benigni, ha ben presente la scena in cui il passaggio da un punto daziario – anche solo per sbaglio, anche solo per tornare indietro a prendere una mercanzia che era caduta dal carretto – costava il prezzo di un pedaggio, un balzello che diventava nella scena assurdo e grottesco.
Nella mia profonda incompetenza economica, che confesso anticipatamente, mi ha sempre impressionato negativamente l’idea del PIL, prodotto interno lordo, cioè della misurazione della ricchezza e del benessere di un Paese sulla base dell’insieme dei beni e dei servizi finali prodotti in un dato periodo all’interno del Paese stesso. Mi ha impressionato, ad esempio pensare, che un terremoto o un’epidemia – con il loro carico di problemi e sofferenze conseguenti – provocano inevitabilmente una serie di attività, di servizi, anche poco piacevoli, e di opere di ricostruzione che alzano il PIL. Estremizzando, un terremoto al giorno, secondo questo metro di misurazione, ci farebbe diventare ipoteticamente ricchissimi (e le risate soddisfatte registrate al telefono di certi sciacalli alla notizia di alcune tragedie ne sarebbero forse la prima conferma).
Insomma, più produciamo più stiamo (o dovremmo stare) bene. E ovviamente, per produrre di più dobbiamo consumare di più (anche risorse preziose, materiali ed umane). E ovviamente per consumare di più dobbiamo lavorare di più. In questo circolo vizioso, ci muoviamo come formiche impazzite. Ipotizzando sempre nuove cose da fare, nuovi progetti, sentendoci vivi ed utili più per quei progetti che non per la finalità che vi dovrebbe stare dietro, per il valore assoluto e concreto (se esiste) della loro utilità, per la loro originalità (nel senso di non replicazione di tante cose che simili che già ci sono) .
Nella mia ingenuità macroeconomica io mi figuro sempre un’entità (che fiabescamente ho definito “l’omino del PIL”, ma che ovviamente non è un uomo probabilmente sono diversi, magari è una o più multinazionali, magari è qualcosa di ancora più subdolo di quanto la mia immaginazione possa partorire) che suggerisce ed incrementa questo pazzesco ed incessante movimento, questo consumo di energie, risorse, tempo fantasie, speranze, perché, come il gabelliere del dazio del fiorino, ad ogni nostro movimento intasca un quid. Strategicamente piazzato sulle “vie di passaggio” del nostro sistema economico, ad ogni nostro clic, ad ogni accensione e spegnimento di una luce, ad ogni acquisto, ad ogni metro fatto in macchina o in tram o a piedi, ad ogni like su un social o ad ogni messaggio dal cellulare, ad ogni farmaco acquistato, ad ogni nostra opinione o inclinazione di voto (anche a questo siamo arrivati) lui trova il modo di guadagnare. Anzi non è che si debba nemmeno affannare più di tanto, lui guadagna semplicemente perché il sistema comunque “passa da lui” che ne detiene i gangli, serenamente, pacatamente, silenziosamente, impercettibilmente. Automaticamente. Non guadagna ogni volta un fiorino, sarebbe troppo, sarebbe percettibile, mentre l’omino del PIL condiziona la nostra esistenza ed incita il nostro correre discretamente, a volte facendolo addirittura passare come una nostra scelta, una nostra esigenza.
Una cosa sola disturba l’omino del PIL: che qualcosa rallenti.
Mi sovvengono tutte queste, forse disorganiche, riflessioni pensando alla proposta lanciata lì en passant dall’attuale Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico di ri-chiudere gli esercizi alla domenica, facendo un marcato passo indietro rispetto alla liberalizzazione in merito di qualche anno fa. Un sondaggio recente rivela che poco più della metà degli italiani sarebbero contrari al ritorno al passato (il che significa che poco meno della metà o lo gradirebbero o ci stanno pensando), ma siccome i ragionamenti non si fanno sui sondaggi (o perlomeno, grazie a Dio non si fanno ancora totalmente coi sondaggi) c’è una sensibile fetta di commentatori schierati più o meno radicalmente da una parte o dall’altra con argomentazioni ugualmente pregevoli. I favorevoli alle aperture domenicali, oltre all’indubbia comodità del consumatore, ricordano che l’apertura più ampia stimola un maggior consumo, crea posti di lavoro in più (che si perderebbero), contrasta il commercio via web che oramai dilaga e distrugge le relazioni umane e l’economia interna; tutte considerazioni ragionevoli e da tener presente. Ovviamente l’omino del PIL gongola. I fautori dello stop domenicale vorrebbero riscoprire la possibilità di domeniche passate in famiglia, di maggior tempo libero a disposizione dei lavoratori, anche i vescovi si lanciamo in una campagna sul maggior valore sociale della free sunday. Tutte motivazioni altrettanto sensate, ma anche qui l’omino del PIL gongola, perché ha già trovato come riempirci ed aggredire il tempo “libero”, libero ancora per altri consumi (ad esempio via web), altri impegni, altri appuntamenti imperdibili, altri “fiorini” (quante pay Tv ci sono? Ho perso il conto. Qualcuno ha anche ricordato la centralità della Messa della domenica, speriamo che non si arrivi alla Messa in streaming, e visto gli impegni, magari anche fruibile on demand – ad un fiorino, si intende).
Al netto dei messaggi propagandistici dei nostri politici e delle raffigurazioni pietistiche e suggestive da una parte e dall’altra (c’è chi ha usato il concetto di “bambini infelici trascinati nei centri commerciali la domenica”, come se invece trascinarceli di sabato o di venerdì fosse meglio, o come se trascinare seco i bambini dovunque e comunque per fare i fatti propri non li rendesse in ogni caso e in qualsiasi giorno della settimana poco contenti), forse dovremmo pensare che dietro all’argomento ci sono due questioni: una culturale ed una economica.
Sotto il profilo economico, sempre dal basso della mia ignoranza in materia, constato che quand’ero io più giovane una famiglia media di quattro persone si manteneva con uno stipendio medio di un solo componente e, con qualche sacrificio, taluni riuscivano anche ad acquistarsi la propria casa. Oggi, a paragone, il lavoro di entrambi i genitori permette a malapena di sbarcare il lunario (della casa, non parliamone nemmeno). È stato sottratto un grande valore economico al lavoro, hanno reso il lavoro domestico e di cura inutile ed improduttivo (una volta l’economia era anche quella che permetteva di ridurre gli sprechi ed i consumi inutili, di alimentari e di vestiario ad esempio), quasi disprezzabile, ci hanno costretto a correre di più tutti, ma per cosa? Ho il sospetto che dietro, in qualche modo, ci sia ancora l’omino del PIL (che, ricordate, da ogni nostro movimento si arricchisce). E quando si parla della creazione di posti di lavoro, qualcuno ha mai un’idea dell’utilità di tutto ciò, del costo reale (in tanti sensi)? Solo per fare un esempio, quante cattedrali nel deserto sono state create (specie, ma non solo, nel nostro Mezzogiorno) distruggendo paesaggi e a volte anche inquinando, con costi faraonici e risultati inqualificabili? Lo sta scrivendo uno che al valore del lavoro ci crede, ma che crede anche che il lavoro sia per la persona e non la persona per il lavoro (con ciò, se vi siete fatti l’idea che io sia tout-court per la chiusura domenicale, aspettate ancora un attimo).
Sul versante culturale, un rallentamento del correre per parlare del senso dell’esistenza, individuale e collettiva, lo sappiamo ancora fare? Per poter gustare la bellezza (non la bellezza indotta da questa o quella iniziativa, la semplice sorpresa di fronte alle mille cose che ci passano sotto gli occhi), per poter assaporare cose come la solidarietà, l’amore, la compassione, la vicinanza. O anche solo per poter gustare di quell’otium dei nostri padri latini (contrapposto a neg-otium), dove non si parla di affari, di lavoro, di preoccupazioni, di progetti, ma ci si da alla contemplazione dell’esistenza e si sviluppa il piacere di una saggezza interiore.
Che è, in fondo – e qui l’omino del PIL si arrabbierà di brutto- un modo di arrivare a cogliere la sacralità dell’esistenza. Che si vada a Messa oppure no, che si creda oppure no, che sia il giorno del riposo o quello della passione, la domenica (giorno dominicus, cioè del Signore) è il momento in cui rivolgersi a qualcosa di Altro. Per farlo – comunque – non è indispensabile non lavorare, non è nemmeno strettamente necessario farlo di domenica, certo un rallentamento generale sarebbe, a mio modesto parere, necessario, ma per parlare di noi, per riflettere su di noi, per respirare con un respiro diverso. “Fermate il mondo, voglio scendere!”, gridava negli anni 60 l’arrabbiata Mafalda di Quino. No, fermiamo il mondo, per continuare a starci sopra, ma per esserci dentro con la nostra misura. Domenica sì, domenica no, non sta lì il vero problema, specie se – affrontato così – è solo uno spot (e l’omino del PIL gode di qualsiasi spot, sono tutti fiorini che entrano). Anche se poi di domenica, come già facevano tanti (anche prima della liberalizzazione), si va a lavorare per colmare necessità comuni, per offrire un servizio gentile, per non lasciare sguarnite le nostre sempre più fragili società, forse anche perché c’è bisogno. E se è così, è con dignità, non con rabbia o rancore o tristezza.
Forse rallentando arriveremmo a scoprire, infine, che la vita è una (una sola, mannaggia) e la sua sacralità sta proprio in quello, e nel mistero del suo inizio, della sua fine e di ciò che ci sta in mezzo. E che questi suoi sacralità e mistero, che ci piaccia o no, accompagnano la nostra esistenza, sia che nelle nostre vite ci sia un Dio rivelato, un dio naturale, un dio solo nascosto o anche un dio negato del tutto o bestemmiato come ultima forma, estrema, di … riconoscimento lontano. L’importante è che il dio non sia l’omino del PIL.