Siamo abituati a norme poco chiare. Ci siamo abituati anche a norme prima emanate e poi riviste, modificate, corrette. Siamo ormai abituati ad istruzioni operative che tardano ad arrivare. Siamo abituati a prendere tempo con i Clienti.
Semplicemente, ci abbiamo fatto il callo.
Tutto questo però porta con sé non poche difficoltà in chi deve essere sempre aggiornato – o almeno ci prova – e che quelle norme, volente o nolente, deve applicarle.
In questo mare magnum di provvedimenti legislativi che spuntano come funghi, avete mai avuto la sensazione di sentirvi spaesati? Si cerca di rimanere a galla e non farsi soffocare da Leggi spesso incomplete o confusionarie, di fronte alle quali ci si sente talvolta inermi.
Partiamo da un assunto banale: le dimissioni rappresentano l’atto, unilaterale e ricettizio, con cui il lavoratore manifesta la propria volontà di porre fine ad un rapporto di lavoro di natura subordinata, sia esso a tempo determinato o indeterminato.
Ma siamo sicuri che questo concetto sia davvero così banale e scontato?
Abbiamo detto che si tratta di una manifestazione di volontà e di un atto unilaterale. Beh, nonostante questo concetto banale, di recente abbiamo assistito all’introduzione delle tanto agognate (e tanto odiate!) dimissioni per fatti concludenti ad opera del Collegato Lavoro alla Legge di Bilancio (L. n. 203/2024), che ha introdotto il comma 7-bis dell’art. 26, D.lgs. n. 151/2015.
Sebbene la norma avesse intento di semplificare, la stessa ha generato non poca incertezza. E di fronte a questa incertezza, secondo voi, di chi è diventato il problema? In primis, dei datori di lavoro, che non sanno se effettivamente possono considerare valido il recesso di un lavoratore che sparisce facendo perdere le sue tracce (e che poi magari, con tutta calma, riappare per rassegnare le dimissioni). Ma è indubbiamente anche un problema degli addetti ai lavori, come noi Consulenti del lavoro, costretti – come ahimè sempre più spesso accade – a navigare in acque incerte e poco limpide.
Naturalmente siamo noi che sbagliamo, perché pretendiamo troppo! Non è mica così semplice partorire una norma che non generi dubbi e che non sia seguita da chiarimenti, correttivi vari e chi più ne ha più ne metta.
Uno degli aspetti che lascia maggiormente sbigottiti è che, sebbene se ne sia discusso per mesi, la norma presenta non poche criticità.
Ma andiamo per gradi…
L’articolo 7-bis prevede che, “in caso di assenza ingiustificata che si protragga oltre il termine previsto dal contratto collettivo oppure, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a 15 giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione all’ITL, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. (…) Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.
Quindi, se un lavoratore si assenta dal lavoro per oltre 15 giorni e non fornisce alcuna giustificazione, salvo che poi questi provi che non era in grado di giustificarsi nel termine stabilito, l’assenza si qualifica come dimissioni implicite, che consentono al datore di lavoro – previa verifica dell’Ispettorato territorialmente competente – di considerare il rapporto di lavoro concluso, senza che il lavoratore possa avere accesso alla NASpI.
Sul punto è intervenuta, tra le altre, la circolare n. 6/2025 del Ministero del Lavoro, la quale ha precisato che i 15 giorni costituiscono il termine legale minimo e che l’eventuale diverso termine previsto dalla contrattazione collettiva non può essere inferiore. In altre parole, il Ministero, con la circolare di cui sopra, ha precisato che alla contrattazione collettiva è consentita la sola deroga in melius (perché?).
Il Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, con una lettera del 2 aprile scorso, ha sollevato perplessità in merito all’interpretazione data ai 15 giorni dal Ministero, sottolineando come l’intento del Legislatore fosse quello di affidare alla contrattazione collettiva il compito di determinare un periodo di assenza che potesse giustificare l’attivazione della procedura, tenendo in considerazione gli interessi di datori e lavoratori.
Il Ministero ha successivamente confermato la propria posizione – con nota n. 5257 del 10 aprile 2025 – con la ratio che un termine eccessivamente breve avrebbe potuto compromettere il diritto di difesa del lavoratore, che – a detta del Ministero – potrebbe non essere in grado di giustificare in maniera tempestiva la propria assenza. Nella medesima nota, peraltro, il Ministero ha richiamato il principio secondo cui alla contrattazione collettiva non è consentito introdurre previsioni peggiorative rispetto a quanto stabilito dalla Legge, e ciò nonostante dottrina e giurisprudenza siano concordi – in caso di esplicita delega normativa, come nel caso in esame – nel riconoscere alle Parti sociali la possibilità di prevedere una disciplina meno favorevole per i lavoratori.
Sottolinea il CNO dei Consulenti del lavoro che i 15 giorni, nell’ottica del Legislatore, andrebbero intesi solo come termine residuale, diversamente da quanto sostiene il Ministero.
Ma allora perché snaturare una norma? Perché limitare la libertà contrattuale delle Parti? Qual è il vantaggio nel complicare – sempre e comunque – le cose?!
Facendo un passo indietro. Uno degli obiettivi della norma era quello di contrastare – l’ahimè – ormai diffusa pratica di assentarsi per giorni (o addirittura settimane) da lavoro, senza fornire alcuna giustificazione e spesso rendendosi irreperibili, con il solo scopo di farsi licenziare e accedere così al trattamento di disoccupazione. Comportamento che ha causato e causa inevitabilmente danni al datore di lavoro che si ritrova, anzitutto, a dover versare il ticket di licenziamento e che, a seconda del ruolo ricoperto dal lavoratore, si trova una posizione scoperta, senza alcun preavviso e senza poter fare assolutamente nulla, se non far partire una contestazione disciplinare, con tutti i disagi (e i costi) del caso.
Premesso questo, aggiungo un passaggio.
Com’è possibile che non sia ancora stata eliminata la possibilità di accedere alla NASpI nei casi in cui il licenziamento derivi da colpa – grave – del dipendente. Perché mai continuare a tutelare lavoratori che perdono il posto a seguito di un licenziamento per giusta causa?
Posso comprenderlo nel caso di licenziamenti per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo che sia), ma il licenziamento per giusta causa è un licenziamento per colpa grave, dove la condotta del lavoratore è tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, nemmeno momentaneamente.
Un Paese garantista, come il nostro, è giusto – e sacrosanto aggiungerei – che preveda quante più tutele e garanzie possibili nei confronti di soggetti fragili, che non siano in grado, in maniera permanente o in via temporanea, di mantenersi.
Quello che ancora una volta mi chiedo è: ha senso prevedere la medesima tutela e, quindi, inevitabilmente assimilare chi sia stato licenziato per dinamiche esterne (come nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo), chi perda il proprio lavoro involontariamente o resti senza lavoro a seguito di condotte che – per quanto non corrette – si possano comunque definire “lievi”, con chi, invece, deliberatamente e scientemente sceglie di farsi licenziare con l’unico scopo di percepire reddito ai danni dello Stato (e quindi di noi tutti)??
L’ho già detto, ma lo ripeto: qual è la logica nel consentire l’accesso alla NSApI a coloro che siano stati licenziati per giusta causa?
L’introduzione delle dimissioni per fatti concludenti e la conseguente mancata possibilità di usufruire del trattamento di disoccupazione, sicuramente, rappresentano un punto di partenza, ma non dimentichiamoci che il lavoratore può trovare altre vie per portare il datore di lavoro allo sfinimento e farsi licenziare, accedendo comunque alla NASpI.
Ma allora io mi domando: se lo scopo è quello di combattere gli abusi, non andrebbe forse valutato un intervento più corposo?