Da quando per Sintesi abbiamo ideato questa rubrica, che mi onoro di condurre (con qualche incursione dell’amico Alberto Borella, sempre gradita ed autorevole), la nostra mitica Redattore capo, Morena Massaini, mi rimprovera un piglio sempre negativo, critico, talvolta polemico: “mai una bella notizia, mai un commento positivo”.
Bisogna dire che una rubrica dal titolo “Senza filtro” non può che rappresentare una specie di “licenza di uccidere” (o quantomeno di colpire duro) e, del resto, essa è nata dalla constatazione delle mille cose che non vanno – il più delle volte per umana stupidità – e che fanno salire il sangue alla testa, non solo d’estate ma anche nel più freddo degli inverni; per di più, non è che Governi, Istituzioni ed Enti non ci mettano del loro, anzi, sembra quasi di assistere ad una gara ove si riesce sempre (e non è facile…) ad inventare cose ancora più astruse e deleterie di prima. D’altronde, non ci sorprende scoprire ogni volta la ricchezza della saggezza popolare, un cui detto ricordava che “non c’è limite al peggio”.
Tuttavia, non essendo abbastanza folle dal non ascoltare un consiglio che viene da sì amabile e profonda persona (pensando a Morena – o, come la chiamano i nostri giovani, “la mitica Massaini” – viene alla mente la pubblicità di una nota marca di pasta: “se non la conosci, non sai cosa ti perdi”) , vi racconto questo mese una storia positiva: la storia di H.
H. è un giovane universitario, studia molto – e riesce bene – ma ad un certo punto della sua carriera accademica (perfettamente in corso) decide di pagarsi gli studi, per non pesare su sua madre, che è una semplice (anche se bravissima) impiegata.
Così cerca un’occupazione e risponde all’inserzione di una nota catena commerciale, passa i colloqui e viene assunto part-time, a tempo determinato, come commesso alle vendite. Lavora con serietà e passione, con il sorriso che caratterizza da sempre la sua persona. Viene notato per la sua precisione e dedizione, e anche se non opera nel suo campo di studi (per lui sono tutte cose nuove) viene messo a coordinare un reparto. Un giorno un cliente si sente in dovere di mandare una lettera di ringraziamento per un commesso (che è H. ovviamente) che lo ha trattato davvero bene, che è stato così gentile e premuroso anche se non si trattava nemmeno del suo reparto. Succede altre volte.
I colleghi di lavoro gli vogliono bene e lavorano volentieri con lui.
Non è uno yes man, non è un leccapiedi, non è un ruffiano o un piaggiatore; è semplicemente una persona che vive bene e lavora bene, e crea benessere attorno a sé. Anche se non è il lavoro del futuro, anche se non è l’occupazione della sua vita, anche se è solo per mantenersi agli studi.
Alla scadenza del tempo determinato, anche se è ben chiaro pure per il datore di lavoro che quello non è il lavoro della vita di H., il rapporto viene trasformato a tempo indeterminato (benché potesse essere ancora prorogato a lungo): uno così non si lascia andare, neanche nella grande catena commerciale internazionale dove, in fondo, sei poco più di un numero.
Torniamo agli studi: oltre agli esami, H. partecipa (lavorandoci di notte) a dei concorsi, dove manda proprie idee, progetti, disegni: è per fare esperienza, per cimentarsi, e alla fine, nel mondo dorato (da fuori e/o da arrivati) e crudele (di dentro e/o all’inizio carriera ) dell’architettura, qualcuno lo noterà.
Per intanto studia e lavora.
Non è un santo, un monaco, un eremita: H. ha la ragazza e gli amici, esce con loro, si diverte, fa le cose che fanno normalmente i giovani, compreso far arrabbiare o preoccupare la madre (per lo più per cose futili: si sa come sono fatte le mamme…); insomma, una vita normale.
Se vogliamo raccontarla tutta, non è che H. abbia avuto proprio tutte cose facili ed in discesa nella vita. Suo padre lo ha abbandonato prima che lui diventasse adolescente, sentendo il richiamo della sua terra di origine, con tutti i problemi economici ed affettivi che ciò può comportare, una fragilità nelle ossa gli ha ammazzato due grandi passioni (il ballo e lo sport) e gli ha seminato un po’ di chiodi in una gamba, più volte rioperata, il nonno a cui era legatissimo è mancato dopo lunga e angustiosa malattia.
Insomma, è anche uno che ha sofferto ed è stato provato, ma non si è arreso, non si è lamentato, si è dato da fare aiutando, come poteva, la sua famiglia e chi aveva bisogno di lui.
Mi è venuta in mente la storia di H. (verissima in ogni singola virgola che precede) mentre ripensavo al Decreto Dignità da poco emanato dal Governo attuale e, soprattutto, alla frase che ho letto di uno degli ispiratori (se così possiamo dire) delle norme in esso contenute, il Prof. Pasquale Tridico, che sul Corriere della Sera del 9 luglio 2018 ha dichiarato in un articolo che “le leggi non creano occupazione, ma possono aumentare o diminuire i diritti e la dignità del lavoro e legata al diritto”.
Questo concetto (quante volte l’ho sentito…) che il lavoro è un qualcosa che trova la sua ragione ultima o un suo preciso scopo di esistere nel diritto che lo regola è, a mio avviso, profondamente sbagliato e velleitariamente ideologico.
Non ho mai pensato che non si debbano mettere puntuali leggi a tutela del lavoratore, e comunque regolatrici del mercato del lavoro e delle sue dinamiche, tuttavia la dignità del lavoro promana dalla dignità della persona, che nel lavoro trova una sua precisa espressione.
Il lavoro senza dignità non è tanto quello che sta fuori dalle regole (sia che il fuorilegge sia il datore o il lavoratore) ma è quello in cui le persone non si riconoscono, quello in cui imprenditore o lavoratore sono numeri, interessi, freddi diritti, messi contro, irriconoscibili all’uno le esigenze e le prospettive dell’altro.
Abbiamo un sistema lavoro intriso di diritti, totem intoccabili che solo a metterne in discussione qualcuno (o qualche modalità di sua realizzazione) si viene tacciati per reazionari e sfruttatori; ma alla qualità autentica del lavoro e delle relazioni, chi ci pensa? Ad un approccio culturale al lavoro e alla mentalità con cui viverlo, da una parte e dall’altra, nessuno mette mano? Davvero si pensa che dalla moltiplicazione dei diritti e dal contenzioso più acerbo possa venire qualcosa di buono? O non ne proviene, invece, solo la scontentezza e la rabbia, se alla fine non si giunge mai alla vittoria finale? E quale vittoria è l’annientamento del (presunto) avversario?
Ecco, alla fine la lezione della storia di H., molto più efficace di mille disquisizioni cattedratiche (che si riconoscono soprattutto per il loro essere sterilmente accademiche: e quale guaio peggiore del non misurarsi mai con la realtà ma solo con le proprie proiezioni mentali…): lavorare con dignità è sapere ciò che si fa e perché lo si fa, non lasciarsi sfruttare – certo – ma soprattutto mettere se stessi nella propria attività, creare bellezza ed utilità anche nel fare cose semplici (e non idealmente proprie); vale per i lavoratori come (e forse ancor di più) per gli imprenditori. Che è diverso dall’accatastare diritti, rimostranze, scuse, protezioni improprie, sotterfugi e scorciatoie.
Il valore del lavoro di H. (la sua dignità) gli è stato riconosciuto ma era un valore per egli stesso, per la faccia che uno porta a casa la sera ed il cuore con cui si addormenta e si sveglia. Perché forse, e glielo auguro di cuore, H. “avrà successo” un domani, ma il suo vero successo H. lo sta vivendo già adesso. Ed ha costretto anche l’impersonale multinazionale a guardarlo, a riconoscerlo, senza alcun decreto posticcio, ideologico, fanfarone, acchiappaconsensi. Perché la dignità chiama, in genere, dignità e sa farsi riconoscere; perché ho visto molto raramente, forse mai, un imprenditore serio lasciarsi scappare un bravo lavoratore per il puro “gusto del disimpegno” (e se non è un imprenditore serio, oltre al fatto che raccoglierà ciò che semina, non è meglio lavorare per qualcun altro?). Perché le costrizioni portano sotterfugi, il sospetto porta sospetto, gli ingabbiamenti forzosi portano precarietà maggiore (come probabilmente purtroppo accadrà con il poco dignitoso – per contenuti e per modalità di realizzazione – Decreto Dignità).
Cosa dite? Che in fondo sono comunque finito a criticare qualcosa/qualcuno?
Ma via, cosa sarebbe la vita senza un po’ di pepe…