Cass., sez. Lavoro, 30 luglio 2024, n. 21351
La Suprema Corte viene investita della richiesta di riesame del giudizio di appello, che ha confermato la legittimità del licenziamento del lavoratore. Il lavoratore era stato licenziato a seguito di contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro, che lo aveva trovato a svolgere attività lavorativa in un maneggio durante la sua assenza dal lavoro per infortunio. A seguito della predetta attività, aveva subito un aggravamento dell’infortunio che comportava un intervento chirurgico al polso e il relativo protrarsi della richiesta di stato invalidante temporaneo nei confronti del datore di lavoro. Il giudice di appello aveva confermato il giudizio di primo grado sulla legittimità del licenziamento, ritenendo che il licenziamento disciplinare fosse stato comminato non tanto per l’avvenuto aggravamento dello stato di salute oppure per il ritardo della guarigione bensì per l’incompatibilità dei comportamenti tenuti con colpa grave dal lavoratore, di per sé idonei a pregiudicare un recupero. Riteneva inoltre che la condotta del lavoratore, protratta per un lungo periodo di tempo, oltre due mesi, e caratterizzata da inescusabile negligenza e noncuranza nei confronti del proprio lavoro, stante l’idoneità lesiva delle attività svolte, integrasse una giusta causa di recesso. Il ricorso agli Ermellini, presentato su tre motivi dal lavoratore, viene rigettato. Per il primo motivo di ricorso, viene addotta la violazione o falsa applicazione del principio di immutabilità del fatto contestato, con riferimento al contenuto della lettera di contestazione disciplinare, sulla base di un giudizio ex post chiaramente espresso nella lettera di contestazione disciplinare, mentre la sentenza impugnata ha considerato quale fatto contestato lo svolgimento di attività incompatibile con lo stato di salute, secondo un giudizio ex ante. Il secondo motivo di ricorso denuncia, in via subordinata, l’errata interpretazione in relazione al principio secondo cui il giudizio ex ante deve tenere conto della natura della patologia derivante dall’infortunio riconosciuto dall’Inail, nel caso specifico, della impossibi lità di guarire senza l’intervento chirurgico programmato già prima che il lavoratore svolgesse le attività che ne avrebbero compromesso la guarigione, sulla base delle circostanze del caso concreto. Il terzo motivo del ricorso sostiene che la sanzione risulta non proporzionale, anche con riferimento all’addebito relativo all’avere potenzialmente compromesso la guarigione. Il primo motivo, viene considerato infondato: ribadiscono ancora gli Ermellini che l’interpretazione di un atto negoziale, a cui sono equiparati gli atti unilaterali, è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o di motivazione inidonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico della decisione. La Corte di merito ha interpretato la lettera di contestazione disciplinare ritenendo che fosse addebitato al dipendente non tanto l’avvenuto aggravamento del proprio stato di salute oppure il ritardo della guarigione, bensì la vera e propria incompatibilità dei comportamenti tenuti con colpa grave dall’odierno reclamante, i quali di per sé erano idonei a pregiudicare un recupero, anche se poi ciò non è avvenuto e ha quindi ritenuto l’addebito mosso come relativo allo svolgimento di attività potenzialmente idonea, secondo un giudizio ex ante, a pregiudicare o ritardare la guarigione. La pretesa del lavoratore, di una diversa lettura della contestazione, fa leva sulla espressione ivi contenuta, secondo cui il lavoratore avrebbe pregiudicato notevolmente il raggiungimento del recupero, che si assume significativa di un giudizio ex post sui concreti effetti negativi del comportamento addebitato. Tale lettura alternativa è costretta a sminuire e a svilire il contenuto di altre espressioni, evidentemente considerate più pregnanti dai giudici di merito, ed esattamente quelle che sottolineano il carattere “incompatibile” delle attività svolte con il “dichiarato stato di salute” e il “contrasto con la finalità di recupero dell’integrità psico-fisica propria del periodo di infortunio riconosciuto”. In base ai principi di diritto sopra richiamati, la giustapposizione delle diverse letture, ciascuna incentrata sulla valorizzazione di alcune locuzioni a scapito di altre, è sufficiente a far escludere la violazione dei canoni ermeneutici e, quale logica conseguenza, anche del principio di immutabilità della contestazione disciplinare. Il secondo motivo è infondato perché se è vero che il lavoratore assente per malattia, legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi attività ludica o di intrattenimento; tuttavia quest’ultima non solo deve essere compatibile con lo stato di malattia, ma deve essere altresì svolta in modo conforme all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro e dunque, ha correttamente interpretato la Corte di Appello i principi di diritto ritenendo che la natura della patologia e l’attività esterna al rapporto di lavoro, protratta per un lungo periodo di tempo, orientassero per l’accertamento di un inadempimento contrattuale. L’infondatezza del terzo motivo è direttamente derivante dalla corretta interpretazione della Corte di Appello. Sostengono gli Ermellini che la Corte d’Appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa e di proporzionalità della misura espulsiva, ed ha motivatamente valutato la gravità dell’infrazione, in particolare sottolineando la “inescusabile negligenza e noncuranza nei confronti del proprio lavoro, stante l’idoneità lesiva delle attività svolte” trattandosi di comportamenti che “a causa della loro ripetizione costante nel tempo e per un lungo periodo” esprimevano una grave violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza idonea a far venire meno la fiducia del datore di lavoro nei successivi adempimenti.