Sentenze – Superamento del periodo di comporto per infortunio in itinere: diritto alla conservazione del posto e mancata inclusione nei calcoli

Riccardo Bellocchio , Consulente del Lavoro in Milano

Cass., sez. Lavoro, 30 luglio 2024 n. 21242

La sentenza della Cassazione in commento riguarda il caso di un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto, ossia il tempo massimo entro cui un dipendente può assentarsi per malattia senza perdere il posto, dopo essere stato assente per 391 giorni. La Corte d’Appello di Milano aveva respinto il reclamo del lavoratore, confermando il licenziamento. Il lavoratore ha fatto ricorso in Cassazione, sostenendo che i giorni di assenza per un infortunio in itinere (cioè un incidente avvenuto nel percorso casa-lavoro) non dovessero essere conteggiati ai fini del comporto, secondo quanto previsto dall’art. 50 del contratto collettivo applicato al lavoratore che espressamente escludeva l’infortunio dal calcolo del comporto per sommatoria ai fini del superamento dei limiti temporali di conservazione del posto. La Cassazione, dopo aver affermato che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (Cass. 15972 del 2017; Cass. n. 5413 del 2003 cit.), ha accolto il ricorso del lavoratore perché nessuna norma imperativa vieta che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del periodo di comporto, cui fa riferimento l’articolo 2110 c.c., quelle dovute a infortuni sul lavoro o malattie professionali, nè tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa disposizione, che, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, quale è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi. Pertanto, essendoci una norma contrattuale specifica che esclude l’infortunio sul lavoro dal computo, la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello, ordinando un nuovo esame del caso e regolazione delle spese.


Scarica l'articolo