Senza Filtro – LA BALILLA (O DELL’INFELICE TASSAZIONE 2025 DELLE AUTO AZIENDALI)

Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

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Quando mi sono messo a scrivere quanto segue, per quegli strani meccanismi di associazione mentale mi è sovvenuta una vecchia e nota canzone milanese degli anni ’30 (“La Balilla”, appunto) che racconta di un giovanotto che facendo qualche soldo si era comprato un’auto (la Fiat 508 Balilla, chiamata semplicemente Balilla; era una delle prime auto di produzione di massa e il nome ha un sapore evocativo di quegli anni); tuttavia, i parenti – un po’ invidiosi, un po’ scrocconi – gliela smontavano portandosi via ciascuno un pezzo alla volta. Una specie di demolizione ante litteram, insomma. Anche quella a cui assistiamo oggi, con la norma sulle auto aziendali concesse in uso promiscuo, è una specie di demolizione. Nelle intenzioni di questo afflato di “green deal de noantri” ci sarebbe, in effetti, un desiderio di demolizione o quantomeno di obsolescenza (delle auto presupposte inquinanti). Quello a cui tuttavia assistiamo con assoluta certezza è la demolizione del buon senso critico. Insomma, la solita disposizione che fa acqua da tutte le parti. Vi spiego perché la vedo così, pur apprezzando in genere ogni sforzo verso una transizione ecologica, purché serio ed efficace (quindi non in questo caso). In due parole (la cui sintesi potrebbe essere imperfetta o incompleta, ma giusto per circoscrivere la questione a beneficio del lettore), dal 2025 è stata introdotta una nuova modifica della tassazione delle auto aziendali ad uso promiscuo; sono quelle che servono per lavoro ma vengono concesse in dotazione al lavoratore anche per uso personale e su di esse c’è una tassazione perché questa concessione costituisce un virtuale reddito (imponibile). Da un’epoca d’oro (normativamente parlando) in cui per decenni la tassazione di tale reddito virtuale aveva un’applicazione piana (costo chilometrico a tabella ACI, su base 15000 km di percorrenza annua, il 30% si considera per lavoro) si era passati nel 2000 a una serie di distinzioni che – per quanto discutibili – potevano ancora avere un senso: più l’auto inquina – tenuto conto delle emissioni di CO2 – più aumenta il valore imponibile. Quello a cui assistiamo oggi però è un vero e proprio capolavoro, un trionfo di idiozia. Eh sì, perché nell’attuale sistema ciò che conta è l’insieme di almeno tre fattori: 1. l’alimentazione dell’auto (elettrica, ibrid plug-in o altro) 2. l’immatricolazione (prima dell’1/1/25 o dopo) e 3. l’assegnazione dell’auto, cui si aggiunge il pericoloso jolly di quando l’auto sia stata ordinata (entro il 31/12/2024 o successivamente). Il coacervo di questo tre più uno criteri (anzi ce ne sarebbero almeno altri due o tre, ma dobbiamo preservare almeno la salute mentale di chi legge… la nostra seguendo queste evoluzioni è già parzialmente compromessa) determina una serie di differenti applicazioni del valore imponibile che crea squilibri davvero poco apprezzabili sul fronte dell’equità. Il valore standard di riferimento è infatti sempre quella delle tabelle ACI su 15000 km di percorrenza annua, ma quel che cambia – profondamente aggiungerei – è la percentuale applicabile (10% auto elettriche, 15% plug-in ibride, 50% le altre). Per alcune auto dipende dai parametri sopra accennati, per altre no. La disuguaglianza e l’iniquità sono quindi i primi aspetti che vorremmo considerare. Ad esempio, prendiamo a riferimento il medesimo tipo di auto, di cui poniamo il valore annuo sui 15.000 km sia 6000 euro), può succedere che nel 2025: – L’auto assegnata al dipendente già nel 2020 e tuttora in uso debba essere fiscalmente valorizzata per 1800 euro di reddito annui (il 30% di 6000) – L’auto assegnata al dipendente nel 2023 sia valorizzata (poniamo sia un diesel a bassa emissione) 1500 euro (il 25% di 6000) – L’auto assegnata al dipendente entro il 30/6/ 2025 continui ad essere valorizzata al 25% – L’auto assegnata al dipendente dall’1/7/ 2025 sia valorizzata al valore normale del bene (un obbrobrio indefinito di cui parleremo più avanti) – Il medesimo modello di auto immatricolato nel 2025 assegnato al dipendente dal 2025 sia valorizzata (al 50% cioè per 3000 euro). Ipotizziamo ancora il caso in cui nel 2025 due commerciali di due ditte concorrenti che usano lo stesso modello di auto “si scambino” di datore; uno arriva a fine giugno e si prende l’auto del primo e l’altro arriva ai primi di luglio e si prende la (stessa) auto dell’altro: il primo avrà un reddito virtuale di 1500 euro, il secondo pagherà tasse su un valore indefinibile ma probabilmente più alto (confermato dall’ultima follia del Fisco, la risposta n. 192/2025). Non è il solo criterio di disuguaglianza. Tanto per dirne un altro, sappiamo che lo stesso modello di auto può essere prodotto con diversi tipi di alimentazione. Se prendiamo un modello identico (salvo l’alimentazione) della stessa casa automobilistica, in genere quello elettrico ha un costo di acquisto variabile in aumento di almeno il 15/20% rispetto al modello (poniamo) diesel, inoltre costa meno come consumi e ha più facilitazioni (ad esempio nelle ZTL). Cioè con un’auto che ha un valore (considerando tutti i fattori) decisamente più alto, un dipendente paga tasse in valore assoluto di molto inferiori rispetto ad un dipendente con l’auto di minor valore. Qual è il senso? È giusto? E qui scatta una pseudo-motivazione da parte dell’Agenzia delle Entrate (la famosa risoluzione n. 46/E del 14 agosto 2020) davvero “creativa” (è un rispettoso eufemismo), la quale – non potendo trovarvi una qualsiasi giustificazione logica – potrebbe essere iscritta in un complesso (dell’estensore della risoluzione) che freudianamente parlando si definirebbe come “invidia dell’auto”. Secondo il creativo invidioso, infatti, non è che il lavoratore sia costretto ad accettare l’auto aziendale in uso promiscuo, se l’accetta – in forza di un contratto di assegnazione che anche lui sottoscrive – è causa del suo mal, anche lui vuole l’auto e perciò sconta la stessa punizione (in termini di tassazione più alta) del datore di lavoro. Il ragionamento è – lasciatemelo dire – di un’irrealtà meravigliosa: a parte che l’auto è un mezzo-strumento-di-lavoro aziendale e quindi indovinate chi mai la sceglierà, ma poi immaginatevi il commerciale che di fronte ad una proposta di assunzione se ne esca con “o mi date l’auto elettrica o quella lì (la brutta auto pseudo-inquinante) non la voglio” (sarà assunto? Io dico di no…). Oppure immaginate che risponda “ok prendo l’auto solo per lavoro, ma per il resto uso la mia”. E così (ammesso anche qui che lo assumano), in questa ipotetica risposta salva-ambiente, al posto di un’auto in circolazione ne avremmo due, e avremmo tutti i giorni il costo (in termini ambientali e umani) di un altrimenti evitato tragitto casa- lavoro e ritorno per poter prendere l’auto aziendale e cominciare, una volta scambiata con la propria, ad usarla per lavoro. Vi sembra logico o plausibile? A me no, e di fronte a certe norme mi viene da pensare che ogni tanto scendere dal mondo delle idee (balzane) e fare un giro sulla Terra farebbe bene a chi si inventa certe amenità (ma finché le inventasse… è che poi le scrive, e fanno norma…). Insomma il vero punto di disuguaglianza si spiega in poche parole: perché a parità di tipo di auto date a due dipendenti diversi, ci deve essere una tale disparità in termini di valutazione reddituale solo in funzione di parametri (come la data di assegnazione) che sostanzialmente sono casuali e soprattutto estranei (di fatto) alla volontà del lavoratore? Io non so se portato a livello costituzionale questo ragionamento apparirebbe così infondato… Quindi, se proprio si vuole incentivare l’uso di certe auto, si colpisca (vi sono mille modi, ad esempio in termini di detraibilità fiscale) l’azienda, ma non il dipendente. E qui vi è un secondo punto su cui la norma si dimostra fallace ed ingiusta, questa volta sul fronte opposto: finché si parla solo di auto di nuova immatricolazione, ci potrebbe stare un cambiamento di regime fiscale (sull’azienda, non sul dipendente) per il futuro: cambiata la norma ciascuno sa come regolarsi sulle prossime scelte. Ma perché incidere anche sulle auto esistenti e legittimamente acquistate e operanti? Per un’azienda, quale legittimo affidamento verso il sistema Stato e Fisco è possibile con cambiamenti in corsa che spostano le prospettive in modo così repentino? Eh sì perché per passare da un regime all’altro, più sfavorevole, basta solo che la tua auto aziendale, magari recente, magari acquistata nel 2024, venga assegnata dal 1° luglio ad un nuovo dipendente. Ma è possibile per un’azienda decidere di cambiare repentinamente un’auto o addirittura un intero parco aziendale? E anche qualora fosse possibile, ci sarebbe anche la domanda, di natura squisitamente ecologica, di cosa succederebbe o dove andrebbero a finire le auto dismesse, perché qualora reimmesse sul mercato, oppure demolite (quindi smaltite, coi relativi problemi), non mi sembra che si sarebbe risolto molto sul piano ambientale, no? Poi si innescano le soluzioni alternative. Un mio amico dipendente ha percepito l’ingiustizia (non sottovalutate mai il senso di ingiustizia o sopruso, è un motore potentissimo e un generatore di idee) di fronte a questa situazione e ha avuto questa pensata: cara azienda, vendi l’auto aziendale a me (magari facendomi un prestito a tasso ridotto) e io ti espongo i chilometri percorsi per lavoro. Con qualche accorgimento e qualche garanzia contrattuale che tutela le parti sui rispettivi interessi, l’autovettura (la stessa che i fisco-geni volevano “punire”) rimane in circolazione, a conti fatti fiscalmente azienda e dipendente ci guadagnano pure (come tutti sapete, al costo della Tabella ACI il rimborso dei chilometri è completamente esentasse) e all’estensore della genionorma fischiano le orecchie ogni volta che il mio amico passa davanti a un ufficio del Fisco e gli fa istintivamente il gesto dell’ombrello. Eh sì perché il prestilegislatore di turno, ritorniamo al concetto di prima, la domanda di dove andrebbero a finire tutte la auto dismesse (ammesso che qualcuno le dismetta, peraltro) mica se l’è posta: viviamo ormai di norme-immagine (non risolvono nulla ma qualcuno “si scudetta” di aver fatto qualcosa in merito). Pensate che a luglio di quest’anno, con la circolare n. 10/E, si sono pure accorti – giusto giusto con un po’ di ritardo – della stupidata normativa che avevano fatto (mettendoci una pezza, stavolta opportuna, per via di prassi, ormai siamo abituati) per cui sarebbero rimaste penalizzate fiscalmente anche le aziende che avevano acquistato un’auto elettrica prima del 2025 (cioè sei stato bravo prima del tempo? Paga di più…) Volete qualche altra immagine dello scempio perpetrato? Il meccanismo è talmente complicato che per chi non rientra nella gimcana delle norme e resta fuori da qualsiasi criterio (luglio dev’essere un mese foriero di pazzia pre-vacanze, vedi la risposta Ag. Entrate n. 192/2025) non vi è nessun calcolo forfettario, ma bisogna considerare l’uso dell’auto a fini personali “secondo il normale valore commerciale del bene”. Già era successo nel cambio del 2020 (il criterio era stato sancito sem pre dalla geniale risoluzione n. 46/E del 2020, che sul punto concorre al premio di risoluzione più inascoltata del secolo) ma siccome agli asini la storia non insegna nulla ci sono ricascati belli belli nel 2025. E qui il Fisco si fa a mio avviso un paio di autogol clamorosi. Diciamolo a chiare lettere perchè si capisca bene: la valorizzazione dell’auto promiscua a valore normale del bene è un’invenzione fra il diabolico e la frequentazione dei peggiori bar di Caracas. Infatti, vi siete mai chiesti perché per il reddito virtuale delle auto ad uso promiscuo si arrivò all’applicazione di un valore convenzionale (cioè predeterminato a priori)? Sì certo, c’era anche un favor verso i lavoratori (oggi, con la nuova norma, nella maggior parte dei casi sparito – nel silenzio indecente di tutti i sedicenti difensori dei lavoratori), ma il criterio serviva allo Stato (e alle aziende) per avere un valore certo, evitando contenziosi infiniti o accertamenti defatiganti. Perché distinguere nell’uso dell’auto, compresi carburanti e quant’altro, quanto incide l’uso per lavoro e quanto no non è impresa facile, richiede una raccolta onerosa di dati (e una volta presentati e raccolti, in caso di accertamenti se ne richiede un controllo). Avete presente la difficoltà? Con il valore convenzionale il problema era risolto, in modo artigianale e forse un po’ rozzo ma comunque funzionale: lavori 5 giorni su 7, 5 diviso 7 fa 0,71, facciamo il 70% come uso di lavoro, il 30% come uso personale e chiudiamola in bellezza. Ma se ora su parecchie auto si perde il valore convenzionale, oltre alle idee creative come quella del mio amico di qualche riga sopra, alle imprese e ai lavoratori (uniti si vince) potrebbe venire la voglia quei conteggi di mettersi a farli decentemente (o anche indecentemente) e magari stare su percentuali molto più basse (già me lo immagino il refrain: “uso l’auto solo per lavoro e il sabato per fare la spesa al supermercato a un chilometro, due volte all’anno vado a trovare una vecchia zia che abita in provincia, farò sì e no 50/100 chilometri all’anno per uso personale” … e si comincia a discutere). Insomma, una norma (l’ennesima) senza capo né coda. Poi dicono di voler incentivare i consumi (che, a ben vedere, è un altro concetto poco ecologico). Ma qualcuno si ricorda come finiva la vecchia canzone milanese? Traduco dal meneghino e faccio una sintetica parafrasi: “con il mio mestiere mi impegno e ho fatto un po’ di soldi ma un’altra Balilla non la compro più”. Ma qui i parenti-serpenti non c’entrano. Qui mi deprimo a furia di correre dietro a norme senza logica, e quindi smetto di impegnarmi, smetto di fare impresa, di produrre, investire e inventare. Il perché lo dico citando questa volta Zucchero Fornaciari: “perchè mi hai rotto il blues”.

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