Cass., sez. Lavoro, 18 ottobre 2023, n. 28923
Una lavoratrice propone ricorso avverso la sentenza della Corte territoriale che ha escluso, per difetto di prova, la fattispecie del mobbing. La Corte d’Appello di Milano, invero, aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva condannato la società datoriale al risarcimento del danno da demansionamento (pari al 30% della retribuzione percepita dal 2007 al 2018 e al 70% della retribuzione relativa al periodo successivo e fino alle dimissioni della lavoratrice) e del danno biologico (valutato in 6 punti percentuali e con personalizzazione al 40%, oltre che per inabilità temporanea), nonché alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso in ragione della giusta causa delle dimissioni. La Corte territoriale aveva escluso il mobbing, per difetto di prova di un disegno persecutorio nei confronti della lavoratrice, aveva negato il risarcimento del danno da perdita di chances per la genericità delle illazioni e/o supposizioni del tutto astratte e aveva negato anche il risarcimento del danno esistenziale, non essendoci state indicazioni circa le opportunità perdute dalla dipendente. La lavoratrice motiva alla Suprema Corte che il suo progressivo demansionamento facesse parte di una più ampia strategia aziendale volta all’allontanamento della stessa, divenuta nel frattempo destinataria di aggressioni verbali, urla e violazioni della privacy mediante lettura della posta, oltre alla privazione di strumenti di lavoro (pc e telefono aziendale). La Suprema Corte, confermando gli orientamenti già maturati (v. da ultimo Cass., n. 3692 del 2023), ritiene che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorre l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona, interni al rapporto di lavoro con l’intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, il tutto secondo l’assetto giuridico inquadrabile nell’ambito civilistico di danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro. È invece configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie. In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, è ravvisabile la violazione dll’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno o attui comportamenti, anche in sé non legittimi ma, tali da poter indurre disagio e stress. Per quanto riguarda invece la perdita di chance, la Suprema Corte ha ormai da tempo evidenziato che la stessa debba intendersi come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato e non una mera aspettativa di fatto, ma un’entità patrimoniale a sé stante giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione. Il danno da perdita di chances non coincide con il risultato al quale si aspira e va pertanto commisurato alla probabilità di conseguire il bene al quale il danneggiato aspirava. Prosegue la Suprema Corte nel rimarcare che ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione. Per tutte le ragioni su esposte, la Suprema Corte respinge il ricorso.