All’uscita del Tribunale il giornalista piazzò il microfono sotto il naso della neo condannata, quella che da mesi era per tutti “la perfida discriminatrice”. «Signora Ingrassia. Per favore, una considerazione su questa sentenza. Ci dice qualcosa?». «Vi faremo sapere» rispose in modo palesemente sarcastico «Sperando che dire questa frase non mi comporti una qualche condanna». L’avvocato era prontamente intervenuto mettendo a tacere la sua cliente. «Aspetteremo ovviamente il deposito delle motivazioni ma vi anticipo già che presenteremo appello».
TRE ANNI PRIMA
Era il 4 giugno 2024 quando il Tribunale di Busto Arsizio pronunciava la sentenza di condanna della stilista Elisabetta Franchi per discriminazione indiretta rea di aver raccontato «pubblicamente», durante l’evento “Donne e moda” del 4 maggio del 2022 che lei per «ricoprire le posizioni “importanti”» nella sua azienda puntava sugli «uomini» di qualsiasi età o sulle donne ma «solo sopra i quarant’anni» riferendosi al fatto che così difficilmente sarebbero rimaste incinte e dunque a casa dal lavoro. Più esattamente, parlando delle donne over-quaranta, aveva candidamente confessato che «Se dovevano sposarsi, si sono già sposate, se dovevano far figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello e quindi diciamo che io le prendo che hanno fatto tutti i quattro giri di boa, quindi sono lì belle tranquille con me al mio fianco e lavorano h24, questo è importante». Apriti cielo. L’allora ministra per le Pari opportunità e la Famiglia censurò aspramente le affermazioni della stilista che «riflettono la gravità di una situazione che ha tolto dignità alle donne nel lavoro e nelle scelte di vita». L’Associazione contro le discriminazioni di Busto Arsizio era andata giù ancora più dura: «La condizione della donna, relegata a ruoli aziendali subalterni fino agli “anta”- scrissero gli avvocati – palesa un pregiudizio anagrafico che penalizza irragionevolmente la lavoratrice e risulta inaccettabile in una società moderna che valorizza il lavoro femminile». A nulla valse il tentativo della stilista di chiarire meglio il suo pensiero fornendo dati che dimostravano come nella sua azienda l’80% dei posti fosse riservato alle quote rosa di cui il 75% giovani donne impiegate, il 5% dirigenti e manager donne. Come dire: se cercate chi pone in essere delle sistematiche discriminazioni avete decisamente sbagliato indirizzo. Il giudice non volle sentire ragioni. Condannò in primis la società della Franchi, la Betty Blue Spa, a versare 5.000 euro di risarcimento alla ricorrente Associazione nazionale lotta alle discriminazioni con sede a Busto Arsizio. Quale pena accessoria fu stabilito l’onere della pubblicazione entro 30 giorni, a spese della condannata, della sentenza su un quotidiano a tiratura nazionale. Ma non solo. Con quella che la stampa definì una sentenza innovativa, stabilì anche che la società avrebbe dovuto: – promuovere un consapevole abbandono dei pregiudizi di età, genere, carichi e impegni familiari nelle fasi di selezione del personale per le posizioni di vertice; – adottare entro sei mesi un piano di formazione aziendale sulle politiche contro la discriminazione di genere, che preveda la realizzazione di corsi annuali, con l’intervento di esperti, ai quali siano chiamati a partecipare, obbligatoriamente, tutti i dipendenti. La mancata attuazione avrebbe comportato il versamento di 100 euro all’associazione per ogni giorno di ritardo. Rosy Ingrassia era la titolare della Simply Red, concorrente della Betty Blue. La condanna della Franchi l’aveva colpita particolarmente dato che anche lei concordava sul fatto che nessun posto strategico nella sua azienda dovesse essere affidato a donne sotto una certa età. E quel 40 anni le pareva il giusto limite. Aveva preso immediatamente appuntamento con il suo consulente che ovviamente l’aveva messa in guardia dall’adottare e pubblicizzare simili politiche, specie in sede di colloqui preassuntivi. «Rossella. Suvvia. Diciamo che certe dichiarazioni la Franchi se le poteva risparmiare. Come diceva il buon Tinto Brass» rise «“Cosi fan tutte” ma non lo si sbandiera ai quattro venti». «Amico mio. Ovvio che non è mia intenzione farlo. Il messaggio l’ho capito. Volevo giusto capire con te se può esserci un modo per evitare di finire dentro un simile tritacarne». Il consulente aveva alzato le mani al cielo. «Eh sì. Ormai in questo paese anche le buone cause necessitano di vittime sacrificali da dare in pasto all’opinione pubblica per far capire che certe battaglie si combattono con fermezza». Ma la Ingrassia incalzava: «Pensa un po’. Come non bastasse la giudice ha addirittura imposto la pubblicazione della sentenza a spese della condannata su un giornale a scelta tra Il Fatto Quotidiano, La Repubblica, il Corriere della Sera o Il Sole 24 ore. In questo caso nessuna discriminazione nei confronti delle altre testate giornalistiche nazionali?». E accompagnandosi con un sorrisetto ironico aveva infine concluso: «E vogliamo parlare della condanna ad istituire corsi annuali con l’intervento di esperti e la partecipazione, obbligatoria, di tutti i dipendenti? A me fa pensare ai famigerati campi di rieducazione cinesi». Il vecchio professionista si era avvicinato al viso della cliente quasi temesse di essere intercettato da qualche “cimice”. «Beh, magari possono, di fatto, pure obbligarti a sostenere dei colloqui con candidate donna sopra i 40 anni ma nulla ti vieta di chiudere la chiacchierata con il classico “Le faremo sapere”». Secca la replica della Ingrassia: «Del resto l’articolo 41 della Costituzione qualche diritto me lo concede ancora. O l’hanno abrogato?». Non c’era bisogno di aggiungere altro. Uno sguardo di complicità tra i due chiuse di fatto la discussione.
RITORNO AI GIORNI ODIERNI
La Ingrassia aveva seguito il consiglio e per qualche anno le cose parvero funzionare senza che nessuno “rompesse le scatole” a lei e alla sua Simply Red. Non aveva però fatto i conti con una delle tante Associazioni contro le discriminazioni sparse in tutta Italia che, forti della sentenza varesina, avevano affilato sempre di più le armi. Del resto Alea iacta est. Il dado era stato tratto e aveva dato al fortunato lanciatore l’atteso sei vincente. L’avvocato dell’Associazione era riuscito infatti ad ottenere tramite una impiegata compiacente della Simply Red un report riguardante i colloqui preassuntivi, sia quelli con esito negativo che positivi, svoltisi in azienda. Aveva quindi contattato tutte le candidate a cui il colloquio era per così dire “andato male” e ne aveva tratto dei dati assai interessanti. Si era pertanto rivolto al Tribunale per ottenere giustizia presentando una denuncia per discriminazione verso il sesso femminile ed oggi, il 4 giugno 2027, esattamente 3 anni dalla condanna della Franchi – certamente una curiosa coincidenza – il processo era giunto alla sua prevedibile conclusione. Presidente del Tribunale era tale Antonella Senzanima. Nella per gli amici. Una bella signora proveniente da una famiglia benestante romana, elegantemente vestita, trucco leggero e sempre con i capelli in ordine. Una donna di rigidissimi principi con una sola “sfortuna”, quel Riccardo Cocciante che nel 1974 aveva composto quel capolavoro dal titolo Bella senz’anima. Qualche decennio di professione e il diminutivo di Nella si sarebbe trasformato in Bella. Bella Senzanima. Nomen omen ironizzerebbe qualcuno. In aula, in attesa della lettura della sentenza, si percepiva un certo nervosismo. Gli avvocati di controparte erano andati giù pesante sfruttando una campagna mediatica che non vedeva l’ora di sbattere un mostro in prima pagina. E oggi il mostro cattivo era lei, la Rosy Ingrassia. Dapprima l’avevano dipinta come una convinta maschilista accusandola di rancore verso le donne madri perché a lei la vita aveva negato la gioia di un figlio. E poi c’era quel suo like a quel vecchio post del 2024 su Facebook che criticava la sentenza contro la Franchi definendo ridicolo credere che una donna possa avere figli solo fino ai 40 anni. Ovviamente l’accusa ci aveva sguazzato come un bimbo dentro ad una pozzanghera dopo il temporale. O meglio, in quel nubifragio che si stava abbattendo su di lei. Gli avvocati della Ingrassia avevano provato a tamponare ricordando non solo il limite per il ricorso alla fecondazione assistita che in Italia è di ben dieci anni più alto, 50 anni – «A proposito, qui nessuna discriminazione?» avevano infelicemente sottolineato – ma che addirittura nel 2024 una certa Flavia Alvaro, grazie alla fecondazione assistita in Ucraina, era diventata a quasi 64 anni la neo-mamma più anziana in Italia. Come dire che anche porre un limite a 40 anni non mette comunque al riparo da certi presunti “inconvenienti”. Avevano anche presentato l’ultimo Rapporto biennale pari opportunità dell’azienda che non lasciva alcun dubbio: salvo i dirigenti, peraltro equamente divisi tra uomini e donne, la Simply Red era di fatto tutta al femminile se non fosse per un paio di maschietti, i due autisti. Ma qui gli avvocati di controparte avevano ben replicato ironizzando sull’iscrizione della Ingrassia ad un Gruppo social chiamato “Donne al volante, pericolo all’istante”. L’ironia usata degli avvocati nel perorare l’accusa di discriminazione a sfondo maschilista aveva trovato sponda in un sorrisetto compiacente della giudice. Difficile, in un simile contesto, sperare in un verdetto favorevole alla Ingrassia. Quando rientrò la giudice Senzanima ci fu la conferma che le cose sarebbero andate male. Lo sguardo di sbieco rivolto verso l’imputata era tutto un programma. La sentenza fu pesantissima. La Simply Red Spa, avrebbe dovuto versare ben 100.000 euro di risarcimento all’Associazione locale contro le discriminazioni. Due le pene accessorie. Pesantissime. La prima, la pubblicazione della sentenza entro 30 giorni e per la durata di una settimana, a spese della condannata, sui tre maggiori quotidiani di tutti i paesi membri dell’Unione europea. La seconda la realizzazione di uno spot televisivo, stile “pubblicità-progresso”, con la Rosy testimonial contro le discriminazioni di genere. Il resto – la promozione di corsi interni per tutti i dipendenti sulla parità di sesso; l’adozione di un piano di formazione aziendale sulle politiche contro tutte le discriminazioni unitamente a incontri annuali tenuti dai massimi esperti mondiali; il risarcimento di 1.000 euro all’Associazione per ogni giorno di ritardo – furono considerate quisquilie. Come non bastasse, nonostante la giudice si fosse riservata il deposito delle motivazioni nei termini di legge, la Senzanima ci tenne a dire “due paroline” prima di congedare le parti in causa. «Cara la mia signora Rossella Ingrassia» il tono lasciava trasparire un evidente livore nei confronti della condannata «Voglio anticipare a lei e ai presenti i motivi per i quali sono giunta ad una sentenza di condanna che ai più potrebbe sembrare severa anche se così non è. Voglio spiegarle dove la strategia discriminatoria della sua azienda, probabilmente convenuta con qualche suo consulente, ha ahimè miseramente fallito. È emerso dagli atti del processo un incontrovertibile dato statistico che l’accusa ha peraltro sapientemente saputo evidenziare Il 100% delle donne sotto i 40 anni che hanno sostenuto il colloquio per il posto di dirigente nella Simply Red ha ricevuto la classica risposta “Le faremo sapere” ma, guarda caso, nessuna di queste è stata poi assunta nella sua azienda. Tale prassi non può che essere qualificata quale discriminazione indiretta che, secondo l’art. 25 del Codice delle Pari Opportunità, si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Certi “giochetti” non possono essere tollerati. Che la mia sentenza sia da futuro monito». La Rosy Ingrassia abbandonò l’aula senza lasciar trasparire alcuna emozione. Vista l’aria che tirava non voleva certo essere accusata di oltraggio alla Corte per aver aggrottato troppo le sopracciglia. Nonostante questa accortezza ci fu un tizio seduto in prima fila che addirittura sostenne – si scoprì poi, in malafede – di aver intercettato questo labiale: «Beh, dai avvocato, non è andata così male. Per un attimo avevo temuto che mi avrebbero condannato a scrivere 100 volte al giorno “Sono stata proprio cattiva. Non si fanno le discriminazioni”». Fuori dal Tribunale, ad attenderli, il solito capannello di giornalisti speranzosi di rubare un commento per un titolo da prima pagina. Almeno una decina i microfoni sbattuti sotto il naso dell’avvocato, ma soprattutto verso di lei, colei che da mesi era “la perfida discriminatrice”. «Signora Ingrassia. Per favore, una sua dichiarazione sulla sentenza. Ci dice qualcosa?». «Vi faremo sapere» rispose in modo palesemente sarcastico «Sperando che dire questa frase non mi comporti una qualche condanna». L’avvocato era prontamente intervenuto mettendo a tacere la sua cliente. «Aspetteremo ovviamente il deposito delle motivazioni ma vi anticipo che presenteremo appello». La Ingrassia salì in macchina. Nonostante le dichiarazioni del suo legale non aveva alcuna intenzione di presentare ricorso. Prese il telefono e chiamò l’amico consulente: «Ciao caro. È andata male. Del resto “era già tutto previsto”». Le venne quasi naturale citare un brano di Cocciante.
ALCUNI MESI DOPO LA SENTENZA
Durante un Talk show dove si discuteva di discriminazione di genere, la Ingrassia sorprese i presenti rendendo noto che la Simply Red aveva deciso di avviare le procedure di licenziamento collettivo e nel giro di 12 mesi avrebbe spostato tutta la propria attività in uno di quei paesi dove alle donne non è permesso lavorare se non previa una speciale autorizzazione dell’autorità religiosa. «Abbiamo concordato con le autorità del posto un piano di investimenti piuttosto sostanzioso ed articolato da realizzarsi nell’arco di un quinquennio e ciò in cambio della iniziale possibilità di assunzione di un centinaio tra lavoratori e lavoratrici, di cui almeno il cinquepercento donne, che sarebbero diventate il dieci dopo tre anni ed il venti al termine del quinquennio». Un risultato che aveva dell’incredibile, ottenuto grazie anche a delle influenti conoscenze – ma questo ovviamente non lo disse – presso l’ambasciata di quello Stato straniero in Italia. Qualcuno in studio la accusò apertamente di essersi voluta vendicare, una evidente ritorsione per la condanna subita. «Guardi, per quanto mi riguarda può pensare quello che vuole. Può dire quello che vuole. Davvero non mi interessa il suo, il vostro giudizio». Il tono era risoluto. «Forse non ci crederà ma questa scelta l’ho meditata a lungo. Voglio impegnarmi per essere la testimonial delle difficili battaglie che le Associazioni contro le discriminazioni di genere portano avanti da anni in quei paesi. Ecco, la considero una giusta punizione. Anzi, la definirei un’occasione di redenzione». Sarcasmo o sincerità? Non è dato sapere.