Sentenze – Licenziamento ritorsivo: limiti e applicabilità

Riccardo Bellocchio, Consulente del Lavoro in Milano

Cass., sez. Lavoro, 9 gennaio 2024, n. 741

L’ analisi dell’impugnazione della sentenza del Tribunale di Venezia, in secondo grado, nel quale condannava il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore, espulso per giusta causa, in quanto giudicato dal tribunale licenziamento ritorsivo, offre alla Corte l’occasione per chiarire le fattispecie del licenziamento ritorsivo e distinguerlo dal licenziamento illegittimo per mancanza del requisito della giusta causa. Il caso prende vita quando ad un commesso viene contestata, nel giro di un breve periodo (da giugno 2015 a febbraio 2016) una serie di inadempienze specifiche che il lavoratore aveva impugnato giudizialmente, fino all’ultima quando oltre alle precedenti, viene contestata anche uno “strattonamento” nei confronti di un responsabile che comportava quindi il provvedimento espulsivo per giusta causa. Il Tribunale di Venezia giudicava, nel merito, che il provvedimento espulsivo non era giustificato per carenza di proporzionalità tra i fatti contestati e il licenziamento e quindi, non sussistendo la giusta causa, riformava la prima sentenza favorevole al lavoratore, condannando però il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore perché aveva ritenuto che la mancanza di proporzionalità tra i fatti addebitati e la giusta causa portasse a determinare come ritorsivo il licenziamento, cioè che il datore di lavoro avesse come unico motivo determinante per interrompere il rapporto di lavoro l’intento ritorsivo e non che il motivo lecito formalmente addotto al lavoratore fosse giudicato tale da non integrare una giusta causa di recesso. La Corte quindi, nell’accogliere la doglianza del datore di lavoro sul comportamento del Tribunale, ribadisce che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art, 1418 secondo comma e degli articoli 1345 e 1324 del codice civile. La corte infatti valorizza la disposizione dettata dall’art. 1345 c.c. che derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all’art. 1324 c.c. e che trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali (come il licenziamento) laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dall’art. 1342 c.c., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. (Cass., n. 20197 del 2005). Il motivo illecito si colloca quindi su un piano nettamente distinto dal (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento previsto dall’art. 3 della Legge n. 604 del 1966. Quest’ultimo, al pari della giusta causa (art. 2119 c.c.) costituisce presupposto del legittimo esercizio del potere disciplinare o organizzativo attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento. Il motivo illecito, invece, afferma la Corte, che deve avere efficacia determinativa esclusiva, rende l’atto datoriale contrario ai valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale e ne determina la nullità. Esso rileva indipendentemente dal motivo addotto come recita l’art. 18, comma 1 della Legge n. 300/1970 nell’attuale versione. L’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento perché fondato su motivo illecito esige la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare una ipotesi di legittima risoluzione del rapporto dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento. Poiché quindi il motivo illecito attiene alla sfera dell’elemento psicologico o alla finalità dell’atto datoriale, la sua efficacia determinativa esclusiva va verificata in relazione all’assenza di altre motivazioni o ragioni astrattamente lecite, restando su un piano ancora diverso la valutazione di tali ragioni rispetto ai parametri normativi di giusta causa o giustificato motivo. In sostanza poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, ove il potere di recesso sia esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare del lavoratore, la concreta valutazione di gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento in quanto andranno valutate il carattere punitivo rispetto alla sproporzione del provvedimento. La Corte chiude infatti nella sua sentenza affermando “come in tema di licenziamento nullo, il carattere unico e determinante del motivo ritorsivo non può desumersi unicamente dalla mancata integrazione per difetto di proporzionalità, dei parametri normativi della giusta causa, ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva idonea a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità anziché in quella della illegittimità”.


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