Sentenze – Rilevanza della condotta del lavoratore in caso di licenziamento per giusta causa

Riccardo Bellocchio, Consulente del Lavoro in Milano

Cass., sezione Lavoro, 26 settembre 2023, n. 27363

Presso la massima Corte veniva presentato il caso di una Fondazione artistica che aveva licenziato un proprio dipendente per giusta causa per una serie di episodi di “apprezzamento” nei confronti dei colleghi dell’altro sesso. La Corte d’Appello riformava la prima sentenza di illegittimità del licenziamento, accettando, in parte, le doglianze della Fondazione. Il lavoratore proponeva richiesta di revisione presso Cassazione lamentando che la corte territoriale aveva inteso il comportamento del lavoratore come “molestie generiche” o “sessuali” senza che il dipendente non avesse proposto denuncia in sede penale. E che nella contestazione iniziale la Fondazione aveva inteso contestare condotte abituali e reiterate e non un caso specifico. La Cassazione non aderisce a tale ricostruzione del lavoratore perché la motivazione secondo la quale non avrebbe alcuna rilevanza quale significato il lavoratore abbia inteso attribuire alla propria condotta, se abbia inteso dare una pacca sulla schiena o abbia invece mirato proprio a colpire il sedere di una delle colleghe dipendente, se abbia agito con intento goliardico oppure con concupiscenza e malizia, non risulta dirimente per la decisione del caso. La suprema Corte conferma l’operato della corte territoriale anche sotto il profilo delle evidenze processuali rilevando come non possa ragionevolmente sostenersi che tra persone, il cui rapporto è connotato da assoluta formalità (ovvero dalla totale assenza di atteggiamenti confidenziali tra i protagonisti dei fatti), si possa essere instaurato quel clima cameratesco che avrebbe originato (e “scriminato”) le condotte del lavoratore licenziato”. Secondo la Corte, perciò, “i protagonisti degli eventi all’origine del licenziamento non erano camerati volontariamente inclini ad intrattenere uno scherzo “pesante”, bensì un Capo del Personale – pure Responsabile della Prevenzione e Corruzione e Responsabile della Trasparenza – e due sottordinate che a costui si rivolgevano dando del lei e con il rispetto dovuto ad un soggetto in posizione di superiorità gerarchica”. La Suprema Corte nel rigettare il ricorso del lavoratore affermava infine che “tale irrimediabile lesione del vincolo fiduciario è consequenziale anche ed in specie al peculiare ruolo di Capo del personale rivestito dal lavoratore, ed alle connesse responsabilità, e dal venir meno di quel sereno affidamento circa la corretta esecuzione dei compiti affidatigli, in ragione dell’atteggiamento irrispettoso manifestato verso le lavoratrici e dell’ambiente professionale del teatro in cui tale figura apicale deve sapere correttamente relazionarsi con le dipendenti siano esse amministrative o appartenenti all’area artistica “soggiungendo che: “Le condotte censurate hanno, poi, compromesso l’organizzazione del lavoro all’interno della Fondazione anche in ragione del comprensibile turbamento delle relazioni gerarchiche che il lavoratore, sovraordinato, doveva intrattenere con gli altri dipendenti”.


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