Qualcuno si ricorderà della serie di film richiamati dal titolo, nei quali la protagonista, una biondissima Renèe Zellweger, interpretava una ragazza che, pur animata dai migliori propositi, finiva per cacciarsi in una serie di situazioni imbarazzanti. Il richiamo non è casuale, perché leggendo il testo appena licenziato definitivamente dal Senato – ed in via di pubblicazione sulla G.U. – si avverte l’impressione, se non di un pasticcio, di una mezza incompiuta su alcuni punti non secondari. L’intento, fin troppo palese, di alcuni passaggi dell’articolato normativo è quello non di una rivoluzione epocale che affrontasse i grandi temi sempre dibattuti e altrettanto irrisolti (per dirne uno, la rappresentanza), bensì di una “manutenzione” volta a semplificare e razionalizzare alcune piccole vicende del vivere (lavoristico) quotidiano. Operazione che in qualche parte è riuscita, anche egregiamente, non solo dove l’aggiustamento aveva un sapore quasi tautologico (ad esempio, la comunicazione differita del lavoro agile era già stata risolta per via di prassi), ma che presenta in altri punti parecchie criticità, finendo per non risolvere definitivamente la questione, forse pure complicandola. Anzitutto: perché c’è bisogno di una manutenzione e razionalizzazione? Perché il legislatore (questa entità astratta che spesso non coincide affatto con il Parlamento quanto semmai con manine, lobby e commissioni di studio di varia estrazione) quando scrive una legge ha in mente tutto fuorché le ricadute pratiche di ciò che decide. È un po’ come se un consiglio comunale facesse un piano regolatore giocando al Monopoli invece che sulla pianta vera della città, peccato che Parco della Vittoria esiste davvero (e quindi spesso si finisce tutti in un… Vicolo Corto, anzi Cieco). E se il legislatore del 2024 aggiusta malamente cose dei legislatori precedenti, vuol dire che questo virus della (per usar un eufemismo) astrattezza non ha colore politico e dove coglie coglie. Prendiamo ad esempio, il periodo di prova nel tempo determinato. Il legislatore del 2022 (D.lgs. n. 104/2022) copia malamente e astrusamente (e, dove può peggiora) una Direttiva UE riproponendola in Italia, dove la copertura della contrattazione collettiva (rappresentanza e fantasia delle parti sociali permettendo) risolve un bel po’ di problemi che nel resto d’Europa ci sono. Nel caso specifico (art. 7), dispone che nel tempo determinato il periodo di prova debba essere stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere. Cosa significa durata proporzionale? E, soprattutto, come si calcola? Da due anni ci si arrabatta alla meno peggio, ciascuno con proprie formule ed intendimenti, cercando di applicare la logica (magari stando dalla parte della ragione o della prudenza) e magari di seguire qualche indirizzo giurisprudenziale (non più di un terzo della durata, non più della metà, e così via). Il legislatore del collegato lavoro interviene a togliere un’incertezza, così vorrebbe, e statuisce in modo tranchant un criterio di calcolo uguale per tutti: un giorno ogni 15 di durata, non meno di 2 e non più di 15 giorni (per rapporti a termine fino a 6, portati a 30, se il rapporto è oltre i sei mesi e dura meno di un anno). Ma qui il legislatore del 2024 si dimentica di un pezzo non indifferente – anzi molto molto importante – della norma del pur vago legislatore precedente e cioè che la prova, sia per logica sia per l’espressione stessa del decreto del 2022 e della norma UE, deve essere messa in relazione anche alle mansioni stesse esercitate dal lavoratore. Così, a novella normativa in vigore, un addetto allo scarico delle merci (o un fattorino) ed un operaio specializzato (o un capo contabile), entrambi assunti per sei mesi, avranno lo stesso periodo massimo di prova (15 giorni). Vi pare logico? (A me no). La ratio, del tutto ideologica, che accompagna tali misure è che il periodo di prova sia una cosa brutta e sfavorevole per il lavoratore; mentre invece è un periodo in cui lo stesso ha la facoltà e l’opportunità di dimostrare quanto vale, tant’è che sono stati cassati dalla magistratura periodi di prova terminati troppo in fretta, proprio per non aver dato la possibilità concreta al dipendente di dimostrare il proprio valore, al di là di qualche sbavatura che, specie ad inizio lavoro in un ambiente nuovo, è ben possibile. E invece no, caro capo contabile, alla prima moltiplica sbagliata per distrazione, via, fuori, raus, che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Il bello è che questo bias ideologico accompagna in egual misura schieramenti politici obiettivamente opposti. Volete una prova? Il suddetto metodo di calcolo è preceduto da un “fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva”. Ora, la contrattazione collettiva, a cui in Italia sono demandati ampli compiti regolatori, in questo caso potrà operare non secondo logica peculiare e condivisa (sarebbe bastato non mettere quelle due paroline in corsivo), ma solo in senso più favorevole. E qui, ad avviso di chi scrive, l’appassionante ed annoso dibattito accademico su cosa sia più favorevole al lavoratore (un periodo di prova più lungo, ove poter dimostrare la propria perizia, o uno più corto, per ricadere prima nelle tutele dell’ordinamento in caso di recesso?) è annullato in radice per mero sillogismo. Se infatti la norma in cui si inserisce la novella legislativa prevede una proporzionalità del periodo di prova in relazione al fatto che il rapporto sia a tempo determinato, ciò non può che andare nel verso di una riduzione rispetto al tempo ordinario, cosa evidente anche dall’intervento qui in commento. Pertanto, rispettando tale direzione, la disposizione più favorevole non potrà che prevedere un tempo minore di quello stabilito dal legislatore, non certo maggiore. Beh, dirà qualcuno, però così almeno il problema è risolto, magari con qualche sbavatura, ma senza più incertezze. Mica tanto. Che succede se il rapporto a tempo determinato è di un anno esatto (la norma parla di “inferiore” ad un anno)? Perchè anche il rapporto a tempo a termine di un anno è a tempo determinato (addirittura acausale) e, a seguire la norma del 2022, ci si potrebbe aspettare anche lì un riproporzionamento. Oppure no? E se il rapporto a termine è in sostituzione di un lavoratore o di una lavoratrice o per altre ragioni incerto sulla data finale? In quest’ultimo caso, il calcolo preciso preciso di un legislatore che si è divertito a giocare con il pallottoliere, a che serve? Che dubbi risolve? Ci sarebbe un’altra domanda, in fondo: ma se questo testo gira dal 1° maggio dello scorso anno (dove, in occasione della Festa dei lavoratori, fu salutato trionfalmente da qualcuno come il colpo di genio della normazione lavoristica) prendendosi critiche costruttive sostanzialmente simili a questa (anche su questa Rivista) e altrettanto volenterosi e collaborativi (e speranzosi!) suggerimenti di miglioramento, quale spocchia malsana (non ho altre ipotesi, sono maligno?) ha preteso che il testo fosse dato alla luce con le malformazioni genetiche (modificabilissime) rilevate per tempo? Non ci voleva un genio per scrivere, ad esempio: “Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi e con riferimento alle mansioni assegnate al lavoratore, il periodo di prova, in ogni caso non superiore a sei mesi, non può superare la metà della durata del tempo determinato inizialmente prevista o, se mancante, prevedibile; tale regola non si applica alle assunzioni a termine in sostituzione”. Lasciar fare ai contratti collettivi, e per il resto mettere una norma agevole e chiara era così difficile? Che poi, siccome intanto la possibilità del tempo determinato prevede l’acausalità nei primi 12 mesi e la possibilità di quattro proroghe, sapete cosa succederà in qualche caso? Che i datori di lavoro utilizzeranno una di quelle proroghe per confezionarsi artigianalmente un periodo di prova su misura. Detto in altre parole, se intendi combattere la precarietà senza lungimiranza, ti ritrovi la precarietà peggiore strisciante sotto il tavolo. Così, caro capo contabile, invece di un annetto scarso (se ti assumo il due gennaio e vado fino al 31 dicembre è meno di un anno) con tre sacrosanti mesi di prova previsti ordinariamente dal contratto collettivo per la tua importante mansione, avrai un tempo determinato di tre mesi che sarà la vera prova (ma in cui tu, se capitato male, non potrai liberarti prima), corredato oltretutto di una prova di 6 giorni (un vero insulto alla tua professionalità), e poi si vedrà. Con tanti saluti e baci a chi voleva proteggerti con una norma ideologica (prima) e una realizzazione improvvida, dopo. Ah, guarda che se a tre mesi meno un giorno ti ammali seriamente, il giorno dopo il rapporto finisce. Per cui… riguardati. … Ci sarebbero diverse altre criticità da evidenziare di questo (poco) collegato lavoro, ma Natale è alle porte e la naturale bontà del periodo ci pervade. A proposito, un caro augurio a tutti.