Sentenze – Licenziamento per giusta causa: lesione immagine e prestigio del datore di lavoro su social network

Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro di Milano

Cass., sez. Lavoro, 22 dicembre 2023, n. 32248

La Corte d’Appello di Bari ha respinto il reclamo del lavoratore, confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento per giusta causa. La Corte territoriale ha premesso che con lettera del 16.4.2015 è stata mossa al dipendente la seguente contestazione disciplinare: A seguito di recenti segnalazioni è risultato che ella abbia pubblicato nella sua bacheca Facebook, in maniera visibile dalla generalità degli utenti, alcuni commenti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili e di persone notoriamente legate alla azienda medesima. Ci riferiamo in particolare, alle pubblicazioni di seguito testualmente riportate: (18 febbraio 2015) (omissis). Con lettera del 15.5.2015 è stato intimato il licenziamento sul rilievo che i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro. La sentenza d’Appello – ha escluso la violazione dell’art. 7 St. Lav. avendo accertato che la richiesta di audizione formulata dal lavoratore non risultava recapitata; – ha ritenuto che fosse onere del lavoratore provare la conoscenza da parte datoriale della richiesta di audizione, trattandosi di atto recettizio e che tale onere non era stato assolto; – ha ritenuto che non era emersa alcuna responsabilità della società per problemi nella ricezione; che la conoscenza da parte datoriale dell’istanza di audizione non poteva neppure desumersi dalla fruizione del permesso sindacale, richiesto dal lavoratore, trattandosi di elemento presuntivo generico ed equivoco. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, ha resistito con controricorso il datore di lavoro. Sul tema della richiesta di audizione, avvenuta a mezzo di mail ordinaria, occorre considerare che il sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario. La Corte di Cassazione, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria” (Cass. n. 15345 del 2023). Non possono invocarsi, in relazione alla trasmissione tramite e-mail, i principi enunciati a proposito della spedizione di una raccomandata o di un telegramma in ragione della non equiparabilità dei sistemi di gestione dei rispettivi servizi (servizio di posta elettronica e servizio postale). Difetta quindi la prova, nel caso di specie, della ricezione da parte della società della richiesta di audizione inviata tramite e-mail, risultando insufficiente la avvenuta dimostrazione dell’invio della richiesta medesima; dal che discende l’insussistenza del vizio di violazione dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 1335 c.c. Nel caso in esame, la Corte di merito ha spiegato che “dall’eventuale accertamento della effettiva fruizione del permesso sindacale da parte del lavoratore giammai potrebbe trarsi implicitamente la prova che la società abbia ricevuto quella mail perché non può escludersi che, se davvero effettiva, la fruizione del permesso sindacale sia avvenuta a seguito e per effetto della presentazione della relativa istanza secondo modalità diverse dall’inoltro della mail […] come una domanda cartacea o altre modalità. Come in passato accaduto stando alla documentazione esibita al riguardo dalla società resistente”. La Corte ha poi considerato dirimente la circostanza per cui lo stesso lavoratore, in sede di interrogatorio formale, aveva riferito di non ricordare né se diede incarico al segretario del sindacato di chiedere per suo conto la fruizione del permesso sindacale per la giornata del 7 aprile, né se effettivamente fruì di tale permesso. La correttezza logico giuridica delle argomentazioni svolte dai giudici di merito non è inficiata dalle censure articolate sul punto dal ricorrente e assorbe anche la critica sulla mancata ammissione delle relative prove testimoniali. Sull’esercizio del diritto di critica, si è riconosciuto, in linea generale, come al lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro […] ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale” (così Cass. n. 19350 del 2003 in motivazione). Con particolare riferimento alla posizione del lavoratore – sindacalista la Corte di Cassazione, con indirizzo costante, ha affermato che, sebbene garantito dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, il diritto di critica “incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.) di tutela della persona umana, con la conseguenza che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore possa essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (così Cass., n. 19350 del 2003; Cass., n. 7471 del 2012; n. 18176 del 2018). Tali limiti al diritto di critica del lavoratore, che sia anche rappresentante sindacale, sono stati ribaditi pur rilevando come il predetto agisca sotto una duplice veste, in quanto “quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, (mentre) in relazione all’attività di sindacalista si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo” (così Cass. n. 7471 del 2012; n. 18176 del 2018).

La Corte di merito si è attenuta ai principi di diritto appena richiamati e, con accertamento in fatto non suscettibile di revisione in sede di Cassazione ha escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore. Tale accertamento esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto.


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