SENZA FILTRO – IL PROCESSO

Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

In un’aula come tante, in un giorno come tanti, davanti ad un giudice come tanti e con l’assistenza di avvocati come tanti si discuteva una causa come tante.

Le carte, le parole, i fatti, le questioni, il tempo scorrevano come un grande fiume placido, impercettibile ma inarrestabile, innocuo ma invincibile, senza sussulti ma travolgente. La Ferroesudore srl, piccola officina meccanica dell’hinterland milanese, aveva licenziato il Gino, bravo ed esperto operaio, in forza di una crisi (improvvisa ma in prospettiva, purtroppo non temporanea) che aveva costretto a limitare pesantemente i costi. Forse, ho detto forse, non era estranea alla decisione di licenziare il fatto che il Gino fosse sì un valente operaio (in certe narrazioni campate per aria, come il cervello di chi le propina, pare che la massima libidine di un datore di lavoro sia quella di licenziare, ma avviene esattamente il contrario: uno, i bravi, di solito se li tiene stretti) ma era anche uno libero ed indipendente, che non le mandava a dire, non come certi lacchè di cui è pieno il mondo: gli errori dell’azienda li faceva notare, non ultimo quello di inserire da qualche anno a dirigere il lavoro il figlio del titolare, viziato, pigro ed inesperto, che senza la sacrosanta gavetta prendeva decisioni a sentimento sostenute scioccamente a spada tratta dal padre, fondatore dell’impresa; la mela era, ahimè, caduta molto lontana dall’albero ed era uno di quei casi – non rari purtroppo – in cui il cieco affetto genitoriale è il peggior viatico per la strada del figlio (e, se siamo in ambito imprenditoriale, anche per l’azienda stessa). Non era in discussione, invero, il momento di crisi della Ferroesudore: numeri alla mano, sapientemente documentati nella difesa aziendale, la flessione c’era ed era sensibile; e in un’aziendina di 15 dipendenti anche uno stipendio in più o in meno poteva fare una certa differenza. Semmai, cio’ di cui si discuteva era il perché la mannaia fosse caduta proprio sul Gino, che, forte dei suoi anni di esperienza e padre di tre figli e con moglie a carico forse, almeno apparentemente, non sembrava proprio “il primo della lista” sacrificabile, secondo i benedetti principi di buona fede ed oggettività. E difatti di cio’ si dibatteva: su 15 cristiani, perché il Gino?

Il quale Gino, a dispetto del consiglio di parenti ed amici, avrebbe voluto ricorrere e presentarsi all’udienza da solo, forte di poter sostenere le proprie ragioni senza l’assistenza di nessuno, o come diceva lui, di “vedere a che punto siamo giunti con la giustizia in Italia” (sono parole sue, che riportiamo fedelmente sine glossa). Solo alla fine aveva di cattivo grado accettato di farsi seguire in causa da un lontano cugino della moglie, giovane abogado diventato avvocato dopo l’iter di validazione, cooptato alla causa più per parentela che per esperienza.

“Vede, sig. Giudice – arringava l’Avv. Gecosulvetro, difensore dell’azienda – abbiamo ampiamente documentato come la scelta del licenziamento del ricorrente fosse l’unica possibile. E lo dimostreremo anche qui con ampia evidenza. Cominciamo col dire che dei 15, tre sono impiegati: una è l’amministrativa e due sono disegnatore/progettista tecnico, figure uniche e percio’ ampiamente insostituibili nel risicato panorama aziendale”. “Va bene – rispondeva il giudice Sbadiglioni – ma gli altri?”

Il Gecosulvetro non aspettava altro per proseguire: “Poi abbiamo il quadro, responsabile di produzione (NDR si tratta del figlio degenere e pasticcione) ed inoltre il capofficina, espressioni stesse del titolare e ad un livello superiore”. “Capisco, e così togliamo anche quelli. Ma ne rimangono pur sempre 10”.

“Continuiamo con escludere anche il dipendente Ambrosetti: egli è stato assunto un annetto fa,

quando la ditta aveva 15 dipendenti e fu costretta ai sensi della L. n. 68/99 ad assumere un disabile (NDR era un disabile c.d. “di lusso”, persona del tutto normale ma che per via di un diabete di lunga memoria – che fortunatamente non gli creava particolari disagi – aveva ottenuto il punteggio all’uopo necessario). Poi, un operaio è andato in pensione ma l’azienda ha comunque 15 dipendenti ed è soggetta all’obbligo del collocamento obbligatorio. Ora sig. Giudice, Lei sa bene che in caso di riduzione di personale, non pu essere intaccata la quota di riserva obbligatoria per legge – e quindi togliamo anche quello”.

“D’accordo avvocato” – disse lo Sbagìdiglioni, il quale già si spazientiva; si stava allungando la cosa e non voleva certo arrivare in ritardo al pranzo offerto proprio quel giorno a lui ed altri colleghi dalla casa editrice Cartacanta s.p.a.: chissà che non ci scappasse qualche incarico, qualche articolo o studio, portatori di un po’ di gloria e/o pecunia – vada avanti, La prego”. “Poi abbiamo la sig.ra Gloriani, appena rientrata dalla maternità obbligatoria, intoccabile per legge fino al compimento di un anno di vita del bambino. E la Ferrosudore mica puo’ aspettare 9 mesi per ridurre i costi, ammesso che poi sia così facile il licenziamento anche dopo. Sa, qui fra norme antidiscriminazione e parità di genere agire sull’unica dipendente neo-mamma dell’azienda diventa altamente rischioso e controproducente, e poi magari si perdono gli accessi ad agevolazioni importanti o ad appalti interessanti.

Lo stesso caso riguarda i sigg.ri Ferrucci e Gagliardi”.

“Avvocato, non mi dica che anche questi sono in maternità !”- sbotto’ il giudice. “Maternità no, ma paternità sì. Entrambi hanno avuto un figlio dalle rispettive compagne ed hanno richiesto di fruire del congedo di paternità per qualche giorno. Anche per essi scatta pertanto il divieto di licenziamento, sa il Decreto legislativo n. 105/2022 …”. “So tutto” – disse uno Sbadiglioni sempre più inquieto.

“E poi ci sono le signore Quagli e Fagiani che hanno appena annunciato di voler convolare felicemente a nozze, ed hanno effettuato le pubblicazioni in Municipio. Certo, è giugno e loro pensano di sposarsi una in ottobre, l’altra forse in novembre forse l’anno prossimo, ma come Lei ben sa, signor giudice, sussiste per le lavoratrici un divieto di licenziamento dal giorno delle pubblicazioni (NDR senza limite rispetto alla data del matrimonio) fino ad un anno dalla celebrazione del matrimonio”.

Qui peraltro l’Avvocato ometteva di considerare, cosa che il Gino aveva fatto presente nel ricorso, che il Gagliardi era un impenitente donnaiolo, che si diceva aver seminato figli un po’ in giro per il mondo, ma che vista la malparata aziendale (e considerando le minacce di azioni legali, e non solo, dei parenti dell’ultima ragazza inguaiata) aveva riscoperto un improvviso senso di paternità. E che le due signore nubende, già in età e senza figli, in realtà convivevano da parecchi anni coi rispettivi partner, ma che, consigliate maliziosamente da un sapiente consulente amico di una delle due, avevano messo in piedi l’escamotage del matrimonio per uscire dalla conta dei licenziabili (d’altronde, se Parigi val bene una messa anche un posto di lavoro val bene una cerimonia in Comune, peraltro oggigiorno facilmente revocabile se le cose poi non andassero bene). “E poi – proseguì il Gecosulvetro – c’è il caso Tomboloni. Sa, signor giudice, il Tomboloni è stato assunto pochi mesi fa a tempo determinato per 12 mesi (quando ancora non si sapeva della crisi improvvisa). E sono passati solo tre mesi. Come Lei ben sa, il lavoratore a tempo determinato puo’ essere licenziato solo per giusta causa (e qui siamo palesemente in un motivo oggettivo). Non solo, all’atto dell’assunzione il Tomboloni ha preteso non so quali e quante informazioni – anche in modo un po’ strumentale, mi lasci dire, è che su queste lettere non si sapeva più cosa scrivere – appellandosi al Decreto legislativo n. 104/22. Ne è nata una disputa risolta con una disposizione ed una sanzione emanate da un fin troppo zelante Ispettorato territoriale; Lei capisce bene che un licenziamento a questo punto, oltre che non consentito per quanto detto prima, potrebbe esser considerato palesemente ritorsivo.

E chi si arrischia oggi?”.

Il giudice annuì. E sospiro’ … “Ma rimangono ancora due prima del ricorrente”. “Quella degli ultimi due, che per privacy non abbiamo voluto menzionare in ricorso, è una storia un po’ particolare. Vede, signor giudice, qui… il tornio è stato galeotto. Riccardo e Roberto, dopo qualche anno di lavoro insieme, hanno scoperto … diciamo, una loro dimensione affettiva e sono convolati ad unione civile giusto poco prima del licenziamento del ricorrente. Lei converrà, signor giudice, che in questa situazione, la probabilità che in caso di licenziamento si appellino a principi di non discriminazione e, inoltre, di oggettivo riporto del caso al divieto di licenziamento in caso di matrimonio (già qualche sentenza ci ha provato) ha sconsigliato l’azienda di prenderli in considerazione. “Insomma – sbotto’ a questo punto, e infelicemente, l’avvocato-fu-abogado, che fino a quel momento era stato zitto – il mio cliente viene licenziato perché è l’unico caso normale in azienda! “Lei non si deve permettere – interruppe urlando lo Sbadiglioni, non si sa se per intima convinzione o perché le cose stavano andando troppo in là per i suoi gusti (e i suoi impegni) – di usare questa parola, con tutto il carico di giudizio implicito e di discriminazione che comporta. Chè qui stiamo parlando di diritti civili, non di bruscolini. E qualificare qualcuno in ragione di una sua presunta diversità è davvero meschino e riprovevole!” (il giudice, fino allora palesemente annoiato e distante, si era improvvisamente rianimato ed era diventato furibondo, quasi paonazzo…).

Fu lì che il Gino si alzo’.

“Chiedo la parola” – disse, e nessuno si sogno’ di negargliela. C’era in lui, e incuteva rispetto, un senso di dignità e rassegnazione, umile ma anche decisa al tempo stesso. Con il cappello fra le mani e l’espressione mansueta ma ferma, la giacca stropicciata, di evidente acquisto antico, diventata stretta e portata come chi non è uso indossarla, sembrava uscito da un mix di quadri famosi, un po’ “Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo, un po’ “L’Angelus” di Millet. “Chiedo anzitutto scusa per l’espressione usata dal mio “avvocato”, che io non volevo nemmeno, ma questa è una cosa di cui poi parlero’ con mia moglie… È vero, concordo con Lei, signor Giudice. Non c’è nessuno anormale o normale, e anzi se davvero c’è qualcuno di anormale qua sono proprio io. Sposato da giovane con la donna che amavo ed amo ancora, abbiamo fatto tre figli e dal secondo in poi abbiamo deciso, fra mille sacrifici, che uno di noi avrebbe fatto il genitore a tempo pieno; la scelta è caduta su mia moglie perché nel frattempo aveva perso il lavoro e io credevo che il mio qui fosse sicuro. Ho seguito con attenzione il dibattimento di oggi e, come disse una volta Mourinho -sì, sono anche interista, forse è un’anomalia pure questa…- non sono un pirla. Ho visto come annuiva, signor giudice, alla dotta esposizione dell’altro avvocato e mi aspetto già il responso finale, che non attendere. Pero’ mi è apparsa chiaramente una cosa. Sa, è curioso, mi è tornata in mente una frase di un libro che lessi tanti anni fa. Al mondo non c’è nessuno di anormale, è vero, siamo tutti diversi ed unici, ognuno ha la sua storia e merita rispetto e considerazione; ma oggi ho capito che se tutti siamo, a nostro modo, normali, per una serie di cose che non so giudicare c’è qualcuno … più normale degli altri.

Vi ringrazio e vi saluto”.

E da in piedi com’era se ne ando’.

Nella stanza calo’ un silenzio surreale.


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