Cass., sez. Lavoro, 26 giugno 2024, ordinanza n. 17586
Questo articolo si propone di analizzare il caso di B.M., operaio metalmeccanico che adiva il Tribunale di Ivrea per accertare la legittimità del mutamento di mansioni al quale era stato sottoposto in seguito ad un infortunio e alle conseguenze patite, per le quali l’Inail aveva riconosciuto l’invalidità permanente al 18%. L’azienda datrice di lavoro aveva adibito inizialmente il lavoratore a mansioni di portineria equivalenti alle originarie e, successivamente, a mansioni inferiori di carico e scarico di pesi, per le quali era fisicamente inidoneo date le sue condizioni fisiche successive all’infortunio. Il Tribunale, per tutta risposta, rigettava le domande della parte attrice. Nel 2013 anche la Corte d’Appello di Torino rigettava il ricorso del dipendente, ritenendo che il demansionamento non fosse pregiudizievole ma che fosse stato disposto valutando esclusivamente le specifiche competenze del lavoratore e che non determinasse un peggioramento delle sue condizioni di salute. Nel 2018 la Suprema Corte di Cassazione ribaltava la situazione: accoglieva il ricorso del dipendente, cassava la sentenza di appello e rinviava per un nuovo giudizio di merito. Nel frattempo, però, il dipendente veniva a mancare; quindi, il nuovo giudizio vedeva l’unico suo erede costituirsi in sua vece. La Suprema Corte fonda la sua decisione su due motivi in particolare: con il primo motivo di ricorso, l’erede del dipendente lamenta un’omessa pronuncia sull’illegittimità del mutamento di mansioni ex art 2103 c.c., in violazione dell’art. 112 c.p.c. (corrispondenza tra chiesto e pronunciato). Il de cuius, a suo tempo, aveva richiesto la condanna della società in forma specifica, ossia la reintegrazione nelle mansioni di addetto alla portineria o equivalenti, senza richiedere alcuna verifica riguardo all’illegittimità del mutamento di mansioni. La dipartita del diretto interessato, però, aveva determinato il venir meno del rapporto di lavoro e aveva reso impossibile disporre il reintegro del lavoratore alle sue mansioni originarie. A questo punto gli Ermellini, sulla scia di una precedente pronuncia (Ordinanza n. 28100 del 2017 della Corte di Cassazione) deliberano a favore del ricorrente: nonostante sia venuta meno la possibilità di condannare in forma specifica la società, non si sarebbe estinta la possibilità né l’interesse del dipendente all’accertamento della legittimità del mutamento di mansioni ex art. 2103 cc. In sostanza, la domanda di condanna all’adempimento in forma specifica implica l’accertamento (pregiudiziale) intrinseco dell’inadempimento dello stesso obbligo, dal momento che “solo se sussiste tale inadempimento sarà possibile per il giudice condannare il convenuto all’adempimento della specifica prestazione”. Il secondo motivo di ricorso è strettamente connesso al primo e riguarda la sussistenza dell’interesse ad agire in relazione all’accertamento dell’illegittimità della variazione di mansioni (“violazione e falsa applicazione” dell’art. 100 c.p.c.). L’interesse ad agire non doveva essere valutato soltanto rispetto all’unica domanda espressamente proposta, ossia quella della condanna della società alla reintegrazione nelle mansioni di portineria o simili. L’interesse del ricorrente doveva essere valutato anche dal punto di vista dell’accertamento dell’obbligo, il quale permane anche nel caso in cui sia sopravvenuta l’impossibilità all’adempimento in forma specifica al momento della decisione. Per la Corte, dunque, è legittimo agire in giudizio per l’accertamento di un illecito che, nel caso di specie è costituito dal demansionamento, anche se il rapporto di lavoro è previamente cessato. L’attore conserverebbe l’interesse ad agire anche se, al momento della decisione dovesse essere sopravvenuta l’impossibilità di soddisfare le richieste dell’attore.