Il titolo di questo pezzo potrà sembrare forte, in effetti, ma il lettore può stare certo che i pensieri ed i sentimenti ispirati dalla pubblicazione in G.U. del D.lgs. n. 104/2022 ha suscitato un turbinio di pensieri ed appellativi nei quali la parola “vergogna” è una delle poche trascrivibili su questa illustre Rivista.
Benchè la visione critica non sia mai mancata, soprattutto in questa rubrica, poche volte è sembrato di cogliere, nel leggere un testo normativo, una così ampia distanza dalla pratica e dalla realtà come nel decreto in questione, un tale concentrato di insipienza e supponenza, un così totale dispregio della logica e del buon senso.
Qualcuno dirà (e ha già tentato di dire, peraltro): tutta colpa dell’Europa; difatti, il D.lgs. n. 104/2022 recepisce una Direttiva europea, di cui si dirà poc’anzi; ma lo fa con tale malagrazia che trova una qualche giustificazione solo se
si considera il curriculum vitae di molti nostri politici (ed in effetti, in questa legislatura, un campionario di così tanto insulsi dirigenti del Dicastero del Lavoro non può spiegarsi che con un qualche peccato – quale che sia, ma dev’essere stato davvero molto grave – che gli operatori del lavoro probabilmente hanno commesso a fronte di cotanta punizione).
Siccome le disgrazie non vengono mai da sole, dopo qualche giorno ecco spuntare anche la circolare n. 4/2022 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la quale – con mia forte perplessità – è stata salutata positivamente
da diversi commentatori, ma che per me è solo la dimostrazione – anzi il suggello – dell’incompetenza e della tracotanza con cui vengono gestiti adempimenti e norme sul lavoro (e non solo), non risolvendo nulla e destando
ulteriori interrogativi. Come al solito, verrebbe da dire. Ma è un solito a cui abituarsi, o peggio ancora ringraziare quando ti vengono concesse delle bricioline inconsistenti, a mio avviso non è più sostenibile.
Ma cominciamo dall’inizio, avvertendo che l’analisi sarà un po’ lunga.
Normalmente l’analisi di un testo normativo comincia … dal testo. Ma qui è istruttiva qualche considerazione preliminare (i celebri “visto”, con cui una legge-decreto delegato legittima la propria emanazione).
Infatti, scopriamo che la direttiva europea n. 1152/19 è del giugno 2019 (ben tre anni fa) e che la legge delega al Governo per recepirla è dell’aprile 2021 (oltre un anno fa). Qualcuno ha fatto notare che il Decreto fosse di urgente
emanazione in quanto dal 1° agosto 2022 l’Italia, in caso contrario, sarebbe stata oggetto di una procedura di infrazione. A parte che le procedure di infrazione ormai non si contano (e costano parecchi soldi al nostro
Paese) ma davvero c’era bisogno di arrivare all’ultimo momento? Qui i casi sono due: o siamo in presenza di sprovveduti che fan le cose (male) di fretta e furia, oppure le cose sono fatte di corsa in modo da trovare una
qualche legittimazione nel farle proprio così.
È il classico dilemma per cui non si capisce bene se il legislatore indigeno ci sia o ci faccia (come direbbero a Roma), ma chi scrive ha già una tragica risposta alla questione: il nostro Legislatore contemporaneamente ci è e
ci fa, un mefitico mix di incapacità e malafede ideologica con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. Senza contare la decorrenza: 13 agosto 2022. Tutti a ritardare un po’ di meritate ferie (che sono sancite da una serie di provvedimenti amministrativi e giudiziari: ad agosto si sospendono molte cose) per cercare di raccapezzarsi su una norma senza capo né coda, o quantomeno con più interrogativi che certezze.
E comunque la delibera finale di approvazione del Decreto da parte del Consiglio di Ministri è del 22 giugno 2022, e partiva da un parere preliminare del 31 marzo 2022; e già in quelle date lo schema di decreto circolante pareva talmente assurdo da risultare quasi uno scherzo di carnevale in ritardo. Credo che il pensiero di molti, compreso quello di chi scrive, contasse su un rigurgito di misericordiosa intelligenza ministeriale a che il Decreto non uscisse nel testo così obbrobrioso (che al confronto il Quasimodo di Notre Dame de Paris è un modello da sfilata) con
cui è stato inizialmente dato alla luce. Con ingenuità e fiducia evidentemente malriposte chi poteva pensare all’emanazione di tale stortura, e per di più a ridosso di agosto?
Ma qualcuno sarà ben stato interpellato… A scorrere il preambolo normativo ci si imbatte ad un certo punto in un “Sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori e datori di lavoro”. Non
possiamo esimerci da alcuni commenti in merito. Anzitutto, mi raccomando, i professionisti non sentiteli MAI, fosse il caso che magari un qualche buon consiglio ve lo diano … Chissà, se quel “fondata sul lavoro” di cui all’art. 1 della nostra Costituzione riguarda anche il mondo professionale: probabilmente nella testa di qualche Ministro (che sta
al lavoro come la fisica quantistica sta al gioco della briscola) i professionisti sono solo zuzzurelloni perdigiorno impegnati al più in qualche gara di golf o tennis (ora anche paddle); perché mai, quindi, interpellarli nel
merito? Ma anche i sindacati dei lavoratori sono davvero orgogliosi di una norma che – nei fatti – li considera così incapaci di un minimo di rappresentanza, gestione ed informazione da spostarne ogni onere sui datori di
lavoro? Senza parlare delle organizzazioni datoriali: ecco, fossi un iscritto straccerei al volo la tessera di un’organizzazione che, sentita nel merito, non abbia minacciato uno sciopero (pardon, una serrata) generale contro la promulgazione dell’efferato decreto in argomento. Forse aveva ragione il compianto Marchionne, che a suo modo aveva interpretato il famoso detto “dai nemici mi guardo io ma dagli amici mi guardi Iddio”.
Perché l’intento perverso del Legislatore contro le aziende – qui non siamo di fronte all’incapacità ma alla diretta e voluta persecuzione, direi anche perpetrata con allegra faciloneria – è ben chiaro e si evince nel testo del Dossier-Scheda di lettura del 13 aprile 2022 al Senato. Citiamo testualmente (pag. 4): “Sebbene la direttiva comunitaria consenta il rinvio alla normativa vigente1, lo schema di decreto richiede che l’informazione sia indicata
in modo puntuale, gravando di fatto sul datore di lavoro la ricognizione degli strumenti adattabili al singolo lavoratore”. Detto in altre parole, il Legislatore ben conscio di poter fare diversamente com’era nell’esatto spirito della Direttiva, sceglie precisamente di aggravare le incombenze per i datori, con sanzioni pesanti in caso di inottemperanza anche solo parziale. Non è stupido (parliamone…), è proprio cattivo, contando sul bravo sonno generale (compreso quello delle forze politiche che si dichiarano pro-aziende) e su quello in particolare delle organizzazioni di categoria.
Ancora sulla tempistica, il legislatore pasticcione in sede di pubblicazione ci informa (art. 13) che le disposizioni del decreto si applicano a tutti i rapporti già instaurati al 1° agosto 2022. Entrando tuttavia in vigore il 13 agosto, il destino dei malcapitati assunti dal 2 al 12 non è chiaro. Ma sì, ci dice la circolare n. 4 dell’Inl, cosa vuoi che sia, è solo
una distrazione, uno sfasamento temporale, non dobbiamo ricorrere a complicati sofismi, è logico che le disposizioni si applichino a tutti gli assunti prima dell’entrata in vigore.
E qui due osservazioni sono necessarie. La prima è notare con stupore che l’Inl tratta di fatto il legislatore come l’ubriacone del paese: mica bisogna dar retta a tutto ciò che c’è scritto con tanta distrazione (eufemismo) sulla Gazzetta Ufficiale, la verità te la diciamo noi. Un misto (come detto) di tracotanza, incompetenza e mancato rispetto delle norme, compresa quella di attuazione delle Direttive comunitarie che consente, entro un periodo di 18 mesi, di portare delle modifiche ai decreti legislativi, anche se sarebbe sicuramente preferibile fossero scritti da subito con un minimo di decenza.
La seconda notazione è l’uso nella circolare di una locuzione (cosicchè, o altrove giacchè) a cui probabilmente viene attribuito un potere magico (come certe carte con cui giocano i ragazzi); in grammatica tali espressioni sono congiunzioni con valore consecutivo (cioè legano una seconda frase alla prima, la quale giustifica e sorregge il significato di ciò che segue), ma qui vengono usate appunto con un curioso valore risolutivo: stanno dicendo una cosa che non può per nulla essere giustificata da ciò che hanno appena espresso in precedenza, ma ci mettono (ci giocano, direbbero i ragazzi) un giacchè a caso e, voilà, tutto è risolto.
Infine, perdonatemi se ci ritorno, sulla decorrenza (13 agosto, il sabato prima di Ferragosto) stendiamo un velo pietoso. Meriterebbe, il Legislatore, di essere preso per le orecchie mentre sta a pancia all’aria godendosi il forse
non troppo meritato riposo e riportato d’urgenza alla scrivania a rileggere e correggere le proprie scempiaggini.
Non entreremo nel merito dell’analisi puntuale del Decreto, che già trova spazio in altri contributi di questa Rivista, ma solo dei suoi punti più critici (che in realtà sono il Decreto meno alcuni scarni passaggi). Tuttavia, dobbiamo
subito chiarire un concetto: siamo assolutamente favorevoli a che le informazioni sul contratto di lavoro e sulla sua gestione siano rese accessibili in modo chiaro e fruibile a ciascun lavoratore (per inciso, è ciò che in genere
noi consulenti del lavoro già facevamo nei contratti attuali). Ciò su cui discutiamo è l’onere burocratico sempre più assillante (ai limiti dell’assurdo) e corredato da sanzioni sempre più aspre che vanno a colpire aspetti per lo più
formali e non sostanziali. Con un conseguente aggravio di costi a cui non fa quasi mai il paio un incremento effettivo delle tutele.
È come se ci fosse, per alcuni, un articolo non scritto nella Costituzione per cui “il nemico è l’azienda” (o il datore di lavoro) su cui vanno affossati oneri anche impropri. C’è un intero universo che va a scatafascio, c’è un caos generale con un sacco di problemi per cui si fa fatica a tirare avanti, ma l’importante è colpire indiscriminatamente le aziende
(e, mi raccomando, senza oneri per la pubblica amministrazione). L’immaginario di chi partorisce certi abomini è che la radice genetica del rapporto di lavoro sia il contenzioso.
Abbiamo, in compenso, leggi scritte male, disorganiche e segmentate, spesso di difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori e sempre pronte ad essere messe in discussione dall’ispettore-sceriffo (anche contro le disposizioni
del proprio stesso Ministero) o dal giudice-giustiziere di turno. Non parliamo poi dei contratti collettivi, molto spesso un concentrato di rimandi e di cose non dette, o dette anche volutamente in modo ambiguo (lo ammettono gli stessi estensori: così poi il contenzioso si sposta a livello locale o aziendale, con vere e proprie prove di forza da una parte o dall’altra).
Non a caso su questa Rivista più volte abbiamo invocato (inutilmente) che la trasparenza partisse dall’alto2.
Ora tale onere si sposta sul datore di lavoro, in maniera abnorme. Sul punto è stato salutato con favore (poco
comprensibile) il contentino della circolare Inl per cui, fatta salva la comunicazione delle informazioni generali, “la relativa disciplina di dettaglio potrà essere comunicata attraverso il rinvio al contratto collettivo applicato o ad
altri documenti aziendali qualora gli stessi vengano contestualmente consegnati al lavoratore ovvero messi a disposizione secondo le modalità di prassi aziendale”.
L’alleggerimento, a ben vedere, è solo formale: lo Stato si defila da un obbligo ben preciso posto a suo carico dalla Direttiva e scarica i problemi su una non meglio precisata prassi aziendale. Inoltre, un qualsiasi dipendente o
sindacato animato dallo spirito di contraddizione o di contenzioso potrà bellamente non considerare l’interpretazione ministeriale e ricorrere direttamente all’autorità giudiziaria (art. 12 del Decreto), confidando sul fatto che l’intenzione del Legislatore ha volutamente escluso, come detto in precedenza, tale ipotesi.
Rimane inoltre il fatto che, a parte la complessità della normativa sul lavoro, la stessa contrattazione collettiva è:
– tutto fuorchè chiara e trasparente;
– di difficile ed ardua (nonchè interminabile) lettura;
– spesso non disponibile, in particolare quella di secondo livello (territoriale o settoriale), gelosamente custodita dalle organizzazioni firmatarie.
Non si vuole entrare in polemica, solamente mi piacerebbe – tanto per dirne una – che un qualsiasi ministro o sottosegretario venisse a spiegare ad un onesto manovale il meccanismo di funzionamento delle casse edili.
E fra le norme di cui dar conto al lavoratore vi sono anche:
– i congedi retribuiti, un autentico mare magnum nel panorama italiano: notare che la Direttiva UE parlava di “congedo retribuito” (al singolare), con un chiaro riferimento alle ferie (vedi anche il “considerando” n. 1) e non a tutto il resto. Ma chi siamo noi italici non per non complicare la vita (alle aziende, si intende)?
– gli Enti a cui si versano i contributi ma anche qualunque forma di protezione sociale fornita dal datore di lavoro ( includiamo anche gli Enti bilaterali? Sì dai, così il mappazzone informativo si ingrossa sempre di più!).
Sempre per parlare di trasparenza e semplificazione, perché le precisazioni ridondanti e le estensioni di cui all’art. 1 del Decreto?
I lavoratori intermittenti (lett. c) non sono lavoratori subordinati? E allora perché precisarli a parte?
I collaboratori coordinati e continuativi di cui all’art. 409 c.p.c. n. 3 non sono lavoratori autonomi? A leggere il 409 si direbbe proprio di sì. E allora perchè inserirli, visto che il Considerando n. 8 prevede espressamente che “i lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva”.
Un altro punto che sembra modesto ma che in poche righe è irto di contraddizioni ed interrogativi è l’art. 3, che vale la pena citare per intero. “Il datore di lavoro comunica a ciascun lavoratore in modo chiaro e trasparente le informazioni previste dal presente decreto in formato cartaceo oppure elettronico. Le medesime informazioni
sono conservate e rese accessibili al lavoratore ed il datore di lavoro ne conserva la prova della trasmissione o della ricezione per la durata di cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro”.
Sulla chiarezza e trasparenza abbiamo già espresso tutte le riserve possibili. Concentriamoci un attimo sul formato. Cartaceo o elettronico. Sul cartaceo c’è poco da dire, qualche riflessione in più va fatta sul formato elettronico (che per la circolare Inl significa anche a mezzo mail). Sembra una certa semplificazione, sennonché dobbiamo andare con la memoria ad altri documenti di prassi.
In particolare richiamiamo l’interpello n. 13/2012 del 30 maggio 2012, relativamente alla consegna dei prospetti-paga mediante mail o sistema web, che è consentito unicamente alla precisa condizione di poterli materializzare
ovvero “mediante utilizzabilità di una postazione internet dotata di stampante e l’assegnazione di apposita password o codice segreto personale”. Cioè siamo un’amministrazione digitale, ma sul documento i diritti del lavoratore (che ormai ha uno smartphone anche per amministrare il proprio conto bancario, giocare in borsa o investire in bitcoin)
costringono il datore di lavoro a dover attrezzare di tutto e di più.
Allora che dite, sarà ora di ammodernarsi (quindi salutare il predetto interpello come pratica vetusta) o fra qualche tempo si riproporrà il dilemma amletico (stampare o non stampare?). Un problema particolare è dato dalla conservazione ed accessibilità al lavoratore. In italiano questo significa che per tutta la durata del rapporto (quale che sia) questa documentazione deve essere resa accessibile al lavoratore.
Cioè non basta che si consegni il chilometrico documento a tempo debito, ma ogni volta che il dipendente vuole potrà richiederne una copia o verificarne la conservazione. Un bello strumento fornito a chi volesse per
un’azione di disturbo al datore… (Facciamo sciopero? Ma no, andiamo tutti e duecento a chiedere, una volta al mese, una copia del contratto di lavoro all’ufficio del personale).
Non solo: la prova della trasmissione o della ricezione (che sono due cose diverse: basta la trasmissione o occorre anche accertarsi della ricezione? Chi lo sa….) va conservata per cinque anni dalla conclusione del rapporto di
lavoro. Quindi in un ipotetico rapporto durato vent’anni, la conservazione di un documento e della prova della sua ricezione (anzi, di tutti i documenti via via scambiati nel corso del rapporto) va mantenuta per ulteriori cinque anni, per un totale di venticinque. E anche senza che vi sia alcuna contestazione da parte del lavoratore, la mancata conservazione della prova è sanzionata (ma questo lo vedremo dopo). In formato elettronico, dove l’obsolescenza è velocissima, la cosa si presenta ancor più problematica.
Anticipiamo però una riflessione sulla sanzione specifica per questo adempimento; sanzione che non c’è ma qui Inl (prendendo una topica clamorosa) sostiene la sanzionabilità del mancato adempimento con un volo pindarico
e con l’utilizzo del magico “giacchè”.
L’errore di diritto è a dir poco marchiano: se un adempimento è privo di una sanzione l’Inl non può certo inventarsela, al limite (la norma è recente, Inl dovrebbe conoscerla) si applicherebbe in questo caso il rinnovato
istituto della disposizione (art. 14, D.lgs. n. 124/2004, recentemente innovato – manco a dirlo, in maniera peggiorativa – dall’art. 12/bis del D.l. n. 76/2020), applicabile in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di
lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative (com’è appunto il caso in questione). Di solito Inl è più rigoroso, ma forse chi va con lo zoppo … Ma una notazione (per quelli che ce l’hanno
con l’Europa) è necessaria: la Direttiva non parla né della messa a disposizione continua né della conservazione “fin che morte non vi separi” ma solo ed unicamente della consegna dell’informativa al lavoratore. Tutto il resto
è frutto della mente macchinosa (altro eufemismo) del legislatore italiota.
Lasciando ad altri il compito di analizzare la portata sanzionatoria, è importante ribadire un principio. A parere di chi scrive la Direttiva europea (su alcuni punti anche discutibile) lascia un buon margine di discrezione a ciascuno
Stato membro, in un’ottica tutto sommato collaborativa e proattiva. Proviamo ad esempio a leggere l’art. 15 della
Direttiva (grassetto a nostra cura).
“1. Gli Stati membri provvedono affinché, qualora un lavoratore non abbia ricevuto a tempo debito i documenti o parte dei documenti di cui all’articolo 5, paragrafo 1, o all’articolo 6, si applichi almeno uno dei seguenti sistemi:
a) il lavoratore beneficia delle presunzioni favorevoli definite dallo Stato membro, che i datori di lavoro hanno la possibilità di confutare;
b) il lavoratore ha la possibilità di sporgere denuncia a un’autorità o a un organo competente e di ricevere un’adeguata riparazione in modo tempestivo ed efficace
2. Gli Stati membri possono prevedere che l’applicazione delle presunzioni e del meccanismo di cui al paragrafo 1 sia subordinata alla notifica del datore di lavoro e al fatto che il datore di lavoro non abbia fornito le informazioni mancanti in modo tempestivo”.
Ora leggiamo questa disposizione alla luce del vecchio art. 4 (“misure di tutela”) del D.lgs. n. 152/1997 (grassetto sempre a nostra cura).
1. In caso di mancato o ritardato, incompleto o inesatto assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1, 2, 3 e 5, comma 2, il lavoratore può rivolgersi alla direzione provinciale del lavoro affinché intimi al datore di lavoro a fornire le informazioni previste dal presente decreto entro il termine di quindici giorni.
2. In caso di inottemperanza alla richiesta della direzione provinciale del lavoro si applica al datore di lavoro la sanzione amministrativa prevista dall’articolo 9-bis, comma 3, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608.
A chi scrive sembra chiaro che la precedente norma – ma così suggerisce anche la Direttiva attuale – prevedeva un meccanismo di facilitazione dei rapporti fra le parti, a fronte del quale il lavoratore non soddisfatto delle informazioni ricevute adiva la Dpl per un’azione di “esortazione” del datore di lavoro, che veniva sanzionato solo se ulteriormente renitente.
Il nostro Legislatore invece pare non vedesse l’ora di appioppare una bella sanzione (da 250 a 1500 euro, non esattamente bruscolini) che sarà applicabile in automatico, anche a fronte di un lavoratore del tutto soddisfatto delle informazioni ricevute e che non si sogna di fare alcuna rimostranza o richiesta. Si vuol fare la guerra alle aziende o fare cassa sulla loro pelle: anzi non solo sulla pelle delle aziende perché sanzionabile sarà anche il privato datore di lavoro domestico o la famiglia che fruisse di prestazioni attraverso il libretto di famiglia.
Ecco che ritorna una figura che speravamo sepolta da tempo ma che torna sempre più prepotentemente in auge: il legislatore con la mannaia impazzita, che punisce indiscriminatamente a destra e a manca, che colpisce alla cieca pensando di promuovere chissà quale equità (ma realizzando invece di fatto la solita somma ingiustizia).
Come detto, questo numero di Sintesi prevede altri interventi sul tema a cui sarebbe ingiusto rubare spazio, ma tutto il resto del decreto è disseminato di scelte discutibili.
Rispetto al periodo di prova riproporzionato nel contratto a termine (la direttiva parlava in maniera generica di proporzione, il riproporzionamento sarà un grande oggetto di contenzioso),
al cumulo di impieghi ed alla transizione a forme di lavoro più stabili, ma anche rispetto all’art. 1/bis sui sistemi di monitoraggio automatizzati, mi chiedo perché non demandare in tutto o in parte alla contrattazione collettiva
qualche possibilità di gestione ulteriore? Perché da nessuna parte vedo scritto un “salvo diversa disposizione della contrattazione collettiva” (sia pure maggiormente rappresentativa)?
Eppure la Direttiva è molto aperta rispetto a questa possibilità.
Si veda il Considerando n. 38 “È opportuno rispettare l’autonomia delle parti sociali e il loro ruolo di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Le parti sociali dovrebbero quindi poter ritenere che, in particolari settori o situazioni, per perseguire lo scopo della presente direttiva siano più appropriate disposizioni diverse rispetto ad alcune norme minime stabilite nella presente direttiva. Gli Stati membri dovrebbero pertanto poter consentire alle parti sociali di mantenere, negoziare, stipulare e applicare contratti collettivi che differiscono da alcune disposizioni contenute nella presente direttiva, a condizione che il livello generale di protezione dei lavoratori non sia abbassato”.
E si veda anche l’applicazione del Considerando nell’art. 14 della medesima Direttiva. “Gli Stati membri possono consentire alle parti sociali di mantenere, negoziare, concludere e applicare contratti collettivi, in conformità del diritto o delle prassi nazionali, che, nel rispetto della protezione generale dei lavoratori, stabiliscano disposizioni concernenti le condizioni di lavoro dei lavoratori che differiscono da quelle di cui agli articoli da 8 a 13”.
Insomma, il Legislatore pare prendere a schiaffi tutti e di tutti infischiarsene: aziende, privati, professionisti, famiglie, parti sociali. Andando per la propria strada. E partorendo anche qualche strafalcione, come quello del comma 4 dell’art. 1/bis, scritto in un italiano pedestre e con riferimenti “un tanto al chilo” alla normativa sulla privacy e sul GDPR. Oppure la normativa sulla prestazione di lavoro all’estero, con la differenziazione (destinata
a creare confusione laddove già ce n’era parecchia) fra distacco transnazionale, “distacchetto” (non so come altro definire la c.d. “missione all’estero” superiore alle 4 settimane consecutive) e “distacchino” (la missione di periodo
inferiore). Forse sarà il caso, anche in Europa, di trovare definizioni meno equivoche.
Gli operatori sono al dilemma: lavorare come pazzi tutto agosto cercando di trovare il bandolo della matassa (la soluzione del contratto-monstre contro la versione light con integrazione di informativa, con tutte le varianti
possibili, compreso l’acquisto a caro prezzo di soluzioni buttate sul mercato da software house o banche dati) oppure darsi alla rivolta?
Chi scrive opta per una soluzione ragionevole: un mix di informazioni che in buona parte già erano presenti nei contratti ed un rimando a norme di legge e contrattazione collettiva, pronto a impugnare con decisione le sanzioni che volessero malauguratamente arrivare da parte di qualche scriteriato accertatore “shooter shooter”.
Resta forte l’amarezza per l’ennesima occasione persa per rilanciare nel Paese competitività ed intelligenza ed una visione collaborativa del rapporto di lavoro.
Qualcuno ha paragonato il trattato giuslavoristico, in cui il Legislatore vorrebbe aver trasformato un contratto di lavoro, al “bugiardino” dei medicinali, quel lungo foglietto di avvertenze e modi d’uso, di cui tutti abbiamo imparato a leggere le parti essenziali, saltando le ipotesi più catastrofiche che hanno, obiettivamente, lo scopo precipuo di riparare le spalle alle case farmaceutiche.
A mio modesto avviso il documento, anche di sintesi, di ciò che il decreto ha stabilito (e che la circolare ha solo vagamente ritrattato) è pari ad almeno il quadruplo dei più prolissi bugiardini che io abbia mai letto.
Tuttavia, una indicazione quasi farmaceutica dovremmo ricavarla da queste esperienze. È qualcosa che, a questo punto e visto l’andazzo, dovrebbe essere scritto a chiare lettere all’entrata di entrambe le Camere parlamentari:
“il legislatore può avere effetti collaterali anche gravi, sceglierlo con moderazione”.