Capita talvolta di essere folgorati, come S. Paolo sulla via di Damasco, incontrando disegni di legge che ti lasciano da subito una forte impressione. Differentemente dall’Apostolo delle Genti, tuttavia, molto più spesso questa folgorazione (bisogna aggiungere: purtroppo) ha effetti tutt’altro che positivi, lasciando in bocca un senso di amaro, di incompiutezza, di irragionevolezza, di improvvisazione, a seconda del (de)grado del disegno stesso.
Di fonte al Disegno di legge n. 2790, presentato al Senato nell’aprile di quest’anno ad opera del Senatore Gaetano Quagliariello, le perplessità sono molte (nota bene: il termine “perplessità” ha invero un altissimo coefficiente di eufemismo, ma è stato accuratamente selezionato da chi scrive, diverse volte rimproverato rispetto al tono troppo caustico di questa Rubrica).
Il disegno ha un titolo accattivante: “Disposizioni per il riequilibrio delle competenze in materia di consulenza del lavoro e per l’introduzione di tutele per i professionisti”, dal quale già si può cominciare a comprendere il metodo, antico ma pur sempre efficace, del rimescolamento di temi del tutto diversi fra di loro, allo fine di attenuare e nascondere quello che sembra essere l’interesse reale e il vero scopo di un’azione.
Ma andiamo per ordine, seguendo anche la relazione introduttiva, più illuminante dello stesso disegno di legge.
La proposta normativa si divide in tre parti, senza una grande correlazione fra di loro, ciascuna della quali presenta parecchie incongruenze, salvo la linearità (apparente) della prima che, forse maliziosamente, ci appare come il vero scopo nascosto.
La prima parte (artt. 1-3), infatti, si occupa del riequilibrio delle competenze in materia di consulenza del lavoro (un problema sentitissimo nel Paese, che evidentemente non ne ha di più seri) e propone di assegnare anche a ragionieri, commercialisti, avvocati e procuratori legali alcune competenze che diverse norme hanno via via riservato ai consulenti del lavoro: in particolare si tratta della possibilità di trasmettere le dimissioni telematiche, di instaurare commissioni di conciliazione in materia di lavoro presso i consigli provinciali e di assistere i lavoratori nelle sedi conciliative e di certificazione.
L’estensore della norma parte da un concetto di fondo, e cioè che dal momento che la legge n. 12/1979 comprende fra i soggetti che possono svolgere adempimenti in materia di lavoro non solo i consulenti del lavoro ma anche le predette categorie, ad esse deve essere estesa la facoltà di fare tutto ciò che possono fare i consulenti del lavoro. Le conquiste di specialità riconosciute ai Consulenti del lavoro rappresenterebbero, per chi ha pensato il DdL, una “ingiustificata disparità” fonte di “erosione delle competenze” delle suddette categorie “progressiva ed inesorabile” (è davvero preoccupante: normalmente infatti avvocati e commercialisti li si trovano in fila alla mensa dei poveri o agli uffici comunali di assistenza a chiedere un sussidio …).
La considerazione da cui parte l’estensore della proposta normativa è una specie di sillogismo: i consulenti del lavoro hanno delle facoltà, anche altri professionisti possono assistere le aziende in materia di lavoro, tutto ciò che possono fare i consulenti del lavoro lo possono fare anche gli altri.
Ma questo sillogismo in realtà, nella sua ultima conclusione fa scaturire altre connessioni logiche davvero ingiuste: se molti altri professionisti possono fare ciò che fanno i consulenti del lavoro,
i consulenti del lavoro sono una categoria (sostanzialmente) inutile,
o – alla meno peggio –
il consulente del lavoro è un “professionista minus habens” rispetto ad altri professionisti che oltre al loro (cioè alle riserve di legge che tali professioni hanno) possono fare anche tutto ciò che fa il consulente del lavoro.
Sotto un profilo logico consequenziale, in buona sostanza, ci stanno dicendo che la nostra professione non vale niente (anzi: noi come professionisti valiamo poco o niente, perché le nostre aree di intervento in realtà fanno evidentemente gola a molti).
Può pure darsi che è proprio questo che si voglia dire (qualcuno indubbiamente lo penserà anche), ma si permetta di osservare che non ha senso una professione che non si caratterizzi in senso distintivo da ciò che fanno altre professioni. Quindi il sillogismo è in realtà illogico e pretestuoso.
Bisognerebbe più correttamente andare al senso storico della L. 12/79, che ha focalizzato competenze ed attenzioni che da lì a poco avrebbero catalizzato la vita sociale del Paese (tanto che quasi ogni Governo succeduto negli ultimi 25 anni ha sentito l’esigenza di emanare una “sua” riforma del lavoro); quella legge, approvata in un clima di ostilità verso la professione nascente, ha dovuto pagare il prezzo di accondiscendere a che altre professioni ed altri soggetti potessero esercitare l’assistenza verso le imprese in materia di lavoro – e per quanto concerne quel tempo, tale norma di raccordo aveva anche un senso, impedendo che improvvisamente tutti avessero dovuto dotarsi di un consulente del lavoro e fotografando uno stato di fatto (del 1979) che però è oggi profondamente cambiato,a partire dalle condizioni di accesso alla professione del consulente del lavoro.
Il quale sempre più si è ritagliato una dimensione non solo di “realizzatore di adempimenti”, ma di soggetto competente in materia di lavoro ed in grado di assistere (talvolta anche con la necessaria terzietà) tutte le parti coinvolte nel processo del rapporto di lavoro (subordinato e non), attento non solo a svolgere ”le pratiche” ma alle profonde dinamiche finanche personali che si agitano intorno a tale rapporto e che richiedono competenze e preparazione specifica. L’abbiamo detto più volte in questa Rivista: il consulente del lavoro sta diventando sempre di più un soggetto che si occupa di persone e dei loro bisogni.
L’affronto alla nostra professione (quale è, in fondo questa proposta di legge) è quindi, oltre che illogico, antistorico perché compara una legge del 1979 al presente senza tener conto dell’evoluzione della società e delle complessità legate al mondo del lavoro. Solo per fare un esempio: il diploma in ragioneria oggi non è più sufficiente per accedere alla professione del consulente del lavoro, ma a quella del ragioniere sì, tuttavia il ragioniere, a mente della L. n. 12/1979 può fare il consulente del lavoro: una bella discrasia, no? Senza contare che la differenza dell’ambito professionale già si evince chiaramente dai Ministeri che vigilano sui rispettivi Ordini: solo i Consulenti del lavoro sono sotto la vigilanza del Ministero del lavoro, a commercialisti e avvocati pensa il Ministero della Giustizia. Anche qui, un motivo ci sarà …
Si noti infine che, volendo fare un favore ad avvocati e commercialisti, l’estensore del DdL incappa in un clamoroso effetto boomerang quando arriva ad invocare in maniera sproporzionata e spropositata il principio della libertà di concorrenza. Vale la pena di riportare il passaggio in questione della relazione introduttiva al DdL.
“Una delle ragioni d’esser primarie dell’Unione Europea (è) la creazione di un mercato unico in cui tutti gli operatori economici possano interagire tra loro in libertà di azione e movimento. Tale principio, spesso impropriamente riferito alle sole imprese, deve necessariamente includere anche i liberi professionisti nonché i soggetti prestatori di servizi, in modo da riportare all’interno del mercato nazionale (e di conseguenza europeo) l’equilibrio necessario.”
Forse chi scrive sbaglierà, ma questo “tutti possono fare tutto” sembra esattamente la negazione del principio di riserva di legge a determinate professioni in forza della tutela della fede pubblica e del pubblico bene che tali riserve intendono preservare in determinate aree. Nella foga di sparare contro i consulenti del lavoro, ci si spara addosso come professionisti: sembra un po’ come quei genitori in conflitto in cui uno dei due non capisce che delegittimare (o peggio) gratuitamente l’altro mina soprattutto il senso di autorità, di stima e di rispetto dei figli verso entrambi i genitori.
Si apprende, dal testo della norma, della preoccupazione dell’estensore rispetto al fatto che il commercialista non possa assicurarsi per il rischio di sanzioni tributarie.
Tale vincolo deve probabilmente essere stato superato dalla prassi, in quanto risulta a chi scrive che le assicurazioni per la responsabilità civile professionale coprano (eccome) anche le sanzioni tributarie a cui sono esposti i clienti per errori del professionista. Tuttavia, volendo anche risolvere direttamente quello che per chi ha proposto la norma deve risultare un tremendo dilemma (probabilmente da non dormirci la notte, al pari dell’ingiustificata disparità del capo precedente) si prevede che:
i professionisti ordinistici debbano stipulare assicurazioni per coprire i clienti per danni derivanti dall’esercizio della propria attività professionale;le sanzioni tributarie siano irrogate al soggetto che ne ha tratto effettivo beneficio, con diritto di rivalsa nei confronti del professionista;
se invece il professionista non ha stipulato la polizza, le sanzioni sono irrogate direttamente al professionista.
Sul primo punto, così, a memoria, ci pare che l’obbligo già esista dal 15 agosto 2013, in forza del D.P.R. n. 137/2012, art. 5, e pertanto il passaggio normativo sembra una ripetizione piuttosto inutile.
Sul secondo punto, appare piuttosto rischioso esprimere il concetto legato unicamente alle sanzioni tributarie: se abbiamo intuito la preoccupazione del legislatore proponente, forse sarebbe opportuno e prudente specificare che si vuole estendere il concetto, e non limitarlo (basterebbe scrivere: “le sanzioni amministrative, anche di carattere tributario” …). Poco idonea sembra anche l’espressione “al soggetto che ne ha tratto effettivo beneficio”, che apre un mondo di ipotesi su chi possa aver tratto beneficio da un’eventuale violazione nonché se poi si sia trattato davvero di un qualche beneficio (ad esempio su un documento presentato in ritardo, il concetto del beneficio è in sè un po’ sfuggente).
Invece complicata e del tutto assurda è la norma che prevede che il professionista senza assicurazione sia il diretto destinatario della sanzione. Assurda perché in caso di sanzione per propria colpa il professionista sarebbe comunque tenuto a rispondere al cliente, e quindi in prima battuta o è solvibile o non lo è. Peraltro, ricordiamo che la mancata stipula della polizza e la comunicazione al cliente rappresenta un illecito sanzionato dagli ordini professionali, quindi tale previsione di legge rappresenterebbe quasi un bis in idem.
Ma l’assurdità più profonda è che si getterebbe l’Amministrazione Pubblica in una situazione kafkiana: chi non vive su Marte sa che molto spesso il confine fra la responsabilità del professionista e la colpa del cliente è abbastanza labile, e si costruisce su cose dette o non dette, oppure dette male o capite peggio, su incarichi affidati o forse no; insomma, spesso la complessità del discernimento di chi è la colpa è davvero alta. A disegno di legge approvato (speriamo mai), nel momento in cui il funzionario dovesse irrogare una sanzione al trasgressore normale (il soggetto persona titolare, in proprio o quale legale rappresentante, del rapporto con la P. A.) potrebbe vedersi respinta la sanzione in forza della colpa da attribuirsi al professionista non assicurato. Situazione grottesca, in cui lo scarico di responsabilità fra il professionista non assicurato ed il cliente potrebbe mettere in seria difficoltà la corretta identificazione del trasgressore (destinatario della sanzione), addirittura con il rischio di vanificare l’effetto deterrente della sanzione stessa: ben lungi dall’essere evitato come la peste, il professionista non assicurato sarebbe al contrario ricercatissimo qualora un soggetto volesse giocare sull’ambiguità delle responsabilità per dilazionare o magari evitare del tutto gli effetti economici di una sanzione.
L’ultima parte della norma assume quasi la forma (insidiosa) di una captatio benevolentiae, visto quanto stabilito nei Capi precedenti.
Qui il legislatore si prende a cuore il problema del professionista che, infortunato o gravemente malato (con corretta certificazione medica e possibilità di controllo della veridicità della stessa), per tale ragione non riesce a portare a termine gli adempimenti (una prestazione) da eseguirsi nei trenta giorni successivi all’evento. In tal caso, i termini relativi agli adempimenti sono sospesi fino a 45 giorni dopo la conclusione dell’evento (dimissione dalla struttura sanitaria o termine delle cure domiciliari). Stessa previsione in caso di parto prematuro o interruzione di gravidanza (in questo caso la sospensione vale fino al trentesimo giorno successivo); curioso che invece per il parto normale non sia prevista alcuna sospensione, alla faccia della conciliazione vita-lavoro.
In caso di decesso del professionista, la sospensione è inoltre prevista per sei mesi.
La norma non vale solo per i professionisti ordinistici ma viene estesa anche a i titolari individuali di lavoro autonomo o di impresa oppure (se il soggetto colpito risulta essere l’unico amministratore) ai soci di società di persone o di S.r.l.
Questa parte della norma scaturirebbe anche da una buona intenzione – ed in tal senso potrebbe essere affinata – ma ancora una volta sembra destinata per lo più a professionisti che si occupino di meri adempimenti (idem per quanto riguarda le imprese).
Per dirla tutta, una norma che permetta di dilazionare aspetti di natura dichiarativa e verso la sola P.A. mal si attaglia alla professione del consulente del lavoro, il quale, proprio in forza della specificità del proprio operato, potrà anche beneficiare del rinvio di adempimenti in scadenza ma ha compiti (uno su tutti, ma non è certo il solo: gli stipendi ogni mese) che difficilmente possono esser dilazionati e che sono conseguenti non tanto al rapporto con lo Stato ma al destinatario più debole del rapporto di lavoro: il lavoratore (eh sì, ancora una volta ci si occupa di persone, non di adempimenti formali).
Non a caso proprio l’Ordine dei Consulenti del lavoro sta pensando di creare (e non è cosa facile) una rete di assistenza ai colleghi in difficoltà anche con casistiche più estese di quelle individuate dalla legge (iniziativa in fase di start-up con il nome di “ Progetto WEL.CO.M.E.”).
Insomma, l’impossibilità sopravvenuta di esercitare la propria professione, ordinistica o meno che sia, si trova a fare i conti non solo e non tanto con gli adempimenti, ma in prima battuta deve fronteggiare l’esclusione dal mercato per il fatto di non poter far fronte (per le emergenze personali sopravvenute) agli impegni e agli interventi di cui i clienti necessitano. E quindi solo una rete di solidarietà può risolvere il problema, poi il lavoratore autonomo può essere coadiuvato certamente anche da un “rilassamento” sul fronte delle scadenze.
Ci si consenta però un osservazione: da anni il nostro Centro Studi milanese ha proposto e riproposto (proposta poi ripresa a livello nazionale) la sospensione di alcuni adempimenti – in particolare, cartelle pazze e verbali complessi – in scadenza durante il periodo feriale, argomento ben più semplice ed immediato di quello affrontato dalla norma in commento ma che non ha avuto ad oggi alcun riscontro.
Sarebbe grottesco che al professionista ammalatosi – magari perchè costretto a “tirarsi il collo” 12 mesi su 12 – si conceda poi ”il contentino” di presentare in ritardo qualche dichiarazione mentre la sua vita professionale e personale è andata a rotoli.
Stiamo parlando di un disegno di legge che con la professione dei consulenti del lavoro non c’entra nulla, disprezzandone il ruolo e le competenze specifiche (ma non il volume d’affari, ovviamente) e che sembra ispirata ad (qualora non addirittura ispirata da) altre professioni.
Ciò anche per il corpo complessivo delle proposte normative, che non sembra ben calibrato e messo lì un po’ a casaccio come contorno a quello che ci appare come il vero significato della norma: erodere (questo sì ed in maniera pesante) le competenze specifiche che i consulenti del lavoro si sono conquistati sul campo e che sono il riconoscimento della professionalità dimostrata dagli stessi e del loro ambito caratteristico di competenza.
È ora non di fare proposte normative poco decenti e mascherate di una ragionevolezza che davvero non traspare dal testo normativo in esame, ma di cambiare una legge – la n. 12/1979 – che vede i consulenti del lavoro ingiustamente succubi di altre professioni e di altre figure anche non professionali.
Perché se il lavoro è fondamentale nella vita delle persone, chi opera intorno al lavoro deve avere una particolare attenzione ed una peculiare sensibilità professionale. Chi non ce l’ha … se ne faccia una ragione.