In paese l’aria era insolitamente elettrica.
Il Governo aveva annunciato la predisposizione di un disegno di legge che avrebbe fissato a 9 euro orari il salario minimo.
Quella sera al Bar de la Cadrèga, storico locale del centro, pareva si fossero dati appuntamento in molti. Dai due habitué del bianco corretto si era ben presto arrivati ad un gruppo di una quindicina di persone sedute attorno a quattro tavolini che gli avventori avevano via via avvicinato.
Come sempre c’erano gli entusiasti a prescindere e quelli contrari per partito preso. Ma questo, si sa, accade in tutte le classiche discussioni da bar, quelle dove non può mancare chi afferma di saperne più di tutti, che poi non è detto che non ne sappia veramente più di tutti.
Peccato che nel mare magnum del “voi non capite un cavolo” era difficile distinguerlo.
La Faustina manco a dirlo era la più entusiasta. Dopo mille battaglie passate nel Sindacato fra qualche mese, finalmente, avrebbe visto emanato l’atteso provvedimento che avrebbe dato dignità al lavoro. Finalmente i padroni, gli schiavisti, avrebbero pagato il giusto ai lavoratori, che con lo stipendio da fame mica potevano tirare avanti ancora per molto, soprattutto dopo la crisi pandemica e quella energetica causata dalla guerra ancora in corso.
Il Luigi era invece preoccupato. Il suo crescente nervosismo era scandito dal tamburellare di indice e medio sul tavolo.
Era da qualche anno divenuto titolare di una piccola impresa di pulizia ereditata dalla madre scomparsa all’improvviso. Aveva già le sue belle preoccupazioni di tener in piedi la ditta, occuparsi della contabilità, dei preventivi, di incassare le fatture e pure di gestire quell’unico operaio che, padre di famiglia, non si era proprio sentito di lasciare a casa.
Poco ma sicuro che in questo marasma lui non si sentiva di certo uno sfruttatore.
Spiegava che aveva fatto due calcoli con il suo commercialista e l’adeguamento ai 9 euro lordi previsto dallo Schema di decreto gli sarebbe costato 3 euro in più all’ora. Maledizione, già faceva fatica ad applicare ogni anno gli aumenti Istat di qualche punto decimale, chissà come avrebbero ora reagito le sue aziende di fronte ad un aumento di oltre il quindi per cento.
La Sandra lo aveva guardato con un sorriso tristemente accondiscendente.
Lei era la manager di un’azienda un po’ più strutturata, una sessantina o poco più di lavoratori. Pure lei non era affatto tranquilla. I calcoli se li era fatti da sola. L’aumento previsto per legge avrebbe riguardato per il momento solo i dipendenti inquadrati agli ultimi due livelli della scala contrattuale. Sette lavoratori nel suo caso.
Purtroppo, questa cosa avrebbe, presto o tardi, causato un effetto domino su tutti i dipendenti. Il rinnovo contrattuale, ormai imminente, avrebbe rideterminato le retribuzioni anche dei livelli superiori. Conosceva bene il meccanismo: le parti sociali, una volta individuata e fatta 100 la nuova retribuzione del livello di riferimento, avrebbero calcolato gli altri minimi sulla base di una scala di riferimento – i cosiddetti parametri – così da mantenere proporzionalmente invariata la differenza retributiva tra un livello ed un altro. Con il vincolo dell’ultimo livello a 9 euro l’ora. Del resto, l’articolo 36 della Costituzione non lascia via di fuga: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro …” e se uno svolge una mansione “qualitativamente” superiore a quella di un lavoratore inquadrato in un livello inferiore, mica si può accettare passivamente che il suo lavoro risulti costituzionalmente sottopagato.
Il Giancarlo, operaio qualificato in una piccola realtà artigianale, invece stava già affilando le armi. Il livore era evidente.
In dieci anni non aveva mai avuto il meritato aumento, periodicamente richiesto e sempre “cortesemente” negato, e dal provvedimento del Governo non avrebbe tratto alcun beneficio. Giancarlo i 9 euro all’ora li superava di già, sebbene di poco. Eh no, assolutamente no. Non avrebbe mai accettato che lui, da sempre operaio di 4° livello, che prima prendeva un euro abbondante in più del suo collega di 5° livello, prendesse in pratica lo stesso stipendio di un operaio generico.
Stavolta il suo capo non avrebbe potuto dire di no alle sue legittime pretese di aumento. Se trova i soldi per pagare uno che manco sa stringere un bullone a maggior ragione li dovrà trovare per chi sa quali sono i bulloni giusti da stringere.
Così almeno sperava in cuor suo.
Il sindìc De Luca (no, nessuna parentela illustre) era al suo secondo mandato consecutivo. Il suo comune era stato tra i più floridi della provincia fino a qualche anno prima. Poi la crisi dell’unica grande azienda che di fatto dava lavoro, an che come indotto, ad una gran parte dei suoi concittadini aveva creato una certa apprensione. I proprietari stranieri parlavano sempre più apertamente di delocalizzazione. Troppo alto e non più sostenibile il costo del personale dipendente in Italia.
E ci mancava solo il nuovo Governo che, anziché ridurre il costo del lavoro, aveva sposato l’indicazione comunitaria del salario minimo. Al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’unione, recita la direttiva europea.
Già, diteglielo alle 724 persone, e rispettive famiglie, che fra qualche mese avranno perso il proprio lavoro e vivranno di pane e ammortizzatori sociali.
Don Casimiro era un ottimista di natura. La sua parrocchia pullulava di persone perbene. Il concetto di solidarietà cristiana, poi, era molto radicato nella comunità. Grazie ai tanti volontari era pure riuscito a creare una piccola mensa per i poveri, per lo più extracomunitari.
Certo, sapeva bene che l’aumento del costo di uno dei fattori della produzione, nella fattispecie quello del personale, avrebbe creato un meccanismo inflattivo e quindi un aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Ma pareva non preoccuparsene più di tanto. La sua inscalfibile fede lo sorreggeva in ogni istante della sua esistenza. Dio vede e provvede. E se il Padre fosse stato impegnato in cose più urgenti, sapeva che i suoi parrocchiani, grazie ai soldi in più del salario minimo, non avrebbero fatto mancare il loro prezioso aiuto.
Il Ludovico era un pensionato di vecchia data e come tutti i pensionati tirava a stento campare. Si augurava solo di arrivare a fine mese senza un nuovo imprevisto: la recente rottura del semiasse del suo vecchio Pandino lo aveva già messo in croce. A ottant’anni appena compiuti nessuno doveva spiegargli nulla. Sapeva bene che in una situazione di aumento dei prezzi c’è sempre qualcuno che se ne approfitta.
E lui, con la pensione che percepiva, mica poteva permettersi un aumento della spesa mensile, anche fosse solo di una qualche decina di euro. E l’idea di passare da volontario alla mensa dei poveri di don Casimiro ad esserne il prossimo fruitore non lo faceva dormire la notte.
La Mary era una che leggeva tanto e seguiva tutti i vari talk show politici.
Si interessava con ardore di questioni economiche e da brava militante si arrovellava a elabora- re tesi ed a cercare dati a sostegno delle posizioni del suo partito.
A chi le chiedeva come fosse possibile che qualcuno avesse pensato di aumentare il netto in busta dei lavoratori caricando sul datore di lavoro l’ennesimo balzello, lei rispondeva che bastava guardare alle positive esperienze fatte nel mondo in tal senso.
Lei peraltro era per interventi ancora più radicali. Sosteneva che il prossimo passo doveva essere la riduzione dell’orario di lavoro mantenendo la parità di stipendio. La settimana corta, quattro giorni di lavoro, diceva che non avrebbe inciso sulla produttività dei dipendenti, anzi sarebbe pure migliorata. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».
E se poi qualcuno si azzardava a dire che son tutti bravi a fare della “beneficenza elettorale” con il denaro degli altri, rispondeva stizzita che fino ad oggi la beneficenza l’han fatta gli operai alle aziende. E a chi bollava tutto questo come l’ennesima boutade, inapplicabile a molte mansioni, in primis agli addetti alla catena di montaggio, lei replicava sempre allo stesso modo: «Basta guardare a ciò che succede nel resto del mondo».
Oscar è un Consulente del lavoro, attento giuslavorista e acuto osservatore.
Se ne stava zitto in un tavolo vicino ad ascoltare. Non ne voleva sapere di entrare nella discussione politica. La cosa lo annoiava o, meglio, lo infastidiva. Desiderava solo gustarsi in santa pace il suo Spritz.
Del resto a lui preoccupavano di più gli aspetti tecnici del salario minimo. Ragionamenti che, per gli ovvi limiti dei suoi interlocutori, aveva scelto di tenersi per sè.
Fin dalla prima proposta sul salario minimo aveva pensato all’attuale sistema retributivo che si basa sulla distinzione tra lavoratori retribuiti a ore e lavoratori mensilizzati. E aveva impiegato meno di mezzo nanosecondo per capire che ci sarebbero stati dei problemi. Dei seri problemi. Del resto, lui era solito ragionare dati alla mano, guardando la realtà. Esattamente il contrario di quello che fanno i politici quando pensano ai loro provvedimenti.
Aveva quindi preso in mano il calendario del 2023. Nel mese di febbraio aveva contato 28 giorni, 4 settimane giuste giuste.
Ragionando sulla cosa pensò: «Ecco, avessimo un lavoratore pagato ad ore, che lavora dal lunedì al venerdì e che ha un orario settimanale di 40 ore, per lui sarebbero 160 ore di lavoro. Se bisogna garantirgli 9 euro lordi all’ora la sua paga in quel mese sarà di 1.440 euro».
Girò la pagina con il mese di marzo: «Quanti sono i giorni lavorabili? 23. Se consideriamo 8 ore al giorno fanno 184 ore lavorate. Il suo stipendio in questo mese sale a 1.656 euro».
Tutto questo non faceva una piega: se uno lavora di piu’, e’ giusto che prenda di piu’.
Il problema – pensò – nasce però per i mensilizzati che, come tutti sappiamo (tranne chi legifera di salario minimo), ricevono sempre la stessa paga. Il Ccnl prevede 1.500 euro? Il lavoratore prenderà 1.500 sia a febbraio che a marzo, anche se a marzo avrà lavorato ben 24 ore in più.
«Lo so» – disse tra sé e sé – «non ha alcun senso logico, ma questa è un’altra storia».
Ora è chiaro che se si deve ragionare in termini giuridici di salario minimo orario per un di- pendente mensilizzato non si può non considerare questo fatto: il diverso metodo di paga adottato per lui.
La conseguenza è che la retribuzione mensile di fatto – da riparametrare come detto all’importo del salario minimo di 9 euro stabilito per ogni ora di lavoro – dovrebbe partire da quei mesi in cui l’orario di lavoro è il maggiore possibile. E abbiamo visto che a marzo 2023 raggiungeremo addirittura le 184 ore di presenza.
Se quindi dobbiamo rispettare i 9 euro orari per chi ne fa 184 ore, lo stipendio dovrebbe essere di ben 1.656 euro, uguale a quello del suo collega pagato a ore.
Il problema è che se lo stipendio del mensilizzato fosse previsto da contratto in 1.656 euro per tutti i dodici mesi ci troveremmo a pagare anche febbraio questo importo. Considerando le 24 ore lavorative in meno di febbraio rispetto a marzo, parliamo di 216 euro oltre il salario minimo.
E questa cosa accadrebbe anche in altri mesi, sia in quelli in cui si lavora 160 ore (aprile) che an- che per i mesi in cui se ne lavora 168 (ad esempio dicembre) o 176 (vedi ottobre). Una soluzione che comporterebbe un aumento retributivo, su base annua, solo per i lavoratori pagati a mese – discriminando quindi i salariati orari inquadrati nello stesso livello – cosa che andrebbe oltre lo spirito della norma che invece mira ad un aumento della retribuzione su base oraria per tutti coloro che sono nella medesima situazione.
Andrebbe quindi trovata una diversa soluzione tecnica che vada oltre, riscrivendole, le modalità operative fin qui utilizzate in sede contrattuale di determinazione dei minimi mensili ed orari. Impensabile, infatti, proseguire con quel meccanismo che di fatto vorrebbe garantire – seppur su base annuale (questo il limite) – il diritto alla medesima paga a lavoratori pagati ad ore e ai mensilizzati dello stesso livello ovvero calcolare lo stipendio mensile di questi ultimi partendo dai 9 euro orari, moltiplicarli per le 40 ore setti- manali, poi ancora per 52 settimane dell’anno e dividendo infine per 12 mesi.
Questo perché così si continuerebbe a riconoscere al mensilizzato uno stipendio mensile riferito a 173,33 ore medie (2080 ore annuali diviso 12 mesi) che comporterebbe che in alcuni mesi dell’anno (quelli che prevedono 176 o 184 ore lavorabili) non si rispetterebbe il minimo di 9 euro all’ora. E nulla varrebbe l’obiezione che, lavorando tutto l’anno, operai e impiegati godrebbero della medesima retribuzione. Il salario minimo individuato per legge è per definizione orario, non sono previste compensazioni su quanto percepito nei successivi mesi. Anche perché non è affatto detto che uno abbia il tempo – parliamo di licenziati in corso d’anno – di goderne.
Oscar, da bravo consulente “sul campo”, aveva valutato una possibile soluzione. Già, perché un’alternativa ci sarebbe pure, anche se forse de- finirla tale è un poco esagerato. La classica soluzione sulla pelle delle aziende e dei loro consulenti. Di quelle che peraltro vanno a cozzare contro la tanto sbandierata semplificazione.
In pratica, pensava, si potrebbe lasciare tutte le attuali retribuzioni come sono, anche quelle mensili sotto il limite virtuale dei 9 euro orari, e imporre per legge un adeguamento nel corpo del cedolino paga: tutto ciò che si colloca sotto il salario minimo lo si integra mensilmente con un emolumento economico ad hoc.
Ma anche qui i problemi non mancano. Applicando infatti questa regola a lavoratori pagati a mese ed assunti (o licenziati) in corso mese, il conteggio non è semplice se si considerano le attuali regole di determinazione della paga oraria secondo un divisore convenzionale, peraltro diverso da Ccnl a Ccnl. E altre difficoltà per i lavoratori assenti parzialmente nel mese (per malattia, donazione sangue, permessi legge 104) situazioni per le quali bisognerebbe peraltro rivedere le regole di calcolo delle quote a carico Inps, Inail e datore di lavoro. Senza contare che la busta paga diventerebbe praticamente illeggibile. Come se non lo fosse già abbastanza. E poi ci sarebbero i calcoli da fare per adeguare le mensilità aggiuntive, tredicesima e quattordicesima, dei mensilizzati.
Ma il problema è ancora più complesso perché c’è un ulteriore aspetto operativo da tenere in giusta considerazione.
Per i lavoratori pagati a ore infatti l’adeguamento ai 9 euro cosa è abbastanza semplice: di fatto si devono integrare le 2080 ore lavorabili annue erogando la differenza tra le attuali paghe sotto i 9 euro ed il salario minimo. Tutti i mesi andremmo a calcolare l’integrazione sulla base delle ore lavo- rate o, meglio, di quelle teoricamente retribuibili. Cosa non particolarmente difficile perché comunque si ragiona sulle ore lavorabili in ciascun mese. Per i mensilizzati la questione è invece più complicata perché non è detto che l’integrazione debba esser corrisposta in ciascun mese. Potrebbe infatti risultare che la retribuzione corrente sia, in base alle ore lavorabili in un dato mese, conforme al salario minimo orario. Per esempio una paga mensilizzata di 1.550 sarebbe più che adeguata nei mesi che prevedono 160 ore lavorabili. In questo caso il lavoratore percepirebbe quasi 9,69 euro all’ora, in pratica 110 euro in più al mese rispetto al teorico garantito di 9 euro per le 160 ore.
Ed anche nei mesi con 168 ore lavorabili avremmo una differenza positiva. La paga media scende a circa 9,23 euro ma parliamo pur sempre di altri 38 euro, che non saranno molti ma sono sempre soldi che un lavoratore ad ore non vedrà mai.
A marzo, a maggio e ad agosto invece le ore lavorabili sono 184 che, corrispondo a poco più di 8,42 euro orarie. Se devono essere pagate a 9 euro l’una, portano il dovuto a 1.656 euro. In questo caso spetterebbero 106 euro di integrazione mensile.
Non ci vuole un genio della matematica per capire che integrare le sole mensilità dove il conteggio offre un saldo a favore del lavoratore e lasciare invariato lo stipendio quando esso risulta superiore al salario minimo (procedere con dei recuperi in ciascuno di tali mesi sarebbe al- quanto macchinoso) comporta che il mensilizzato in un intero anno arriverebbe a prendere più di quello che percepisce un lavoratore dello stesso livello ma pagato a ore.
Ovvio che tutto ciò confliggerebbe con l’attuale sistema che vorrebbe che il lavoratore pagato a ore e quello pagato a mese, ove inquadrati nel medesimo livello, ricevano l’identica paga su base annua. Un sistema ad ogni modo iniquo nei confronti dei lavoratori mensilizzati che prestano l’attività in un mese piuttosto che in un altro. Ma questa, lo si sa, è un’altra storia.
Alberto, sforzandoci un po’, lo potremmo defi- nire un pubblicista. Si dice in giro che scrive per passione, in verità lo fa per assecondare il proprio spirito polemico.
Concentra per lo più i suoi commenti su quelle norme e circolari che considera strampalate. Praticamente sempre.
A volte raccoglie opinioni e sentimenti.
E oggi ha ascoltato i nostri amici. La Faustina e il Luigi, la Sandra e il Giancarlo, il sindaco De Luca e Don Casimiro, il Ludovico e pure la Mariastella. E infine lui, Oscar, il Consulente del lavoro. Di queste donne e di questi uomini ci ha raccontato uno spaccato di vita reale, le loro speranze e le loro preoccupazioni.
Non aggiungerà nessun personale commento ai discorsi che avete ascoltato.
Se ne resterà in disparte a riflettere, ad osservare gli effetti che avrà questa ennesima battaglia ideologica.
Rimarrà, come si dice, seduto lungo la riva del fiume ad aspettare che, prima o poi, passi … no, per carità, nessun cadavere di qualche nemico, come si augurava Confucio.
Attenderà semplicemente gli eventi, combattuto tra la soddisfazione di poter dire e la tristezza di dover ricordare: «E sì che io ve lo avevo detto!».