La locandina era posizionata su un cavalletto in legno sistemato all’ingresso della grande sala del Palazzo della Giustizia. Una semplice ma elegante scritta nera su sfondo bianco avorio recitava
1° Simposio Mondiale dei Sistemi Giuridici e Giudiziari
6 gennaio – 26 gennaio 2048 Sala congressi
Un incontro importantissimo, previsto ai massimi livelli, dove i più grandi esperti del settore si sarebbero confrontati sulle esperienze giuridiche dei rispettivi paesi discutendo dei vari Ordinamenti Giuridici, ossia l’insieme delle norme vigenti in uno Stato che regolano la vita di una comunità, l’organizzazione interna dello Stato e tutto ciò che riguarda i rapporti giuridici tra organi dello Stato e membri della collettività, ma anche dei diversi Ordinamenti Giudiziari, ovvero l’insieme delle norme volte a disciplinare le funzioni e i ruoli dei soggetti preposti a curare l’amministrazione della giustizia.
La scelta della sede congressuale era caduta sul Bwandwa, una piccola nazione del centro Africa nata giusto vent’anni prima, il 26 gennaio 2028, dalla inevitabile frantumazione di uno dei tanti stati i cui confini erano stati tracciati con il righello tra il 1880 e l’inizio della prima guerra mondiale, senza tenere conto delle etnie che in quei territori vi vivevano. Una scelta, la sede del convegno, operata soprattutto per l’altissima qualità del sistema giuridico di questo paese dove tutto pareva funzionare a meraviglia: le leggi, l’amministrazione pubblica, la giustizia.
In verità nessuno sapeva bene il perché di tale eccellenza e questo aumentava l’interesse per la relazione dell’esperto bwandwano che avrebbe concluso la kermesse.
Gli interventi dei relatori si erano susseguiti rapidamente nel fitto calendario di tre settimane e i lavori erano ormai prossimi alla conclusione. Avevano parlato quasi tutti i rappresentanti delle culture giuridiche più antiche di mezza Europa. Nella mattinata conclusiva era stato calendarizzato l’intervento del relatore italiano, il sottosegretario al Ministero della Giustizia. L’anziano politico sistemò per bene sul leggio una decina di fogli, alzò lo sguardo verso la platea e inforcò un paio di occhiali neri dalle spesse lenti. La voce uscì affabile ma al contempo forte e decisa.
Questa la sintesi dell’intervento come fu riassunta da un quotidiano italiano. Carissimi colleghi, il sistema italiano, e su questo non nutro alcun dubbio, deve considerarsi il migliore al mondo. Partiamo dall’iniziativa legislativa che la nostra Costituzione prevede spetti a più soggetti: Governo, Parlamentari, Corpo elettorale, Cnel e Consigli regionali. Tale varietà di attori consente di dare voce alle diverse sensibilità presenti nella nostra comunità. Al contempo impedisce che un solo organo possa legiferare e farsi quindi portavoce esclusivamente di ciò che più gli interessa o, peggio ancora, più gli conviene. Relativamente alla approvazione delle leggi, oltre alla discussione nelle varie commissioni parlamentare, è previsto un doppio passaggio, Camera e Senato, grazie al quale, a mezzo emendamenti, è possibile dare voce ai dissidenti e operare eventuali correttivi. Sulle leggi vi è poi il controllo del Capo dello Stato, che ne è l’assoluto garante. Anche la gestione nell’applicazione delle norme offre varie garanzie, in quanto i vari organi della Pubblica amministrazione, chiamati ad applicarle, possono emanare direttive, circolari e rispondere alle richieste di chiarimenti tramite lo strumento dell’interpello. Contro le loro decisioni definitive è possibile presentare ricorso ad un apposito Tribunale Amministrativo e in secondo grado al Consiglio di Stato quale giudice dell’appello. Eventuali prevaricazioni della legge sono infine gestite da un sistema giuridico molto articolato. Sono previsti due gradi di giudizio nel merito della questione: processo di primo grado e processo di appello, detto anche di secondo grado. Queste decisioni possono sempre essere impugnate per ragioni di legittimità avanti la Corte di Cassazione che può riformare la sentenza o rinviarla a diverso giudice. Altro particolare rilevante è che tutte le norme sono soggette al giudizio di conformità alla nostra Costituzione che spetta alla Corte Costituzionale i cui eletti sono tra i massimi luminari del diritto.
Seguì un vivace e piccato dibattito, soprattutto con alcuni esponenti della cosiddetta common law, durante il quale il relatore ribadì con forza la convinzione che il sistema italico restasse comunque il migliore. Dopo un break, dove fu offerto un rapido rinfresco a buffet a base di piatti locali, i lavori ripresero con l’intervento conclusivo del relatore di casa, il Presidente del Consiglio Supremo dei Giudici presso il Tribunale di Bwandtown, la capitale della Repubblica democratica del Bwandwa.
Il dottor Robert Zindwan si alzò da una delle poltrone della prima fila e salì con passo agile la scala che lo portò rapidamente al centro del palcoscenico.
Era un signore prossimo alla cinquantina, di bell’aspetto, capelli corti e ricci. Una evidente brizzolatura alle tempie dava risalto a due occhi grigi su cui trionfavano delle scure sopracciglia ad evidenziarne lo sguardo penetrante e magnetico. Elegante nel portamento e curato nel vestire senza però quell’ossessiva ricercatezza tipica di chi crede più nell’apparire che nell’essere. Un tipo assolutamente carismatico. Sistemò il microfono del leggio, alzandolo di un buon venti centimetri visto che tra lui e il relatore che l’aveva preceduto c’era una evidente differenza di altezza. Ruotò lo sguardo da sinistra a destra ad accertasi di avere l’interesse di tutti. Con un colpo di tosse richiamò l’attenzione di alcuni che ancora confabulavano tra loro. Abbozzò un mezzo sorriso fingendo di scusarsi per non essersi allontanato per tempo dal microfono. In platea in molti notarono che con sé non aveva alcun appunto. Chiaro che non avrebbe letto un testo preparato a tavolino. Un fatto assolutamente inusuale in incontri di questo livello ma proprio il parlare a braccio avrebbe dovuto far intuire lo spessore di quell’uomo. Si schiarì la voce e con un tono cordiale in un inglese fluido, senza alcuna riconoscibile inflessione regionale, cominciò. «Benvenuti cari amici, devo dire con grande sincerità che ho molto apprezzato i vostri interventi. La vostra storia, la storia dei vostri ordinamenti giuridici è secolare. A tutti i vostri sistemi riconosco la volontà, l’assoluta buona fede nella ricerca e il perseguimento della assoluta equità e della massima giustizia possibile. E peraltro è proprio dai vostri studiosi e dalle vostre esperienze che abbiamo attinto a piene mani per pensare ex novo il nostro sistema giuridico, amministrativo e giudiziario.»
Una breve pausa per risistemare il microfono. Non che fosse necessario ma serviva alla prima delle pause del suo intervento che aveva previsto nella sua mente.
«Quando la nostra nazione ha conquistato la propria autonomia ci siamo posti una serie di domande e, in primis, quale fosse la miglior forma di governo per i cittadini. La prima opzione che valutammo fu la democrazia. Un sistema che però mostrava chiari limiti, bene evidenziati, più di due millenni fa, da Platone secondo cui governare è un’arte, proprio come lo è la medicina: così come il malato non può che farsi assistere da una persona professionalmente adatta e dalle conoscenze assodate, lo stesso vale per l’arte del governare per la quale pochi hanno la giusta attitudine per gestire la “cosa pubblica”. Un rischio quindi affidare il governo dello Stato alle masse, visto che si andrebbe ad attribuire un potere immenso a chi non ha le capacità per gestirlo. Gioco forza quindi, secondo il filosofo greco, rinunciare alla democrazia per optare, se non proprio per una oligarchia, per l’altra forma di governo, l’aristocrazia, intesa come una forma di gestione dello Stato affidata agli “àristoi”, i migliori.»
Un sorso d’acqua per una seconda pausa che doveva servire a consolidare nella mente dei presenti questo primo messaggio ovvero far credere che quello sarebbe stato a suo tempo il sistema prescelto.
Sistema ovviamente fallace in quanto a rischio di democrazia.
«Ma a noi non piaceva l’idea di una aristocrazia al comando, il potere messo nelle mani di presunti migliori, che potrebbero peraltro non rivelarsi tali. E che questo avvenga molto spesso ce lo insegna la storia, anche quella più recente.
E infatti il problema è: chi li sceglie i migliori? Altri migliori? E questi “altri” scelti da chi? E poi cosa potrebbe impedire ai migliori di scegliere se stessi in quanto migliori di altri? La cosa evidentemente era troppo pericolosa.» Si accarezzò il mento. Un altro arresto per lasciare il tempo che tutti rispondessero alla domanda e concludessero che si fosse davanti ad un vicolo cieco.
«Quale soluzione quindi? Per trovarla ci siamo domandati che cosa impedisca alle masse di essere loro stesse parte dei migliori. Come avere una democrazia dove vi sia un popolo di migliori che possa eleggere i migliori? La risposta fu semplice: eliminare l’ignoranza.» Notò sui visi dei presenti serpeggiare una certa perplessità. Tutto come previsto. «Ci siamo anche posti delle domande su un concetto che è alla base di ogni democrazia:
“La legge è uguale per tutti”. Ma come attuare veramente questa che appare come una folle utopia? Cosa fa sì che una legge, una amministrazione, un sistema giudiziario, non creino disparità nell’applicazione dei diritti, che non neghino ad alcuni diritti che, ad altri nella medesima situazione, sono riconosciuti?
Quale soluzione perché una legge non venga scritta male ed applicata peggio? Anche in questo caso la risposta che ci siamo dati fu la stessa: eliminare l’ignoranza.» Altra provocazione e brusio in aumento. «Ma ci è venuta alla mente anche un’altra massima che sento citare spesso, credo in Italia.
“La legge non ammette ignoranza”.
Un precetto che dovrebbe rivolgersi non solo ai cittadini ma anche a chi li governa. Devi conoscere per scrivere una legge; devi conoscere per applicarla; devi conoscere per giudicare correttamente.
Ma soprattutto devi anche fare in modo che il cittadino sia messo in condizione di comprendere le leggi che scrivi. E come arrivare a questo? La risposta non cambia: eliminare l’ignoranza.»
Un signore in prima fila rivolgendosi al collega seduto a fianco lo definì un illuso sognatore. Esattamente ciò che il dottor Zindwan aveva immaginato.
«Per questo abbiamo puntato tutto sulla istruzione, di uomini e donne, vecchi e bambini. L’istruzione finalizzata innanzitutto ad una proprietà di linguaggio nell’espressione, sia di pensieri che di concetti, totalmente scevra della possibilità di fraintendimenti e al contempo correlata ad una capacità assoluta di comprensione dei messaggi. L’istruzione finalizzata alla cultura giuridica. Il tutto con grandissimi benefici sia nei rapporti umani ma soprattutto per il sistema legislativo, amministrativo e giudiziario e, di conseguenza, per il benessere di tutti i nostri concittadini.»
Si concesse una pausa fingendo di aver bisogno di allentare il nodo della cravatta. «Questo nostro approccio comporta dei benefici in primis nei rapporti Stato-cittadino. Dalla chiarezza delle norme consegue infatti che ognuno sa esattamente cosa può fare e cosa non può fare. Ha piena contezza di quali sono i suoi diritti e i suoi doveri, nei confronti degli altri e della comunità in generale. Sa bene quali sarebbero le inevitabili conseguenze di una eventuale violazione delle regole che ci siamo dati. E questa consapevolezza del cittadino rappresenta al contempo un vantaggio e un beneficio per lo Stato in termini di sicurezza e legalità. Vi ricordate cosa scriveva Cesare Beccaria in un fulminante paragrafo del suo Dei delitti e delle pene dal titolo “Certezza ed infallibilità delle pene”? Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile ma unito alla speranza della impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre più gli animi umani. Sintetizzando possiamo dire che quando la macchina della giustizia funziona a dovere ciò porta inevitabilmente ad una diminuzione dei reati.»
Bevve un altro sorso mentre si gustava le reazioni dei presenti.
«Sia chiaro, questo processo non è stato né semplice né veloce. C’è voluto tanto impegno. Ovviamente, inizialmente, siamo dovuti scendere a dei compromessi con quella che era la nostra idea finale di ordinamento giuridico. Per qualche tempo abbiamo avuto un sistema ibrido, in parte molto simile a quello che voi ancora oggi adottate. Un regime transitorio che però, ve lo confesso, è durato molto meno del previsto.
Oggi, grazie all’impegno di tutti, abbiamo un legislatore in grado di emanare norme chiare, esattamente corrispondenti alle idee ispiratrici, compresa l’aderenza ai principi costituzionali contenuti in una Carta costituzionale formata da pochi articoli ma di una chiarezza assoluta, non diversamente interpretabili.» Ancora pausa. Lasciò che la curiosità prendesse il sopravvento sulle perplessità prima emerse. Ed assestò un nuovo colpo.
«Vi sorprenderà ma noi non abbiamo previsto una Corte costituzionale, perché la Costituzione propone principi limpidissimi e le norme vi si adeguano perché il nostro legislatore non se ne può discostare. Le questioni di legittimità costituzionale, ove ve ne fossero, vengono affrontate e risolte dallo stesso giudice di prima cura.»
Ormai aveva in pugno l’attenzione di tutti. «Allo stesso modo la pubblica amministrazione sa esattamente come applicare le norme. Non c’è bisogno di circolari esplicative, ma solo quelle, indispensabili, di tipo tecnico-applicative. Non ci sono specifici tribunali amministrativi a cui appellarsi perché i provvedimenti sono sempre aderenti alla legge, ciò grazie al fatto che le norme sono scritte in modo chiaro e puntuale. Da noi i provvedimenti della pubblica amministrazione sono sempre conformi alla legge.»
Appoggiò le lunghe dita sul bordo del leggio, quasi ad accarezzarlo. Tutto era apparecchiato per il colpo di grazia.
«E pure il potere giudiziario gode di questi benefici e quindi appare molto snello. I tribunali sono tutti monocratici, non è previsto alcun grado d’appello. Tutte le sentenze sono conformi alle precedenti, non vi è possibilità di discostarsi, semplicemente perché tutte aderiscono perfettamente ai principi giuridici generali.
E tanto meno esiste una Corte di Cassazione, e ancor meno delle Sezioni Unite, perché le sentenze sono tutte conformi alle norme, sia nel merito che nella loro legittimità.» Questa notizia, questa precisazione, investì i presenti come uno tsunami.
«Intuisco la vostra preoccupazione che in un sistema come il nostro il cittadino sia alla completa mercé di un giudice. Questo accade perché tutti voi siete convinti che solo un doppio o un triplo grado di giudizio possa tutelare un imputato o un richiedente giustizia.
Ciò è vero solo in parte.
Proviamo infatti a ragionare insieme. I gradi di giudizio successivi al primo sono fatti per correggere eventuali errori commessi in primo grado. L’appello nel merito dovrebbe essere una eccezione, non la regola. Anche una verifica sulla legittimità della sentenza dovrebbe essere un fatto raro, rarissimo. Ditemi ora, quante delle vostre cause si fermano al primo grado di giudizio? Quante vanno in appello? Quante arrivano addirittura in Cassazione? Quante volte le Sezioni Unite della Cassazione hanno dovuto ricomporre il contrasto sulla soluzione di una questione giuridica decisa in modo opposto dalle singole sezioni semplici?
Ricordate cosa ho appena detto: se qualcuno si rivolge ad un nuovo e diverso tribunale è perché crede – o così dovrebbe essere – di aver subito un torto e spera in un giudice, per così dire, più attento.
Ma è proprio nel momento in cui il giudice dell’appello ribalta una sentenza di primo grado che si palesa la fallacità di un tale sistema. Se con due sentenze, prima si dà ragione ad una parte e poi gli si dà torto, significa che uno dei due giudici ha sbagliato ad applicare la norma alla fattispecie. E questo o perché la norma è scritta in modo equivoco, prestandosi quindi a opposte letture – e la cosa è di una gravità assoluta – oppure uno dei due giudici l’ha interpretata male o secondo il proprio sentire o volere. In questo caso il problema è ancora più serio perché parliamo di una palese incapacità a svolgere il proprio lavoro. E vi pongo la questione in termini ancor più brutali: affidereste mai la vostra richiesta di giustizia ad un giudice che ha appena sbagliato in toto una precedente decisione?» L’affermazione era di una forza assoluta. Si stavano mettendo in discussione principi consolidati da secoli. E di ciò il dottor Zindwan era perfettamente consapevole.
«Mi spiego meglio. Se tutti i giudici avessero l’identica preparazione nel comprendere e nell’applicare una norma – dando come ovvio presupposto che questa sia stata scritta in modo ortodosso – il giudice dell’appello emetterebbe la medesima sentenza di condanna o di assoluzione.
Se così fosse, nessuna parte avrebbe più interesse a presentare appello nel merito o un ricorso sulla legittimità sapendo che la sentenza di primo grado verrebbe confermata. E ciò porterebbe, quale processo naturale, alla inutilità e alla dismissione dei Tribunali dell’appello.» Il ragionamento non faceva una piega. Qualcuno in sala pregustava una obiezione, un “però” che fu subito spazzato via. «Ovviamente non siamo degli sprovveduti e abbiamo considerato la, pur remota, possibilità che un giudice possa sbagliare a decidere. In questo caso è ammessa la segnalazione ad un Collegio del Riesame, composto da 3 saggi che riesaminerà la decisione e, se riterrà che il giudice ha sbagliato, avvierà un procedimento disciplinare al termine del quale, ove venisse accertata la negligenza, rimuoverà il giudice dalle sue funzioni.» Nascose un sorriso di autocompiacimento bevendo un altro sorso d’acqua. «So bene a cosa state pensando. E se il Collegio del Riesame sbagliasse a sua volta? In questo caso il giudice rimosso dalle proprie funzioni potrà presentare un ricorso al Consiglio Supremo dei Giudici, composto questo da 7 saggi, che nel caso accertasse l’illegittimità del provvedimento di rimozione procederà a reintegrare il giudice e a rimuovere dalle funzioni tutti i Giudici del Riesame, sostituendoli a loro volta. Permettetemi ora un poco di leggerezza ed una battuta: è la paura di perdere il lavoro il miglior deterrente a lavorare al meglio. Un regola che, peraltro, dovrebbe valere per tutte le professioni e in tutti i rapporti lavorativi.» L’intervento era prossimo a concludersi. Mancava il colpo finale. E lo assestò.
«E sapete quante decisioni sbagliate di giudici monocratici abbiamo avuto negli ultimi 3 anni? Zero. Lo ribadisco, zero.»
Un rappresentante di uno stato asiatico si alzò in piedi e abbozzò un applauso. Lo scroscio che ne seguì fu impressionante. Forse non furono esattamente i 92 minuti di applausi riservati al ragionier Fantozzi di lontana memoria per la battuta sul film la Corazzata Potëmkin ma di certo qualcosa che ci assomigliava parecchio.
Il giudice Zindwan fu l’ultimo ad abbandonare l’aula Congressi.
Guardò le pareti in legno scuro abbellite da splendidi intarsi in stile etnico di artisti locali e adornate da quadri ad olio raffiguranti tutti i centosettanta padri fondatori. Si fermò su quella di un uomo dagli occhi neri e profondi, lo sguardo magnetico.
La targhetta apposta sotto il quadro citava Ahmad Zindwan – 1960 / 2047.
Eh sì. Se ne era andato da pochi mesi. Guardò il padre e sottovoce sussurrò: “Abbiamo fatto un gran bel lavoro, che dici?” Il sorriso con cui era stato immortalato il genitore gli parve un cenno di assenso. Percorse il corridoio che divideva le due lunghe file di sedie fino a pochi istanti prima occupate dai congressisti. Arrivò alla porta, ne afferrò la grande maniglia in ottone e la tirò un poco a sé. Il suo sguardo si rivolse per un’ultima volta verso il palco. Ben visibile sulla parete centrale di quello che una volta era il Tribunale Supremo compariva ancora in bella vista quella scritta che riassumeva tutta la filosofia di quello splendido, grande paese africano. Era un aforisma di un italiano, apparso giusto 25 anni prima, a marzo 2023, sulla rubrica Senza Filtro della rivista online Sintesi dei Consulenti del lavoro di Milano.
Suo padre l’aveva letto durante un viaggio di piacere nel capoluogo lombardo e ne era rimasto affascinato.
Ne rilesse il testo e sorrise compiaciuto.
“OGNI CITTADINO HA DIRITTO
AD ESSERE GIUDICATO PER CIÒ CHE LA NORMA DISPONE E NON PER
COME UN GIUDICE LA INTERPRETA”.