Sentenze – Mobbing e la mancata prova da parte del lavoratore

Clara Rampollo , Consulente del Lavoro in Pavia

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Cass., sez. Lavoro, 3 giugno 2025, n. 14890

La vicenda vede protagonista una dipendente a cui sono state irrogate delle sanzioni disciplinari che in risposta ha richiesto un risarcimento per presunto mobbing in ambiente di lavoro nocivo. In primo grado la dipendente ottiene con sentenza del Tribunale di Torino l’annullamento delle sanzioni disciplinari e la condanna del datore di lavoro al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento danni, ma non l’inquadramento ad un livello superiore ed il riconoscimento degli straordinari. L’azienda propone ricorso in appello e la Corte d’Appello di Torino, riformando la pronuncia di primo grado, respinge le richieste di risarcimento della dipendente e conferma le sanzioni disciplinari perché vengono valutate in diverso modo le prove testimoniali, contesta l’errata applicazione del principio di non contestazione, escludendo infine la configurabilità sia del mobbing che dello straining. La dipendente ed anche l’azienda hanno proposto ricorso e la Corte ha deciso di esaminare per ragioni di pregiudizialità logica-giuridica prima le ragioni della dipendente che sono: – Violazione del principio di non contestazione; – Errata valutazione delle risultanze istruttorie; – Omessa considerazione della valutazione del CTU; – Omesso esame di fatti decisivi. Tutti questi motivi sono stati rigettati; infatti, la Corte ha ritenuto che la difesa del datore di lavoro fosse fondata sulla negazione delle condotte mobbizzanti allegate dalla ricorrente, rendendo inapplicabile il principio di non contestazione; l’accertamento della sussistenza di una contestazione rientra in esclusiva nei poteri del giudice di merito. Il secondo motivo è stato rigettato perché nel caso specifico la Corte d’Appello ha escluso sia l’esistenza del mobbing/straining sia la sussistenza di condotte antigiuridiche, ritenendo che le azioni del datore di lavoro rientrassero nel legittimo potere direttivo e di controllo dell’imprenditore. Il terzo ed il quarto motivo non sono stati accolti perché la consulenza tecnica era basata su circostanze ritenute non contestate dal primo giudice; esclusa l’applicazione del principio di non contestazione, la CTU risultava superflua ed infine non è ravvisabile l’omesso esame di un fatto decisivo. L’unico motivo di ricorso accolto è quindi quello del datore di lavoro che richiedeva la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. cioè in esecuzione della sentenza di primo grado si contesta l’omessa pronuncia da parte della Corte d’Appello sulla domanda di restituzione delle somme percepite dalla lavoratrice. Rinviando la causa alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione si evidenziano quattro principi giuridici rilevanti: – Principio di non contestazione: l’accertamento della sussistenza di una contestazione rientra nei poteri del giudice di merito; – Onere della prova: è il lavoratore che deve provare sia il danno che la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale; – Valutazione delle prove: è riservata al giudice di merito ed è sindacabile in Cassazione solo per vizi specifici; – Motivazione: è sindacabile solo per violazione del “minimo costituzionale”. Questa sentenza della Cassazione, la n. 14890/2025, rappresenta un importante precedente in materia di mobbing e straining sul luogo di lavoro, ribadendo l’importanza dell’onere della prova in capo al lavoratore, la distinzione tra legittimo esercizio del potere direttivo e condotte vessatorie, l’autonomia del giudice di merito nella valutazione delle prove e non da ultimo la necessità di pronunciarsi su tutte le domande delle parti. Questa decisione offre quindi importanti linee guida per la gestione delle controversie in materia di ambiente di lavoro nocivo e di tutela della salute dei lavoratori.

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