“Mi aspetto mille scuse, come sempre da te, “ sei un fiume di parole, dove anneghi anche me. Che bravo che sei… Ma questo linguaggio da talk show cosa c’entra con noi ?” (Jalisse – “Fiumi di parole”)
I meno giovani ricorderanno sicuramente i Jalisse, una coppia di outsider che a sorpresa vinse nel 1997 il Festival di Sanremo con il brano il cui titolo abbiamo qui preso a prestito. Voi vi chiederete cosa c’entra con i temi che qui di solito trattiamo una canzone che rimprovera con amarezza ad un (presunto) amante di essere solo un parolaio ingannatore e vacuo, che non parla al cuore ma confonde e basta, ciarla e cincischia, tanto da suscitare una distanza sprezzante nella partner (“io che perdo il tuo rispetto, sarebbe meglio un addio”). Abbandonando le suggestioni sanremesi, ciò che ci sta sommergendo sempre più sono proprio fiumi di parole, cascate immense di concetti tanto da portarci sinceramente alla nausea, alla repulsione (siamo forse alla settantacinquesima versione di cosa fare con le dimissioni per fatti concludenti, compresa la recente “circolare di primavera” che nel pur lodevole tentativo di chiarire aumenta il tira-e-molla: ma anche basta…). Non fraintendetemi. Amo la parola e le infinite possibilità espressive del linguaggio, la sua precisione, le sfumature di concetti (oggi purtroppo troppo spesso ridotte a un dozzinale like/notlike, ad un partigiano o- di-qua-o-di-là), mi piace conoscere le espressioni caratteristiche di qualche parte del mondo che apre squarci su culture e visioni del mondo da altre angolazioni; amo anche la poesia, l’emozione, l’allegria, la sorpresa, la leggerezza e l’ironia che le parole possono regalarti, adoro pure i discorsi che ti portano un po’ in giro prima di raggiungere la meta, come in quei percorsi panoramici che ti fanno scoprire angoli che per la fretta di arrivare non avresti scorto mai. Amo anche la riflessione intelligente, e – per deformazione professionale – pure l’onesto sforzo dell’interpretazione giuridica. Ma è proprio per quello che non sopporto l’inutilità, la vacuità, l’insipienza o – a volte, peggio ancora – la strumentalità delle parole. Si versano, sempre più spesso, fiumi di parole per spiegare ed interpretare una norma (peraltro con poca utilità, perché per come è scritta si può dire di tutto ed il suo contrario). Mi chiedo se invece di spendere tante energie non sarebbe più utile una legge elaborata in modo decente. Magari una legge, voglio esagerare, non solo di cui si apprezzi il significato (che sovente nemmeno quello è chiaro per nulla) ma anche come attuarla. E, voglio arrivare alla fantascienza, una norma di facile applicazione, che semplifichi un’esistenza già tanto impegnativa invece di complicarla senza senso. Di quali norme sto parlando? Dai, lo sapete, un elenco sarebbe troppo lungo, purtroppo tutta questa Rivista non basterebbe. Perchè poi arrivano, spesso vere e proprie inondazioni, fiumi di parole proprio per come intendere e applicare una norma, anche da Enti ed Istituzioni che di parole dovrebbero essere parchi e meditarle prima di darle in pasto a tutti, in funzione del loro ruolo. Soggetti che dovrebbero parlare con l’equilibrio proprio di una Pubblica Amministrazione, invece che tirare l’acqua al proprio presunto mulino. Ci sono fiumi di parole degli espertoni, quelli che sembra non aspettino l’occasione di una legge strampalata per scatenarsi con sproloqui a volte apprezzabili ma più spesso involuti su sè stessi, forse solo per dire: “vedete come sono bravo, ora argomento dal pulpito e vi inondo di verità”. A volte mi viene il dubbio che facciano loro il tifo perché una norma sia partorita a casaccio, per poterci discettare sopra. Ma a chi lavora, serve la chiarezza, per chi opera nel concreto la voluttà interpretativa giunge spesso fastidiosa e petulante. Ci sono i fiumi di parole giuridici, quelli che fanno a brandelli una norma, la vivisezionano e la rivoltano come una frittata fino finalmente a trovare i significati che in qualche modo appoggiano la tesi desiderata. Che poi poco importa se sia qualche dottrina azzardata o qualche sentenza che a rileggerla anche per la quarta volta ancora non ci credi. A volte mi viene in mente il noto episodio di quel famoso avvocato che davanti al copioso ricorso presentatogli da un giovane zelante collaboratore di studio esclamò “Così lungo? Allora abbiamo torto!”. Perché la verità, e l’autenticità, è una cosa semplice. Lo diceva anche Lui: “Il vostro parlare sia sì-sì no-no. Il di più viene dal maligno (Mt 5, 33). E infine ci sono, specie ultimamente, fiumi di parole per difendere una norma, per magnificarla, per esaltarne un’effimera ed inconsistente grandezza. Incuranti che se già una norma ha bisogno di troppe parole per essere spiegata è il primo sintomo di malfunzionamento, figurarsi per difenderla. Si sa che viene fatto per partigianeria, per accondiscendenza, per subalternità, oppure anche solo per servile piaggeria, mischiata talvolta alla convenienza personale. Mandando così al macero in un colpo solo la dirittura professionale e l’onestà intellettuale. O giungendo persino a dare del minus habens a chi la norma non l’ha (giustamente e onestamente) capita o altrettanto legittimamente la critica. Questi, tutti insieme, sono fiumi di parole che avviliscono, che distruggono, che ingannano, che tentano di plasmare malamente la realtà alla propria gretta misura. Mentre tutto cade, silenziosamente ed inesorabilmente, a pezzi. E allora ci fermiamo, tagliamo noi per un attimo i discorsi (solo per questo attimo, si intende, non ci ridurremo mai al silenzio). Ai fiumi di parole opponiamo un concetto semplice, corto, sintetico (avete mai notato? Questa Rivista si chiama proprio “Sintesi”): fate leggi corrette, ben pensate prima, attuabili, concrete, semplici, chiare, esigibili, giuste, mirate. Saremo i primi ad applicarle lietamente, pure applaudendole, felici di poter tornare a parlare di cose più serie e concrete. Per favore. Grazie. Sssshhhhh